-
Le due Agnese di Belforte e la Madonna Dimenticata
IN FOTO: IL DIPINTO DELLA MADONNA IN TRONO FRA SAN ROCCO (?) E SAN SEBASTIANO, DATABILE AL TARDO QUATTROCENTO, CONTENUTO IN PALAZZO BIUMI AL CASTELLO DI BELFORTE, VARESE.
Cari lettori della Voce, benritrovati. E’ stato un lungo periodo di pausa, e quindi non posso che ricominciare pubblicando una storia degna per farmi perdonare un po’. Una storia di quelle che piace scrivere a me, fonti alla mano, e tanto cuore per leggere l’anima dei documenti.
Oggi è Sant’Agnese, martire romana del IV secolo, il cui nome è passato alla storia letteraria per essere stato immortalato dal Manzoni nei Promessi Sposi nel personaggio della madre della protagonista, Lucia Mondella.Dovete sapere però che il nome proprio Agnese è legato al sito di Belforte in Varese da parecchio prima della celebrazione manzoniana, e rimanda a due bellissime figure di spose e madri che fecero la nostra storia: ed è proprio questa loro storia, e anche nostra, che vorrei raccontarvi oggi pomeriggio, se avrete la pazienza di ascoltare.
La prima è donna Agnese Gambarani, figlia del conte milanese Angelo, che era andata in sposa al conte Matteo Biumi senior, figlio di Giovan Pietro giureconsulto del Collegio di Milano e di donna Violante Abbiati Foreri; proprio quel Matteo che aveva ereditato dal padre la proprietà dell’antico Castello di Belforte. Fu lui che, a causa del sopraggiungere della grave pestilenza del 1630, si era dovuto rassegnare ad interrompere l’edificazione del palazzo gentilizio che avrebbe contato, da completo, almeno un piano e alcuni edifici in più di quelli che vediamo oggi ancora in piedi.
Matteo Biumi era quel che si direbbe un gran personaggio: Conte Palatino, Regio Consigliere, Questore del Magistrato per le rendite straordinarie, fino a divenire in età anziana Regio Ducal Senatore dello Stato di Milano e ancora Podestà di Cremona; infine, Supremo Consigliere per gli Affari d’Italia. Di donna Agnese, per la verità, ci rimane documentato solamente il nome da una fonte di fine Ottocento, ma ci piace immaginarla come una persona colta, forse spesso in viaggio per la Lombardia con il marito, elegante di modi oltre che di natali; e vogliamo che abbia amato veramente Belforte, che ne abbia sognato la memoria eroica accennata dallo storico milanese Galvano Fiamma, e che abbia cercato personalmente le vestigia dell’antica città murata andando per i boschi col figliolo e forse qualche servitrice fidata e silente.
Quando il morbo pestilenziale dalla sua Milano arrivò a Varese, come le era stato predetto, quante preghiere avrà rivolto durante le infinite giornate di reclusione nel Palazzo alla Vergine col Bambino in San Materno, che l’architetto Bernascone, il progettista dei lavori del nuovo edificio, le aveva consigliato di conservare perché i santi Rocco e Sebastiano unitamente a Maria fossero di protezione agli abitanti del Castello contro le epidemie; quel dipinto, del resto, le piaceva così tanto, che era riuscita a preservarlo nonostante il marito volesse abbattere proprio tutto ciò che rimaneva dell’antica Rocca, oratorio compreso.
Nel frattempo la peste dilagava: come racconta il cronista Adamollo, “li apestati di Varese furono ridotti in baracche fatte in una selva sotto Giubiano guardante Biumo Inferiore e Belforte”. Ma Agnese sapeva bene che anche il primo Lazzaretto di Milano, al Carrobbio, era sotto la protezione di Materno, e quindi la spuntò col marito e la Madonna fu salva, e salvò anche le genti del Castello: morì, invece, in quel terribile 1630 il Bernascone, grande amico di Agnese, la quale dopo di lui non volle nessun altro a completare la sua opera: ma gli aveva promesso che avrebbe preservato per sempre la Madonna di San Materno, anche perché, a detta di tutti, le somigliava tantissimo, ed era stata dipinta da una maestranza locale – narrava la leggenda – sotto l’ispirazione folgorante di un sogno premonitore.
Ad Agnese mancò davvero poco per diventare la prima marchesa di Belforte, titolo che sarebbe stato inaugurato ufficialmente da una strana nuora che il destino le avrebbe riservato: ma andiamo per gradi. Il marito aveva comperato nel 1646 il feudo di Binasco, nel Pavese, dal principe Carlo Filiberto d’Este, principe di Ferrara, Modena e Reggio nonché antenato diretto del nostro duca Francesco III: purtroppo Matteo morì prima di poter essere investito del marchesato, ma possiamo dire tranquillamente che ormai con gli Estensi si era instaurata una certa parentela. Il titolo effettivo di marchese toccò invece alcuni anni più tardi, nel 1660, al figlio omonimo Matteo, sempre impegnatissimo in affari milanesi ed esteri quanto il padre, il quale proprio in quell’anno si portava però al palazzo gentilizio di Belforte l’Angiola bella, detta la Baslina per la sua statura minuta, figlia del contadino malnatese Pedrola e fatta sposare da quest’ultimo forzatamente ad un suo contadino, tale Giovanni Maroni. La storia, raccontata sempre dal cronista Adamollo, è arcinota, e gioverà ricordare giusto che costui era morto di crepacuore dopo la separazione, divenendo da allora il leggendario fantasma del Castello, sempre per chi crede nei fantasmