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Noi eravamo il mondo: oggi siamo una discarica (autorizzata). La fine ingloriosa della scuola Canziani di Varese, fiore all’occhiello dell’istruzione della CittĂ Fiorita.

Un bellissimo murale realizzato dalla scuola Canziani Ogni tanto qualche buon amico mi ricorda che nasco cronista, e che il mio lavoro fino a non molto tempo fa consisteva nel prendermi cura del tempo presente e delle sue storie.
Alcuni giorni fa avevo captato sulla bacheca del seguitissimo blog di Mauro Gregori, Varese la vedo così, la denuncia di una situazione di degrado nei pressi della fu elementare Canziani; così, approfittando di una mattinata relativamente libera, settimana scorsa mi sono presentata in quei luoghi a me tristemente cari per approfondire.
Tanto mi è appunto cara quella scuola, quanto rappresenta, assieme all’Addolorata, una delle ultime mie e più appassionate indagini per il giornale La Provincia di Varese, chiuso il quale non ebbi più voglia di proseguire a raccontare l’oggi della mia città , quasi mi sentissi di tradire la memoria degli ultimi, disperati mesi trascorsi, con i pochi sodali rimasti sulla barca, a mantenerne in vita pagine e storie che eravamo stati deputati a raccogliere e a testimoniare.

L’aula informatica della Canziani nel 2017 Ero riuscita, nonostante tutto, a prendermi una decina di giorni di ferie in quell’estate torrida e febbrile, bruciata fra le corse dal Palazzo cittadino a questo e quel quartiere e le volate in redazione a concordare le pagine che in cinque o sei, ma forse anche di meno, avremmo dovuto riempire in meno di mezza dozzina di indefessi, benchĂ© di pagine, ormai, ne fossero rimaste davvero poche. Eppure, come se il giornale fosse stato una rosa che sfogliava malinconicamente i suoi petali piĂą belli e profumati, ci eravamo spartiti i diversi filoni in maniera viscerale, quasi piĂą per dedizione alla materia che alla convinzione sincera di evitare l’irreparabile.  Â
Ai non pochi lettori che ci dimostravano il consueto affetto – purtroppo non sufficiente a passare l’anno indenni – offrivamo in quei mesi ben oltre il puro spirito di servizio che già da solo rende onore alla professione giornalistica, quando svolta senz’altro padrone che l’amore per la notizia veritiera. Così, quando seppi che i traslochi della Canziani alla Don Bosco e dell’Addolorata da via Luini all’attuale Righi si sarebbero consumati proprio durante le mie ferie, chiesi insistentemente, ed ottenni dal mitico Caio (Francesco Caielli), il direttore, di tornare in opera a seguirle.

Un’aula dell’Addolorata di via Bernardino Luini nel maggio 2017, prima del trasferimento Non che fossi una giornalista modello con chissĂ quali titoli ed esperienza: ero arrivata tardi al secondo quotidiano varesino, dopo ambizioni letterarie chiuse nel cassetto, una pausa familiare piuttosto impegnativa e un nuovo percorso maturato nella recensione libraria e gastronomica e nel civismo cittadino; e per questo curriculum piuttosto eccentrico mi ero fatta una fama di ribelle ed eclettica che era piaciuta ai miei ed era guardata con immancabile sospetto dagli avversari.
Se c’era un argomento che mi andava di traverso – qualche cerimonia stantia o una certa conferenza stampa sul sesso degli angeli – mi inventavo di tutto pur di sbolognare a qualche collega la patata bollente; d’altra parte era famigerata la mia predilezione per quello che nessun altro avrebbe mai raccontato, almeno come lo avrei fatto io, s’intende, a partire dai lunghissimi (e spesso soporiferi) tĂŞte Ă tĂŞte fra rappresentanti delle istituzioni da una parte e presidi, maestri e genitori delle scuole a rischio dalle altre. Correvo a usmare l’aria, mi immolavo con il fuoco in corpo, mi immedesimavo, soffrivo con loro; mi intrufolavo nei cantieri prima degli altri giornali e soprattutto prima dell’invito ufficiale e generale da Palazzo.

L’ingresso della biblioteca della Canziani nel 2017 E dalle interminabili riunioni da tagliarsi le vene, dove tutta la colleganza rivale levava le tende il prima possibile, la sera tardi dalla mia penna ne sortiva sempre la rappresentazione di un teatro di battaglia, con tanto di eroi disposti al sacrificio e di spargimento di sangue collettivo: il che, per chi era dentro l’argomento, non poteva non essere tale, ma io volevo proprio che fosse prerogativa del nostro giornale l’entrare nella notizia, e rappresentare come viva e sanguigna una cittĂ che aveva preso il colore fumĂ© dei giornali blasonati e delle veline ufficiali nell’immaginario collettivo, mentre invece ai miei occhi aveva tinte vivide e luminose in tutte le sue pieghe, soprattutto le piĂą inaspettate.
Non fu quindi abnegazione ma sincero trasporto il sentimento che mi portò a seguire le due diaspore scolastiche – Addolorata e Canziani dall’oggi al domani per motivi diversi avevano dovuto chiudere i battenti tra lo sgomento generale e le mille polemiche del caso – in quell’esaurirsi agostano delle ore vacanziere.

Il benvenuto agli alunni della Canziani dalla scuola “San Giovanni Bosco” nel settembre 2017 E se sulla storia dell’Addolorata continuai a lavorare in archivio nei soliti sotterranei della Righi, pubblicandola sul Calandari (qui potete leggere quegli studi), della Canziani da allora (qui l’ultimo pezzo, quello sul trasloco) non scrissi piĂą una riga, benchĂ© sempre negli archivi avessi trovato la sua storia, che risale al 1964, quando ci fu la necessitĂ di trasferire la scuola “speciale” di via Walder in luogo piĂą consono ai bisogni di una scolaresca con esigenze che oggi definiremmo inclusive: era, infatti, la Canziani nata per convogliare in una scuola statale espressamente studiata anche a livello architettonico per l’argomento, le disabilitĂ piĂą svariate, benchĂ© poi nel decennio successivo la chiusura progressiva a livello nazionale delle scuole speciali in seguito alla legge 517 del 1977 (ma molte di loro sopravvivono ancora nei grandi centri) avesse prediletto l’integrazione scolastica anche in territorio varesino, così da trasformare la Canziani in scuola elementare di riferimento dei bambini tutti del colle dei Miogni.

La scuola Canziani come si presenta oggi, ovvero come un deposito comunale 
materiali accatastati della ditta Sirti, che non sta eseguendo lavori nella scuola ma in Varese 
Il logo della Canziani, lo scoiattolo insubre, è ancora visibile nel pannello sulla cancellata Non ho aperto questa digressione solo per crogiolarmi nella nostalgia o per dimostrare che la storia di quella Canziani che parlava agli scoiattoli e che costruiva programmi con l’universitĂ dell’Insubria nel magnifico parco amato degli abeti rossi amato da Salvatore Furia (tanto da essere stato eletto per celebrare la festa degli alberi) è storia inclusiva alla massima potenza, avendo le disabilitĂ offerto i loro spazi al mondo circostante e non il contrario. Ormai un ciclo intero, dalla prima alla quinta, sta giĂ esaurendosi nelle nuove aule della Don Bosco senza mai aver varcato la soglia della scuola del Bellotti, e cinque anni potrebbero aver mandato l’argomento della riapertura in proscrizione; sono, del resto, non piĂą di una ventina i bambini che dal quartiere posto alla sommitĂ di via Marzorati alla mattina alle otto meno dieci e al rientro all’una usufruiscono del pullmino comunale, ad oggi rimasto gratuito: un numero non certo capace di riaprire una sezione distaccata dalla “Busca” (dal nome della via), che nel frattempo si è fagocitata anche il codice meccanografico per intero, senza lasciar adito a molte speranze di un dietro front amministrativo. Ma questa amministrazione, che all’epoca ha voluto salvare due scuole sacrificandone necessariamente una – quella, stando agli atti di perizia, con difetti d’agibilitĂ particolarmente onerosi sul piano economico da superare – mentre nel corso degli anni ha fatto le piĂą favolose promesse di recupero dell’immobile e dei suoi luoghi (doveva diventare un parco? doveva essere ricostruita ex novo?), oggi, senza dire niente a nessuno, e contando sulla distrazione congiunta dei media sull’argomento, ha trasformato la memoria di un luogo caro alla cittĂ in un deposito sciatto e malinconico. La ditta in azione, infatti, contrariamente a quanto si potrebbe sperare, non sta lavorando negli interni della scuola: semplicemente userĂ il suo bel parco come punto d’appoggio per lavorare all’esterno – schiaffo non solo agli abitanti del colle ma anche alle maestre, alle bidelle e alle famiglie che in sessant’anni ha fatto la storia della scuola varesina.

Un’aula della Canziani al Montello durante il trasloco del 2017
(Alle maestre Loredana, Grazia, Paola; a mamma Serena, la presidente del comitato genitori; alla bidella Antonella; alla collega Barbara della Prealpina, coinvolta come madre prima ancora che cronista. A Mauro, allora consigliere comunale del gruppo misto, che mi diede l’onere e anche l’onore di rappresentarlo nella commissione educativi. A Rossella, assessore ai servizi educativi, perchĂ© le diedi filo da torcere allora e so che lo sto facendo anche adesso, e mi dispiace; e a tutti coloro che amano le storie, quelle belle e dimenticate). -
Un’incantevole mattinata grazie alla Varese Nascosta

Ieri mattina, nella splendida ambientazione retrò del MIV- Multisala Impero – squisitamente messa a disposizione dal patron Andrea Cervini, ho partecipato ad una matinée interamente consacrata alla Storia della Città Giardino. Ad ideare lo splendido e insolito convegno, gli amici della Varese Nascosta ai quali va il mio plauso sincero ed affettuoso sia per l’impresa non certo facile (di questi tempi, poi!) di attrarre un folto pubblico (la sala era gremita) con l’argomento storico, ma soprattutto per l’armonioso allestimento, che ha saputo essere accattivante sotto ogni aspetto.

Matteo Inzaghi presenta il direttivo della Varese Nascosta: il presidente Paolo Musajo, la responsabile social Paola Molinari, il fondatore Luigi Manco e il vicepresidente Damon Zangheri. Assente, per il triste motivo della morte della sua mamma, il mio carissimo Fausto Bonoldi, responsabile stampa Subiectum, la proiezione di un filmato (muto) d’epoca di una dozzina di minuti riguardante un matrimonio celebrato a Villa Toeplitz esattamente novant’anni or sono, il 14 maggio del 1932: a sposarsi, nell’incantevole cornice dei giardini voluti da donna Edvige, la nipote Rysia Toeplitz con Federico Consolo.
Non vi faccio il resoconto della mattinata e nemmeno dei moltissimi sponsor, che trovate diffusamente sulla stampa varesina. Mi interessa piuttosto descrivere l’evento secondo il mio personale estro, di ricercatrice in primis: non vi nascondo che il ritrovamento d’archivio di Paolo Musajo Somma di Galesano, l’artefice della scoperta d’archivio, mi ha emozionata e entusiasmata sin da quando è stato reso noto sui social.

Enrichetta Toeplitz e Federico Consolo sugli schermi del MIV. Emozionati ed emozionante… Paolo, recentemente promosso alla presidenza del direttivo della Varese Nascosta, associazione che si occupa di divulgazione storica locale principalmente attraverso i social (l’omonimo gruppo Facebook, che conta 25mila iscritti, nasce nell’agosto del 2015 da un’idea di Luigi Manco e l’indimenticato Andrea Badoglio, ma la narrazione prosegue anche su Youtube, Tiktok e Instagram), qualche tempo fa ha scovato, nell’archivio della Fondazione Cineteca Italiana, un’autentica chicca che racconta il lontano sì dei due altolocati sposini in un mattino festoso che rivive sullo schermo nei volti, nell’eleganza varesina e nel contesto architettonico e botanico dell’epoca.
Per me e per la mia compagnia è stato un autentico tuffo nel passato, condito dal piacere di ritrovarsi finalmente, dopo due anni bui, in un contesto lieto, privo di angosce e socialmente e culturalmente stimolante. Ero presente alla proiezione con il professor Renzo Talamona, mio magister di ricerca e grandissimo e paterno amico (prometto di raccontarvi la sua storia, anzi le sue storie di pendolare pressoché quotidiano degli archivi fra Varese e Milano: ne rimarrete incantati), la deliziosa Caterina Cazzato, con la quale ho avviato un’interessante discussione sulla moda degli anni Trenta (la mia amica, di cui ricordiamo tutti l’eleganza innata nella recente campagna elettorale che l’aveva vista unico candidato sindaco donna al Municipio di Varese, mi ha rivelato di essere cresciuta in un atelier di moda!) e l’architetto appassionato di materia estense Franco Piana.

La bella compagnia di Renzo Talamona, Caterina Cazzato e Franco Piana Veramente tutti notevoli, a detta della compagnia al completo, i relatori: personalmente affascinata dalla lettura di Marita Viola, vi dico che non vedo l’ora di leggere il libro che Alessandro Pellegatta ci ha rivelato di essere in procinto di pubblicare sulla figura dell’esploratrice Edvige Toeplitz, moglie del banchiere Giuseppe, e padrone di casa, di cui sta studiando i resoconti di viaggio inediti.

Villa Toeplitz come appare dal filmato Tanta roba!, come direbbero i miei figli. Senza voler essere minimamente esaustiva nella relazione della mattinata (non potrei nemmeno volendolo, e non è questo lo scopo del presente commento), vi posso senza dubbio raccontare che non c’è stato un intervento noioso o fuori luogo: in particolare mi hanno colpito quello sulle automobili d’epoca di Beppe Macchi, presidente del VAMS (confesso: ho un debole per le Isotta Fraschini da quando ho riscoperto la figura di Filippo Tommaso Marinetti), la fine, puntuale e (ça va sans dire) veemente arringa di Daniele Zanzi intorno alle modificazioni agronomiche e ambientali di Villa Toeplitz occorse sino ai giorni presenti e infine il delicato e sapiente excursus sul paesaggio della Varese degli anni Trenta di Giuseppe Armocida.
Confesso di essermi emozionata in particolare sulle parole del presidente della Società Storica Varesina, che confermavano, in un vivido e dinamico affresco che correva di fronte ai miei occhi come fossi a guardare dal finestrino di un treno in corsa, il sentimento che avevo provato immaginando il viaggio di Flora verso le sue allieve del mattino. Ecco: io credo che il coinvolgimento emotivo per la storia varesina e le sue piccole storie sia stato in me veramente totale ieri mattina! E sono sicura che Flora fosse con me, seduta in qualche posto defilato, ad assaporare quei racconti e la proiezione di quel film, un matrimonio di cui si sarà sicuramente e lungamente favoleggiato in quel 1932 in cui andava e veniva da Milano abbigliata secondo il costume dell’epoca, sempre elegante e bellissima, i capelli ondulati e mori portati alle spalle, una spilla appuntata al cuore con un cameo, così come mi è stata descritta dall’ultima sua allieva rimasta a poterla raccontare: ed è l’unica descrizione che io possa ad oggi avere della fisicità della maestra di cui ho ritrovato i diari, ed è una cosa tanto più misteriosa se pensiamo che la documentazione iconografica di quell’epoca – ce lo ha dimostrato l’amico Paolo Musajo – è difficile da scovare, ma da qualche parte esiste ancora.

L’intervento dell’esperto di moda Antonio Frana Due parole sugli sposi che non mi ricordo se siano state dette pubblicamente e quindi mi sono premurata di scovare dalle mie fonti personali, per la curiositĂ di conoscere meglio chi mi aveva invitata alla splendida cerimonia (tenutasi nella cappella gentilizia della villa suddetta). Rysia all’epoca del matrimonio con Federico aveva solamente 23 anni, essendo nata il 31 agosto del 1909: sarebbe morta a Milano vent’anni fa esatti, dopo una vedovanza trentennale dal suo amato Federico (spirato nel 1973). La meravigliosa mattinata – la giovane rampolla di casa Toeplitz, figlia di Luigi, fratello di Giuseppe, e il promettente chimico palermitano si erano sposati alle undici del mattino – sarebbe stata ovviamente immortalata negli atti del Comune di Varese: e io, lo confesso, che passo le giornate a meditare su queste scartoffie storiche e a dar loro un’anima, mi sono commossa.

L’atto di matrimonio registrato dal Comune di Varese A suggello della carrellata di interventi, agli invitati al matrimonio ritrovato è stata offerta la praticamente perfetta replica estetica e sostanziale della sontuosa torta nuziale a sette piani, che Rysia aveva tagliato con spada d’onore universitaria del consorte (e curiosamente gli invitati ne avrebbero partecipato a mani nude, secondo probabilmente una ritualitĂ scaramantico-augurale dell’epoca a noi francamente ignota).

La torta realizzata dagli allievi del De Filippi: spicca la riproduzione dello stemma della casata, ricostruito come da filmato 
il fotogramma del filmato che immortala la torta con tanto di stemma Un dolce magistralmente realizzato dai professori e dagli allievi degli ultimi anni dell’Istituto Alberghiero De Filippi secondo un attento studio filologico delle indicazioni dei ricettari e dell’arte pasticcera di novant’anni fa: il pandispagna – ho chiesto lumi alla prof! – proprio come si montava a spuma allora senza strumentazione e senza addizioni furbe di alcun tipo (oggi la tendenza è alveolarlo chimicamente) e la “bagna” rigorosamente liquorosa e fruttata, in melodioso connubio con la nuvola candida e freschissima di panna e fragole. Un dolce tagliato beneauguralmente dai futuri sposini Luigi e Stefania in una commovente staffetta con Rysia e Federico suggerita dal presentatore della giornata – il collega Matteo Inzaghi, grande amico di Luigi – e letteralmente divorato da tutti i presenti, benchĂ© ne sia rimasto abbastanza da poter essere condotto – mi ha confermato Paolo Musajo – alla mensa dei poveri gestita dalle suore di via Bernardino Luini: perchĂ© la gioia di una Varese ritrovata potesse essere condivisa veramente da tutti, anche chi assapora la dolcezza della vita molto meno sovente di tanti altri concittadini.

Con Caterina Cazzato e Jenny Santi, giĂ allieva di Renzo al Cairoli!: due “sindache” veramente speciali! 
I formidabili ragazzi del servizio di sala del De Filippi: servizio impeccabile 
L’ultima discendente dei Toeplitz, in perfetto outfit anni Trenta A conclusione di questa molto parziale relazione, vorrei fare un ultimo commento: come ci insegna la bionda, splendida e statuaria Paoletta Molinari, padrona di casa e volto iconico della Varese Nascosta, l’anima di Varese è femminile. Non dobbiamo dimenticarlo mai.
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Una maestra pendolare degli anni Trenta. Continua la storia di Flora, con una sorpresa.

Il giardino esterno agli archivi comunali, che dĂ sulla via XXV Aprile: bello e misterioso…
Ci sono giornate in cui ci si sente terribilmente sfiniti e si pensa di aver sbagliato tutto nella vita. I motivi della stanchezza psicologica possono essere molteplici: direi che dopo due anni come quelli che ci siamo appena lasciati alle spalle (speriamo) chiunque potrebbe sentirsi autorizzato a coltivare pensieri di frustrazione. In particolare quelli come me che per una serie di ragioni irrazionali fanno sempre mille cose assieme, aprendo mille gomitoli e intrecciando altrettanti fili nelle loro giornate, potrebbero pensare di essere particolarmente inconcludenti alla fine di un percorso in cui siamo stati trattati un po’ tutti quanti, soprattutto i cosiddetti “non particolarmente utili alla società ” (tradotto: chi ha fatto della scrittura e dello studio le sue professioni), come schegge impazzite.
Stamattina, tornando in archivio comunale dopo due settimane di assenza (ho appuntamento fisso al mercoledì, ma settimana scorsa dovevo seguire un convegno sul Canzoniere Italiano di Pasolini), ero convinta di essere arrivata ad un punto morto nelle mie indagini su una storia varesina che mi ha preso il cuore da due anni, e sta portando le mie ricerche ben oltre la cerchia delle mura cittadine. Si tratta di un lavoro grosso che ho intenzione di perseguire con tutta calma, pochi frammenti alla settimana: eppure, se in un certo periodo la storia non mi chiama, inizio a diventare sospettosa.

in archivio, con il mio fedelissimo computer Avrà cercato qualcun altro? Non credo. E allora perché non mi regala più segni, intuizioni, tasselli da assemblare?
Forse semplicemente perchĂ© quelli precedenti che hai trovato devono sedimentare e fruttare!, entra senza permesso nei miei pensieri una vocina tranchante senza nemmeno vestirsi di virgolettato. Eh giĂ . Sei la vocina della coscienza sporca della scrittrice pigra e dispersiva? Precipitati in archivio – ribatte quella – e smettila di piagnucolare. Hai dimenticato tutte le tue storie piccole? Flora l’hai abbandonata? Proprio lei che ti è stata vicina durante le chiusure (ti soffoca alla sola idea di pronunciarla quella parola abominevole: lockdown, ti do ragione), lei con la quale prendevi il caffè alla mattina presto salutandola dal balcone di casa, intuendo la torre della De Amicis fra gli alberi, perchĂ© con la DAD i tuoi figli avevano occupato tutte le stanze possibili e immaginabili e tu non avevi altro spazio vitale, appunto, se non il balcone? Proprio lei che ti ha condotto nella didattica a distanza temporale, che ti ha fatto viaggiare nella storia della scuola varesina, che ti ha fatto compagnia e ti ha consolata tutte le sante mattine mentre allestivi le aule domestiche e ti improvvisavi bidella per i tuoi figli che avevano per banco tutti i tavoli e le scrivanie presenti in casa, mentre a te rimaneva per lavorare solo la sedia mezza rotta sul poggiolo?
Non vuoi continuarla solo perché hai paura che un eventuale editore non te la pubblicherebbe più se la vedesse già lanciata sul blog? E pazienza! Hai capito che questa storia serve ai tuoi lettori (ok, più lettrici, diciamocelo, ma non solo!) adesso? Che si stanno appassionando adesso? Che stanno facendo tesoro adesso di queste povere righe che li trasportano altrove, fuori dalle angustie del quotidiano, come era successo a te a suo tempo?, e le storie mica servono solo a chi le trova e le scrive! Servono ai lettori, le storie: santo cielo!

(la cartella da cui si è materializzata Flora) Ha ragione la vocina.
Caro lettore, mi scuso profondamente per aver interrotto bruscamente le pubblicazioni di una delle più belle storie che mi abbiano mai scaldato il cuore. Facciamo pace (mi chiede di dirtelo Flora, con la quale mi sono già scusata). Hai voglia di sapere cosa ho trovato stamattina in archivio comunale nella cartella 31, cat. IX? (e tu dirai: ma cosa mi interessano i riferimenti d’archivio? Beh, io te li devo dare, per scrupolo documentario, perché si fa così!)
Ho trovato una lettera di Flora. Una lettera indirizzata al PodestĂ Domenico Castelletti.
Andiamo per ordine. Colta da folgorazione mattutina mentre bevevo il primo caffè (ovviamente sul balcone augurando a Flora buon lavoro: le buone abitudini non si abbandonano mai) mi dico: ma ci saranno pure da qualche parte le cartelle delle pratiche individuali degli insegnanti di novant’anni or sono, relative a malattie, buste paga, assunzioni, trasferimenti eccetera. (Le scuole ai tempi erano di diretta pertinenza del Comune).
Detto fatto, in pochi minuti ho sul mio tavolo di lavoro – oggi quello doppio, stupendo, accanto alla finestra aperta che dà sul giardino: arrivavano in sala le dolci note dei violini del Manzoni – il materiale che mi serve. Mi passano sotto gli occhi le pratiche di tantissimi maestri dell’epoca, fra cui vedo il nostro Leopoldo Giampaolo e – finalmente – anche Flora, che prende, incredibilmente, a materializzarsi sotto ai miei occhi da quella anonima cartella variamente fascicolata!

La pratica di Leopoldo Giampaolo, assunto alle scuole comunali da tre anni, quattro mesi e otto giorni al dicembre 32 E gli atti che mi commuovono sono due: ma del primo vi dirò la prossima volta
Nel secondo è proprio la sua voce a parlare, in una lettera al PodestĂ , perchĂ© le concedesse di poter mantenere la residenza nella sua cittĂ natale, Milano, con la promessa che sarebbe sempre arrivata puntuale al lavoro. E allora, siccome so che state aspettando anche voi da tempo queste parole, vi lascio leggere questa lettera così come si è presentata a me verso le undici e mezza del mattino, all’improvviso, come se volesse dirmi: “Prendevo veramente il treno tutte le mattine… ”. E una carezza lieve e furtiva uscita dal tempo mi asciuga una lacrima.


(A Carla con infinita amicizia).
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Auguri, Mamme… auguri, Varese!
Oggi è la Festa della Mamma, e mi piace ricordare che sia stata proprio la mia prima lettrice, Maria Corvi, sei figli e la poesia nel cuore, a portarla a Varese a metĂ degli anni Cinquanta. La nostra amicizia nacque nel segno di un’intervista che le feci anni fa, quando la insignirono del premio della mamma varesina dell’anno. Lei era la storica fioraia di Varese e aveva la passione dei fiori e della lettura: aveva avuto fra le sue clienti piĂą affezionate anche Liala, e mi diceva sempre che aveva ritrovato qualcosa della sua soavitĂ nella mia penna.

Dalla bacheca Facebook di “Ave” Alfredo Corvi
“Probabilmente una delle prime vetrine in Italia, che pubblicizzavano la Festa della Mamma, appena nata” scriveva il 6 maggio 2016Maria era una lettrice incallita del mio giornale, La Provincia di Varese, e non mancava mai di telefonarmi quando le era piaciuto particolarmente un mio pezzo, solitamente una storia o la rubrica di cucina del lunedì , che sovente le dedicavo: una volta, per il suo compleanno, l’avevo omaggiata a sorpresa della ricetta della torta delle rose, che era stata inventata per Isabella d’Este, madre di prole numerosa come Maria (e anche la scrivente). Cuoca provetta, oltre che di una simpatia e allegria uniche, era la matriarca induscussa del Corso, e confortava spesso i vicini e la parrocchia di san Vittore con le sue delizie, che consistevano il piĂą delle volte in sontuosi vassoi di pasta religiosamente fatta a mano. E soprattutto era una gran lavoratrice: “Laura, non importa quanti figli hai: ma se provi passione per il tuo lavoro, non devi assolutamente rinunciare a farlo”. Aveva trascorso la vita dapprima aiutando papĂ Tagnocchetti nella gastronomia omonima, poi – una volta sposata – accudendo i suoi fiori e ricavandone composizioni colorate e bellissime, sempre aiutata dalla suocera – la prima fioraia storica a portare il cognome dei Corvi – con la quale, mi disse, aveva avuto un rapporto di straordinario affetto, come fosse stata una seconda mamma.

Maria Corvi nel 2015, alla Festa di San Vittore Così oggi, dopo la festa parrocchiale del Lazzaretto, sono corsa a salutare la mia Varese – noi dei quartieri periferici la pensiamo sempre un po’ separata e sospesa, il cuore di una cittĂ stellare insomma che pure è un unicum da quasi cento anni (la data fatidica, lo saprete tutti, è il 1927) – e ho pensato che essere mamma è davvero la cosa piĂą bella, anche se chi ha la maternitĂ come dimensione dell’anima sovente ha questo slancio di accudimento non solo verso i figli, ma tutto ciò che ama, e poi ad arrivare a coltivare sensi di colpa per non riuscire a fare bene tutto ciò che si vorrebbe fare è un attimo. A me succede spesso: vorrei prendermi cura di tante cose e persone, vorrei scrivere tutte le mie storie perchĂ© se mi hanno cercato significa che avevano bisogno di me, vorrei leggere tutti i libri che ho accumulato in libreria e sul comodino perchĂ© gli scrittori devono rivivere nel colloquio con i lettori di tutti i tempi e se hanno chiamato proprio me… eccetera, ma alla fine, quando mi corico la sera, mi sembra sempre di aver fatto il minimo indispensabile e sovente mi ritrovo a chiedermi che tipo di madre io sia, che tipo di moglie, amica, giornalista, scrittrice… stop.

Stop. Facciamo che vi saluto con un sorriso.

8 maggio 2022 Ah, dimenticavo: i famosi fiori stamattina erano ancora nel medesimo posto, sul ciglio della strada, davanti a casa mia. Ed erano quasi praticamente intatti, perché aveva fatto freddo e aveva piovuto.
Mi sono detta: ma se fossero stati veramente per me?
Li ho raccolti e adesso Varese mi sorride da un vaso strano, che avevo trovato al mercatino tanto tempo fa.Secondo me Maria avrebbe fatto la stessa cosa. Non avrebbe mai abbandonato in terra un mazzo di fiori. E lei, la prospettiva di un fiore, la conosceva benissimo.
Era davvero l’anima gentile di Varese la mia amica Maria. Ci penso da tempo: mi piacerebbe che in suo ricordo si istituisse un premio letterario, tutto varesino, di poesia floreale. Devo provare a suggerirlo a due amici: Davide Galimberti e Daniele Zanzi, così magari fanno pure pace. PerchĂ© avere un sindaco che tappezza Varese di aiole fiorite è bello (vedi quella di piazza Biroldi, o i gigli che stanno spuntando alle rotonde di Bizzozero e del Castello), ma avere Daniele alla cura del nostro patrimonio arboreo, l’oro verde come lui lo chiama, sarebbe piĂą bello ancora, per far rinascere i Giardini come si meritano, e tanto altro ancora.

(Dedicato alla mia mamma Nina, prima lettrice ex aequo con Maria, pittrice di paesaggi, di Madonne e di fiori)
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Il mese delle rose – per Laura Rangoni

Un semino di rosa che germoglia sul mio balcone. Faccio un po’ di fatica a scrivere queste righe.
Oggi è una giornata triste, più triste del solito.
Però nel vasetto dove le ho seminate all’inizio di aprile, sono nate due piccole rose. Bianche, e sono le rose della Madonna.
Dicono che sia molto difficile far germogliare i semi delle rose. Far germogliare qualcosa, generalmente, non è per nulla facile. Costa fatica, impegno, dedizione, sacrificio. Anche il giornalismo è sacrificio. Anche dedicarsi alla storia lo è, alla letteratura, alla cucina.
E’ stato un maggio di tanti anni fa quello in cui ho conosciuto Laura.
Laura Rangoni (Bologna, 23 dicembre 1962 – Bicos, 4 gennaio 2022)
Mia omonima, giornalista di fama e scrittrice gastronomica – la piĂą prolifica d’Italia con gli innumerevoli titoli pubblicati per svariati editori, tra cui Giunti, Xenia e anche il nostrano Macchione -, sarebbe diventata il mio direttore poco tempo dopo. Avevamo le stesse passioni, gatti compresi: l’unica cosa che a me non riusciva facile era il giardinaggio, perchĂ© il pollice verde non mi era mai stato particolarmente congeniale. Lei invece faceva nascere le rose dai semi: era veramente una di quelle fate che aveva descritto con la sua magistrale penna nei suoi libri di antropologia. Una creatura particolare, con un carattere a volte scontroso, marcatamente ribelle e refrattario alle convenzioni. Non si era mai sposata, e in ragione di forti sofferenze personali amava particolarmente le rose per questo, per quelle spine che aveva dovuto lungamente subire, nella vita come nella professione, e che aveva deciso di farsi sodali per quell’intelligenza fine che possedeva, declinata sul piano di una sensibilitĂ assolutamente fuori dal comune.
Laura aveva il marchio della libertĂ intellettuale, merce rara nel nostro mestiere. Ed aveva creduto nella mia medesima sua disposizione: per questo, quando le raccontavo del mio malessere dopo la chiusura del mio giornale, benchĂ© comprendesse che il giornalismo è in crisi, cercava di farmi reagire. Guarda sempre oltre, mi diceva. Cerca di superare i lutti: c’è sempre qualcosa per cui valga la pena di rifiorire. Questo mi disse l’ultima volta che ci siamo scritte.
Le fate, Laura Rangoni, Xenia, 2004 (ancora disponibile, ad es. su Macrolibrarsi) Non so bene come potrò fare ad elaborare il fatto di aver perso proprio lei, che mi aveva scoperta e modellata quasi fosse una madre, non una maestra di giornalismo. Quando, in una fase particolarmente aspra, inveii contro quel tesserino che non mi aveva tutelata dopo il fallimento della Provincia, se ne rattristò come avessi rigettato tutto alle ortiche. Eppure sapeva bene che questo mondo, totalmente cambiato nel giro di pochi anni, sarebbe rimasto sempre nelle mie corde, perchĂ© quando do i numeri alla fine non ci crede veramente mai nessuno ai miei propositi funerei. Si raccomandava che la mia penna sempre ai limiti dell’esplosivo in qualsiasi contesto evitasse in particolare il sentimentalismo da feuilleton: ogni tanto mi scappava la mano, lo ammetto, anche quando dovevo imbastire la storia dei bruscitti. Eppure era nata proprio così la mia rubrica gastronomica del lunedì sul secondo quotidiano cartaceo di Varese, con qualche sbrodolatura che dipendeva dal colloquio in prima persona che stabilivo con le lettrici. Una rubrica che piaceva, che era molto seguita: la prima lettrice, che mi telefonava sempre per complimentarmi o anche per sgridarmi, a volte, era Maria, Maria Corvi, l’indimenticabile fioraia del Corso, appassionata di orchidee quanto di cucina. E diventammo grandi amiche proprio grazie a quelle righe che le avevo ripetutamente dedicato.
A Laura invece non ho mai dedicato nulla, proprio come fanno i figli egoisti coi genitori, senza consapevolezza magari di aver ferito. Lo faccio ora, nel giorno in cui dall’Alentejo, dove visse un paio di anni in ritirato e volontario esilio, torna per sempre nel Modenese, dove riposano anche i suoi genitori: e l’ho saputo solo pochi minuti fa. Nativa di Bologna – quante discussioni irriverenti sulla composizione del ragĂą, di cui mi contestava l’addizione della pancetta – “solo ed esclusivamente crudo tritato finemente!” e la querelle infinita sul nome della sua Bologna passato come antonomasia alla mortadella, ma solo nel Varesotto (“siete degli incivili” rideva), aveva studiato a Milano laureandosi in Storia del Cristianesimo e delle Religioni alla Statale; aveva vissuto lungamente nel campoluogo lombardo e successivamente a Blello, nella bergamasca, prima di tornare per un’ultima stagione – purtroppo proprio quella del terremoto – in Emilia. E’ mancata il 4 di gennaio di questo 2022, che per me è iniziato all’insegna del morbo covidiano che ho voluto affrontare a mani nude, consapevole della scelta fatta sul mio corpo resistente alla fatica, ai ripetuti parti, alla maternitĂ vissuta con entusiasmo ma anche con la gravitĂ di pesi sostenuti quasi sempre in solitudine. Lo abbiamo appreso, in Italia, solo il giorno successivo: ed era disgraziatamente il mio compleanno. Lei per me fu una luce folgorante: ero talmente orgogliosa di essere stata scelta che consegnavo anche la mezzanotte precedente al cesareo dell’indomani. E’ stata lei a forgiarmi alla resistenza in questo nostro mestiere e a ripensarmi di continuo nella scrittura, facendo leva sulle infinite risorse che una donna che scrive non può non possedere.
Laura ha scritto anche di cucina varesina, lombarda e padana, oltre che di tutt’Italia e di storia della cucina, materia nella quale naturalmente eccelleva (sua la seguitissima rubrica di tradizioni e costume sulla Padania). Agli editoriali e alla saggistica aveva affiancato anche la carriera di conduttrice radiofonica (la tv, benchĂ© “spaccasse” lo schermo, le era meno congeniale) e il suo programma, pur in forma ridotta e plasmata sulle mie esigenze, lo avevo ereditato proprio io. Mi aveva investita del ruolo di testimonial della cucina di Varese non solo per il suo giornale, Cavolo Verde, ma anche per svariati convegni e manifestazioni gastronomiche, e grazie a lei avevo calcato anche le scene delle Stelline di Milano con gli olivicoltori varesini. Quando ho abbandonato la gastronomia, non senza rimpianti, per dedicarmi esclusivamente alla cronaca, probabilmente la mia vera vocazione fino a quando non ho scoperto l’indagine archivistica (tornando peraltro da giornalista al mondo nel quale ero nata), sono sicura che non se ne ebbe a male: lo sapeva anche lei che il cartaceo schiavo del giorno deve sperimentare e saper fare di tutto all’occorrenza, e non si stancava mai di ripetermelo, prima e dopo l’esame che feci da pubblicista: esame tardivo – saranno dieci anni in questi giorni – ma assolto con risoluta convinzione.
Il giornalismo, in fondo, è proprio come coltivare le rose dai semi: quando credi che sia impossibile fare quello che ti tocca gestire, invece sei riuscito a farlo. Questo l’ho appreso sul campo, prima e dopo la canonizzazione dell’ordine. E non mi sono mai pentita di essere una voce libera in questo mestiere, mai. Bentornata a casa, Laura. Da oggi sei un pochino anche in questi miei nuovi semi.
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La prospettiva dei fiori

Non porta didascalie la prima foto del post: è già piuttosto chiara di suo.
Oggi – non pioveva ancora – ho trovato sul ciglio della strada questo mazzo di fiori di campo ben legati, come fosse un fresco dono d’amore, o forse d’amicizia, caduto per sbaglio dalle ingombre mani di chi lo recava.
Era quasi di fronte all’ingresso di casa mia, fra la ruota di un’automobile parcheggiata (non di mia proprietĂ , ci tengo a precisare) e il marciapiedi.
Tornavo dai miei rapidi giri del mattino, forse un po’ troppo malinconici in queste giornate spente di luce.Io sento molto la mancanza della luce: il mio umore va letteralmente in tilt. Ho subito iniziato a favoleggiare sull’antefatto: chi aveva potuto raccogliere un mazzo così gentile e armonioso e poi abbandonarlo in quel luogo, e perchĂ©?
Sembrava davvero un abbandono involontario. Qualcuno che, dopo aver parcheggiato, doveva essere sceso dalla macchina con una borsa, forse anche una valigetta, reggendo varie scartoffie oltre ai pensieri mattutini, per correre al lavoro: un giovane impiegato di qualche ufficio del centro, forse?, che nella fretta di timbrare in orario e di non dimenticarsi niente si sarĂ lasciato scivolare il prezioso dono da recapitare ad una altrettanto fresca e tenera collega. Una dichiarazione d’amore floreale declinata nella modalitĂ piĂą incantevole e spiazzante, quella dei fiori spontanei, quelli che non ci aspetterebbe certo dal guidatore di un BMW, ammesso che il proprietario di quella ruota (e delle altre tre, facciamo quattro compresa quella di scorta) possa essere la stessa persona che avrebbe dovuto omaggiare la sua bella in maniera così romantica. Peccato davvero che il tutto, dichiarazione e omaggio, sia scivolato dalle sue mani senza arrivare mai a destinazione. Quando se ne sarĂ accorto il Nostro? Durante il tragitto, senza poter avere il tempo di ripercorrere i suoi passi per cercare il mazzolino perduto, oppure giĂ ampiamente giunto a destinazione?
E se invece di un giovane si fosse trattato di una persona piĂą matura?
Un uomo giĂ sulla cinquantina, con una posizione, che forse si sposa meglio all’idea della macchina di lusso rispetto al giovane travet magari spiantato, con in mente tutto al mattino appena alzato tranne che andar per campi a raccogliere papaveri e margherite per un amore segreto? Un uomo che conosce giĂ abbastanza la vita, e il cosiddetto gentil sesso, e forse – dopo tanti amori falliti, pretenziosi e capricciosi – ha conosciuto finalmente una donna semplice, e delicata come un fiore di campo: una commessa? La nuova signora delle pulizie dell’ufficio? e non sa come altro dirle che si è perdutamente innamorato di lei?E se invece fosse stato un bambino, nel giorno del compleanno della sua maestra del cuore, a perdere il fresco involto?
Chi lo sa. Perché poi dovrebbe trattarsi necessariamente di un pensiero rivolto da un uomo ad una donna? Non potrebbe essere il contrario? O di una ragazza ad una sua amica, per chiederle scusa per il litigio che le sta dividendo da giorni?
E se invece fosse un segno per me? Dai miei personaggi, perché li sto trascurando un pochino per altre faccende? Ecco, vedi? Siamo così. Come dei fiori raccolti nel pieno della lucentezza, e che poi hai abbandonato per rincorrere come al solito altre strade.
No, miei cari. Non vi ho abbandonati. Sto solamente riflettendo sulla maniera piĂą opportuna di “lanciare” le vostre storie, e questo blog che – essendo ancora molto giullaresco, non pare avere nĂ© capo nĂ© coda nĂ© organizzazione cronologica. Devo dargli una sistemata, e vi assicuro che poi torneremo all’opera meglio di prima.
Margherite al Castello di Belforte Ma… se invece fosse, come credo sia, la mia Varese a sentirsi trascurata da chi dovrebbe prendersi cura di lei nelle piccole cose?
La cittĂ fiorita, come veniva chiamata nella prima metĂ del Novecento, memore del retaggio liberty che le aveva impresso un’aura unica al mondo, ma anche della preziosa fama lasciatale dai meravigliosi Giardini del Duca, dalla passione floreale di Luigi Sacco (ne parleremo: amava in particolare le camelie), della Scuola Agraria del cavalier Ponti… oggi così abbandonata ad un destino di decadenza ingloriosa.(un articoletto di giornale del 1938)

I fiori si riprenderanno i loro spazi, certamente. Ma di spazi dignitosi ai fiori non ne mancano di certo, mentre invece la dignitĂ perduta alla CittĂ dei Fiori chi potrĂ farla rifiorire, se invece che occuparsi del suo decoro nelle piccole cose i nostri amministratori pensano sempre e solo ad imbastire cantieri per grandi opere, dimenticandosi che una cittĂ va osservata anche e soprattutto dalla prospettiva di un fiore?

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Luigi Sacco, che dimenticanza!
28 aprile 2022

La lapide commemorativa dedicata a Luigi Sacco sullo scalone d’ingresso della scuola Mazzini di Varese In questi giorni, lettori affezionati, non ho molta voglia di scrivere: succede, è tipico di chi si interroga spesso sulle ragioni della sua scrittura e ha magari da arrovellarsi in questioni personali che lo distolgono dai propositi letterari. Ma non disperate: sono in cantiere tante belle e curiose notizie e la continuazione delle storie che ho impostato nei giorni prefestivi.
Oggi andrò quindi al sodo commentando la pagina odierna di Facebook del Ministero della Salute.


Fermo restando che non ho alcuna voglia di imbarcarmi in sterili e divisive polemiche pro vax e no vax (ho giĂ dato in abbondanza nei tempi passati e non intendo cascarci ancora), volevo far notare a chi ci governa e crede di essere depositario del Verbo sull’argomento, che ci sarebbe una lieve (si fa per dire) dimenticanza nel post tematico del giorno: il varesino Luigi Sacco (Varese, 9 marzo 1769 – Milano, 26 dicembre 1836), che pace all’anima sua è stato colui che studiò il virus del vaiolo al mercato della Motta di Varese attraverso l’ispezione delle pustole comparse sulle vacche esposte a detto mercato, appunto: era il 1800, cifra tonda. Il dottor Sacco, cui è intitolata peraltro un’importante scuola elementare di Varese, anzi del quartiere di Belforte, proprio quello del castello del mio precedente articolo – poi un giorno vi racconto pure il perchĂ© della titolazione, confidando anche nel riscontro d’archivio della mia intuizione – fece qualcosa di inaudito: si inoculò il liquido estratto dalle pustole per autovaccinarsi: contratto il virus vaccino ne guarì e rimase immune al vaiolo umano. Dopo aver sperimentato su se stesso la pratica vaccinatoria la eseguì con successo sui bambini, che erano sempre state le vittime sacrificali di quel morbo che davvero poco scampo lasciava all’infanzia e non solo a quella. A questo punto lasciatemi ricordare qualche verso dell’ode del Parini L’educazione, che parla della guarigione di Carlo Imbonati allora undicenne da una grave malattia, probabilmente proprio il vaiolo: so che il Parini viene citato sempre per l’altra ode, L’innesto del vaiuolo, ma a me piace molto di piĂą questa.
O mio tenero verso
Di chi parlando vai,
Che studj esser piĂą terso
E polito che mai?
Parli del giovinetto
Mia cura e mio diletto?
Pur or cessò l’affanno
Del morbo ond’ei fu grave:
Oggi l’undecim’ anno
Gli porta il sol, soave
Scaldando con sua teda
I figliuoli di Leda.Non ho molta voglia di scrivere, ribadisco, e quindi vi lascio con le vostre considerazioni sulla figura di Luigi Sacco, mio personale mito da molti anni e non sospetti facendovi fare un’autonoma ricerca sulle sue res et gesta in rete: sappiate solo che senza di lui, senza le sue scoperte, senza il suo perfezionamento della pratica del vaccino… senza Varese!, altro che eradicamento del vaiolo! Avevo detto che non avrei innescato micce, invece mi piace contraddirmi e quindi a voi la palla: oltre a rivoltarsi nella tomba (che non esiste piĂą, per inciso, esattamente come quella del povero Parini) per quanto occorso e spacciato negli ultimi tempi, lui che da galantuomo non avrebbe mai utilizzato la sua scienza per dividere e opprimere ma solo per puro spirito di filantropia, non sarĂ doppiamente offeso dalla dimenticanza di cotanti senni al potere?
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Il bel tempo è arrivato: è ora di salvare il Castello

un fiore di campo in primo piano sul secentesco Palazzo Biumi, aprile 2022 C’è sempre un fiore per ogni storia.
Sul Castello di Belforte ho scritto e lavorato tanto: credo, senza nulla togliere ai molti colleghi che se ne sono variamente interessati, di essere la giornalista che più se ne è occupata negli ultimi anni, riempiendo pagine di giornale, realizzando video informativi sul campo per i social – mio è il Bollettino di Belforte su Facebook – e anche attraverso l’organizzazione di un convegno dedicato, nel 2017, Voci dal Castello. Del resto io coltivo un legame atavico con la storia della mia gente: io sono belfortese, benché di molte meno generazioni di chi possa vantare la presenza della sua famiglia in uno status animarum cinquecentesco: ma il radicamento in un popolo e nella sua terra non dovrebbe essere valutato dal numero di anelli dell’albero genealogico, bensì dalle radici e nelle ramificazioni della pianta, ovvero nella sua capacità di legarsi a quella terra e a quella gente e produrre nuovo nutrimento per lei.
Ogni giorno io passo dal Castello. Immancabilmente, che sia al mattino prima o dopo il lavoro e le commissioni, che sia al pomeriggio o alla sera, vado a portargli un saluto. Abito sulla direttrice che collega le scuole al vecchio maniero, e non mi costa una grande fatica essere presente: e però è una presenza di cuore, prima ancora che corporea. E’ un pensiero costante e fedele, che so essere proprio di molti altri belfortesi: il Castello, benché in rovina da decenni, è un’icona che ci rappresenta, un baluardo cui ci aggrappiamo per rivendicare la nostra identità , un monumento totemico cui rivolgiamo le nostre devozioni di gente fiera e anche un po’ selvatica, spesso con il sentimento di essere dimenticati dai grandi progetti di chi ci amministra, rivolti sempre verso cose e vissuti più importanti, più da salotto buono insomma: quel salotto buono al quale, pur essendo la vocazione culturale piccolo borghese della Città Giardino – diciamoci la verità – Belforte non si è proprio mai adeguata, tagliandosi via una buona fetta di possibilità di varia natura, e dovendosi di conseguenza sempre accontentare di qualche remasucc elargito con significativo e ostentato sforzo.

Il castello visto da via Calatafimi E’ così che, quando il 9 di febbraio ho ricevuto la fausta notizia dei finanziamenti dal Ministero dalla persona medesima del Sindaco, sono rimasta un po’ stordita. 5 milioni di euro da destinarsi al recupero del maniero di federiciana memoria, benchĂ© detta memoria, opportunamente scavata – da Galvano Fiamma in poi, Belforte è stato materia per tutti i cronisti presforzeschi, sforzeschi e post sforzeschi di grido – ci riporti ben piĂą indietro. Non volendo magari credere del tutto (!) alla leggenda della fondazione troiana dell’eroe Belforte (effettivamente di sapore mistificatorio: ma era un must tardomedievale delle grandi casate di tutt’Europa dai Plantageneti agli Este passando per i Visconti e gli Sforza, appunto, attribuirsi origini troiane: vogliamo mettere gli Orrigoni prima e i Biumi poi da Belfort?), non si negherĂ certo la parentela del sito con la longobarda Castelseprio, e non certo solo lei. Quindi, una memoria diciamo come minimo millenaria, benchĂ© tutto lasci pensare – e quante volte abbiamo chiesto di sorvolare i boschi locali coi droni come fecero appunto a Castelseprio un lustro fa gli studenti archeologi della Cattolica… che la “cittĂ perduta” di Belforte citata appunto dai cronachisti milanesi non fosse altro che le vestigia di un castrum molto piĂą esteso delle rovine rimaste a presidio della valle: un castrum longobardo, appunto, risalente come minimo al V secolo.
Se vogliamo dirla tutta, insospettisce e non poco la titolazione a Materno dell’attuale chiesina del Lazzaretto, su cui ricadde però la titolazione di una preesistente chiesa nei dintorni citata dal Liber Sanctorum Mediolani di Goffredo da Bussero: c’è chi dice sull’attuale sito del nuovo tempio, e chi invece – come il mio “solito” nume tutelare Leopoldo Giampaolo (in Chiese, conventi ed edifici della vecchia Varese scomparsa, 1981) all’interno delle vestigia del Castello. Tesi che, ovviamente, ho fatto mia da tempo, per tanti motivi che vi racconterò un’altra volta, ma confortata da esperti (come Franco Prevosti, che – presidente della Commissione Cultura all’epoca dei rifacimenti del 2006, per primo assistette al ritrovamento del dipinto della Vergine in trono fra i due Santi, forse Rocco e sicuramente Sebastiano).

Palazzo Biumi al centro, e a sinistra nella foto la porzione medievale da recuperare a parco archeologico Questa storia è un po’ lunga, e quindi esattamente come le altre andrebbe un po’ diluita.
Sta di fatto che, tornando a quel 9 di febbraio in cui ricevo la notizia dei finanziamenti del ministro Franceschini, è primo pomeriggio, fa freddo e io sto recandomi dal mio amico libraio antiquario Canesi in via Walder (custode di tante confidenze e intuizioni: se volete leggere la sua storia, l’ho scritta su RMFonline qualche tempo fa e la trovate QUI) a recuperare la mia doppia copia del Calandari do ra Famiglia Bosina. Se vi ricordate, quest’anno ho pubblicato la storia parallela a quella di Flora (a proposito: se non ce l’avete, correte da Canesi a comperare il Calandari): la storia del ritrovamento dei primi diari di classe del giovane maestro Leopoldo Giampaolo.
Cito una frase da quell’articolo, che poi spiego. «(…)in suo nome (ossia di Giampaolo) vorrei chiedere all’amministrazione che reggerà Varese fino al 2026 – e sono certa che porterà il segno del mio amico Davide – di tener fede alla promessa fatta intorno al recupero del Castello di Belforte: perché è una promessa fatta anche a colui cui era tanto caro quel San Materno che a Maccagno lo aveva visto nascere. Quel San Materno a sua volta scopritore di reliquie, quelle di San Vittore, su cui si fonda la nostra cara e sacra storia varesina».Si narra che esista un colloquio di segni con chi ci ha preceduto in un cammino, e che si riconosca la sua carezza in questi segni. Il giorno in cui ritrovavo i diari del futuro vate della storia varesina era una mattina di novembre, il sette per la precisione, e il sette di novembre era – ma lo avrei scoperto poco dopo nel pomeriggio – il giorno in cui aveva dovuto salutare la sua amata Varese per l’ultimo viaggio terreno. Proprio quella mattina di quattro anni or sono, mentre sto avidamente leggendo al freddo dello scantinato fatto archivio e su un banco rotto quei registri impolverati alla luce fioca di una lampadina che si sarebbe fulminata nei mesi successivi, costringendomi a illuminazioni di fortuna (cosa non si fa in nome della ricerca!), mi giunge inatteso un messaggio del Sindaco che suonava più o meno così: “appena fa bel tempo sistemiamo il Castello”.
Ora il bel tempo è arrivato, caro Davide, e la promessa al fondatore della Società Storica Varesina deve essere mantenuta.

Leopoldo Giampaolo, ritratto di Antonio Ricci Coraggio. E che tutto si disponga in nome di quella gioventù tanto amata dal nostro Maestro, quel nostro Futuro a cui dobbiamo tanto, a cui abbiamo tolto troppo, e che durante i due lunghi e luttuosi anni della pandemia si è voluta assumere il ruolo ideale di paladina di quel Castello alla cui ombra ha giocato per millenni, per resistere al fluire vorticoso del virus della dimenticanza e alla mattanza mediatica degli inutili innocenti.
Lo so, sono pensieri forti, ma doverosi. Tutti dovremmo chiedere scusa ai nostri ragazzini, accusati dai giornali asserviti al mainstream dominante – non posso dimenticarlo! – delle piĂą orribili nefandezze: di essere untori, di portare la morte in casa, della colpa di voler continuare a vivere. E che allora siano loro, che ci hanno insegnato in questi due lunghi anni a sopportare, siano loro a ridisegnare la vocazione del Castrum di Belforte, che tanta dimenticanza e tanto oltraggio ha sopportato nei secoli: distruzioni, e poi rinascite, e poi ancora distruzioni e poi abbandoni. Loro che hanno custodito la voce di ciò che non voleva morire, seminino i fiori del tempo che verrĂ . Tempore Belforte, citando il titolo di un celebre saggio di Alfredo Lucioni che riprende un indicatore temporale in voga all’epoca del giudicato belfortese del XII secolo. Andrebbe rispolverato. -
Flora, maestra montessoriana, arriva a Varese

Il Calendario montessoriano della Montesca compilato da Flora sul registro di classe di Valle Olona 1929/30 Cari lettori,
innanzitutto, che sia una Buona Pasqua di Resurrezione e Rinascita per tutti noi.
Come promesso, proseguo con la storia di Flora, che – ne ero sicura – sta appassionando molto i già numerosi affezionati a queste pagine. Una storia molto particolare, che ho scoperto alcuni anni or sono ritrovando i diari negli archivi sotterranei della scuola Righi di Varese – quartier generale storico del comprensivo VARESE 1 – e che ho deciso di pubblicare a partire da questa primavera: e il motivo lo scoprirete proprio in questa puntata, perché si tratta di un’autentica sorpresa di Pasqua.
Ci vorrĂ un breve riassunto per ritrovare il filo del discorso, e anche qualche aggiustatina rispetto alla puntata precedente. Una mattina di inizio dicembre del lontano 1929 una giovane maestra trentenne di Milano, Flora V., approda a Varese dopo un viaggio in treno che le sarĂ sicuramente rimasto impresso nella memoria per sempre: tant’è vero che sul registro – e perdonatemi, ci ho riflettuto solamente dopo! – anzichĂ© lunedì 2 dicembre – data dell’effettiva presa di possesso della cattedra – annota la data del 1 dicembre, che in realtĂ quell’anno cade di domenica.
Proviamo ad immaginarci quell’ora (magari senza ritardi…) di percorso in un mattino di gelo dell’incipiente inverno. Flora, donna colta e curiosa, vuole arrivare nella cittĂ che la ospiterĂ fino alla fine dell’anno scolastico informata sui luoghi e sulle situazioni in cui si troverĂ ad operare: così, in stazione a Milano, acquista probabilmente la Cronaca Prealpina in edicola, nell’edizione domenicale che a quel tempo copre anche il lunedì. Subito le balza all’occhio un pezzo di Giannetto Bongiovanni – molto ben scritto, si sarĂ detta – che traccia un rapido sguardo sullo stato dell’arte del turismo a Varese e provincia: una vera e propria “questione turistica” dibattuta in quei giorni nella Provincia Giardino, “fra tutte le sue consorelle italiane una delle meglio dotate, una delle piĂą felici, una delle piĂą belle”, benchĂ© ci sia ancora molto da migliorare nella rete di comunicazioni: “dalle due stazioni – legge Flora – irradiano ferrovie, tranvie, automezzi i quali, in coincidenza con battelli, funicolari ecc, permettono di girare in lungo e in largo le piĂą belle vallate e le piĂą belle localitĂ della regione. Non è detto – osserva il cronista – che però non possano essere migliorati”.

L’articolo di G. Bongiovanni del 1/2 dicembre 1929 sulla Cronaca Prealpina La nostra maestrina è felice: si sente chiamata in un ambiente che le sarĂ sicuramente amico. GiĂ immagina di far lezione con la sua classe immersa in quegli scenari incantati: fiumi, laghi, monti, colline… Scorrendo le pagine, viene catturata dalla rubrica delle Notizie letterarie che riporta un’offerta di un milione di lire fatta da un editore americano ad “uno scrittore e poeta italiano, italianissimo, il piĂą grande di tutti”, Gabriele D’Annunzio, “purchĂ© egli si impegni a scrivere un libro autobiografico”. E mentre ai suoi occhi, dal finestrino, gli scenari prealpini si fanno sempre piĂą nitidi e si inseguono i monti e i campanili, inseguendosi con le notizie del giornale – al Sociale danno, in quei giorni, proprio per le scuole elementari, gli spettacoli delle marionette di Yamba – un trafiletto in chiusura la immalinconisce: Varese piange la sua maestra Savina, insignita della medaglia d’oro ai benemeriti, morta dopo breve malattia e quarant’anni di insegnamento iniziati proprio nella scuola dove Flora sta per prendere servizio: alla De Amicis di Valle Olona. Savina Faini, questo il nome della compianta, ha avuto l’onore di avere fra i suoi allievi anche lo scrittore di successo Guido Da Verona.

Il trafiletto di cordoglio per la maestra benemerita Savina Faini, pietra miliare della scuola varesina di inizio Novecento Quella domenica trascorre alacremente nei preparativi, forte dell’ospitalità allestita rapidamente da alcuni amici di famiglia in una villa di villeggiatura: il trasferimento è stato comunicato dall’oggi al domani. Ma il tempo di organizzarsi ci sarà : l’importante sarà prendere confidenza le ventinove bambine che la attendono come la manna dal cielo, essendo la loro classe divenuta decisamente ingestibile nei numeri, una sessantina di unità sotto un unico e giovane insegnante pur di buona volontà e ottima preparazione, Leopoldo Giampaolo.

Il frontespizio del registro dello stesso anno scolastico 1929/30 del maestro Leopoldo Giampaolo Fin qui, più o meno, conoscevamo la vicenda. Insediatasi nell’affetto corale delle bambine, Flora lavora spesso in collaborazione con il collega di terza maschile al quale ha dimezzato le fatiche, tant’è vero che per mancanza di spazi decidono di realizzare un unico presepe nella classe dei ragazzini, mentre alle piccole spetta decorare l’albero che viene benedetto dal Parroco: un albero “pieno di buone intenzioni e di buoni propositi”. Tanto apprezzato che la nostra Flora formula un invito alla scuola di Bizzozero allo scopo di far ammirare gli allestimenti natalizi, ma soprattutto di instaurare una concreta amicizia che effettivamente sboccia e si alimenterà negli anni di una corrispondenza fitta fra le bambine: di mese in mese, come si evince dal diario di classe, si scambiano visite reciproche e notizie storiche e di vita quotidiana sui rispettivi rioni.
Le vacanze di Natale quell’anno durano dal 22 dicembre al 3 di gennaio, quando riapre la scuola. Il 25 Febbraio Flora orgogliosa scrive: “Oggi la nostra scuola ha avuto l’onore di ricevere la visita del nuovo Prevosto della Città , il Reverendo Alessandro Proserpio, il quale ha avuto parole cortesi e famigliari con le alunne e si compiacque della loro espressione di letizia e della salute buona che traspaiono dai loro visetti”. (Monsignor Proserpio, il buon Prevosto degli anni di guerra, è ricordato in un monumento splendido opera – se non vado errata – di Vittore Frattini all’ingresso del Cimitero di Belforte. Portategli un fiore e una preghiera, se passate da quelle parti).

La pagina del diario di classe di Flora contenente l’invito alla scuola di Bizzozero Il bel diario, puntuale nella sottile scrittura a pennino, si snoda in triplice forma: un rapido schema annuale, un programma mensile e un resoconto in cui la maestra annota di volta in volta le vicende piĂą significative occorse in classe. Ma nel programma mensile balza all’occhio un dettaglio non secondario, e potete immaginare la mia emozione nell’apprenderlo: la giovane insegnante è di formazione montessoriana ed è probabilmente una delle prime maestre specializzate nel metodo che tanta fortuna avrĂ nei decenni successivi. Flora, infatti, ha cura di definire con cura il proprio “Calendario della Montesca” negli argomenti da trattare per ogni materia: per prima viene la religione, affrontata con le preghierine ma anche la spiegazione del culto popolare dei santi, dopodichĂ© si passa al canto e al disegno dal vero, dove saper tratteggiare lo schizzo di una foglia degli alberi del giardino della scuola – che diverranno per lei e le sue allieve totemici amici e custodi – è altrettanto importante quanto l’ortografia e le regole dell’aritmetica.
Passano i mesi e arriva la primavera: è il 31 marzo quando Flora racconta di aver già fatto quattro uscite sul territorio con le sue allieve.
“Fino ad oggi le passeggiate furono quattro. La prima ebbe per scopo o studio geografico del luogo: l’orientamento, il concetto di colle, di versante, di vetta ecc e fu studio d’osservazione della natura invernale. La seconda fu la visita ad una casa in costruzione. La terza ebbe principalmente lo scopo di misurare la distanza della scuola dal centro di Varese e il fine di dare un concetto intuitivo dell’ettometro e del chilometro.
Oggi con le altre classi si fece un’altra passeggiata con lo scopo di conoscere parte dei dintorni di Valle Olona e di osservare la natura risvegliantesi al tepore primaverile”. La visita alla casa dà modo a Flora di lavorare sullo studio degli ambienti domestici e anche di iniziare un bellissimo lavoro comparativo fra il dialetto e l’italiano: parlando con i muratori, infatti, nasce l’idea di tradurre le parole della casa dal dialetto all’italiano e viceversa.
Flora annota di volta in volta le varie visite: quella del direttore sezionale che si complimenta per il suo lavoro, quella del medico vaccinatore dott. Pisani, infine quella della vigilatrice che trova parecchie alunne anemiche: Flora riconosce che la causa delle mancate cure “ricostituenti” è la povertà delle piccole, indicata purtroppo quasi coralmente a margine dell’elenco alfabetico nel registro.
Arrivata a questo punto, mi è necessario fermarmi per non appesantire troppo il racconto e la lettura: riprenderemo da dove ci siamo fermati.
Dopo le vacanze, assieme alle altre storie, proseguiremo con qualche notiziola sulle avventure di Flora e sulle sue tenere allieve.Sperando di aver tenuta avvinta la vostra attenzione, e certe di aver fatto cosa gradita nell’anno montessoriano di aver svelato la sorpresa, auguriamo a voi e alle vostre famiglie una lieta Pasqua (in ritardo: ormai Pasquetta!) e feste serene ovunque le trascorriate.
Laura, con la complicitĂ di Flora.
(Questa puntata è dedicata ad Ave, custode dele chiavi del giardino di Varese, nel primo suo anniversario, e alla sua mamma Maria, indimenticabile amica e prima lettrice)
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Il giorno della Passione

Cari lettori,
domani, finalmente, e sono davvero felice che in tanti la stiate aspettando – le maestre varesine in primis – pubblicherò una nuova puntata di Flora.
Oggi però è il giorno della Passione di Nostro Signore, giorno del silenzio e della meditazione. Anche Flora era molto pia, e – come vi raccontavo di recente – dopo essere tornata a Milano per quarant’anni volle essere sepolta in un piccolo camposanto varesino con la sola icona del Crocefisso di Giovanni Paolo II, tra l’altro di pregevole fattura, a sovrastare il bel monumento di granito rosso sempre adornato di fiori. Questa devozione verso il Pontefice dei Giovani, che condivido, mi ha commossa, giacchĂ© Flora è rimasta in vita sino al gennaio dell’86 – era nata nel 1899, ricorderete – e quindi visse e amò i primi anni di quel luminoso e ardente pontificato con la luce medesima dei tempi giovanili, riuscendo probabilmente a seguire il Santo Padre Karol WojtyĹ‚a sul Sacro Monte nella sua visita pastorale del 1984. Ma di questo parleremo piĂą avanti.
Per oggi ho scelto un’immagine che mi è cara e che ho ritrovato recentemente in archivio storico comunale, dove mi reco settimanalmente a studiare (colgo l’occasione per salutare gli amici archivisti, Antonella, Maurizio e Andrea, che mi assistono sempre con una gentilezza e una perizia unici): si tratta dell’Uomo del Golgota disegnato dal canonico Carlo Castiglioni nell’ultima pagina della copia da lui fatta della Cronaca dell’Adamollo nel 1819 (Arch. St. Com. Va., Cat I cartella 14). Credo non sia necessario ricordarvi che l’Adamollo è stato uno dei massimi cronisti varesini, nato nel 1687: recuperando la cronaca del Giulio Tatto e passando poi a scrivere da testimone oculare, riportò la storia di Varese dagli anni compresi fra il 1575 e il 1745: a proseguire il suo lavoro fu un medico, il dott. Luigi Grossi, che la compilò sino al 1846. Ma dei cronisti varesini di epoche diverse dalla nostra, e ciononostante che tutti noi cronisti dovremmo conoscere e tesaurizzare, riparleremo in seguito.
Perché il sacerdote Castiglioni, originario di Carnago e appartenente alla Basilica di San Vittore, professore presso le scuole cittadine e studioso puntuale della storia di Varese (così ci racconta il Giampaolo, cui oggi faccio appello in quanto storico e mio nume personale) scelse proprio questo “logo” per firmarsi e per firmare la copia delle memorie di quei secoli che tanto lo avevano affascinato?
A mio giudizio volle interpretare il sentimento dell’uomo esposto a quei venti di cui già accennavo agli esordi di questo blog: il Cristo in croce è l’emblema dell’umanità in balia delle forze che vorrebbero dominarlo, del dolore, della disperazione, dell’angoscia di fronte all’ignoto che ci trascina contro il nostro volere. Negli anni in cui l’Impero napoleonico con i suoi regni cedevano verso il ripristino dello status ante, la grande incertezza politica preludente alla Restaurazione avrebbe recato in sé in realtà i germi di una nuova era e di una nuova coscienza nazionali. Erano gli anni, fra le altre cose, in cui si riscopriva il genio di Dante, obliato per tanti secoli: e chi più di lui scrisse, essendone stato esposto e pesantemente in prima persona, di venti devastatori e rapinosi, e della passione di Cristo, a partire dalle pagine di quel capolavoro assoluto, il primo libro della letteratura italiana, che è la Vita Nova, associandole alla sua ragione di vita poetica, a Beatrice? Chissà chi si ricorda il sogno premonitore della morte della sua donna, associato nelle immagini al venerdì di passione. La tempesta impetuosa, l’oscurità , le stelle che paiono piangere, gli uccelli che paiono cadere e morire dal cielo; il terremoto.
La seconda, iconica immagine a cui vorrei affidare queste poche righe di oggi è ancora varesina e ci riporta ad un secondo camposanto, non quello di Flora: si tratta del cimitero di Velate, ove riposano anche i miei nonni, e proprio di fronte ad una scrittrice a me particolarmente cara perchĂ© è stata colei che ha rivoluzionato – e proprio da Varese – la letteratura italiana popolare, nella declinazione del romanzo sentimentale: Liala. Di lei mi sono variamente occupata e a vario titolo; mi preme ricordarla oggi, affettuosamente, nel giorno della sua scomparsa – 15 aprile 1995 – perchĂ© nel giorno dei 125 dalla nascita (31 marzo) non è stato allestito nulla per ricordarla. Io vado spesso a trovare la nonna e anche lei: mi siedo sui gradini del suo bel monumento con un libro in mano e quietamente leggo e le parlo, e di tanto in tanto qualcuno mi vede, si ferma e mi chiede, e io rispondo suggerendo un libro. Anche Liala era molto pia e nel suo ultimo riposo – mi raccontava un’amica infermiera che l’aveva accudita alla Quiete sino all’ultimo respiro, Mariuccia di Belforte – si fece seppellire con un magnifico crocefisso avito fra le mani (la sua famiglia aveva un papa nei geni), rivolta verso la memoria della Torre da un lato e quella del Sacro Monte dall’altro, con l’immagine della Via Crucis. E per quel raro gioco di segni che pochi sappiamo cogliere, era legata ai medesimi luoghi cari che furono tali a Flora, di cui peraltro era pressochĂ© coetanea.

A domani.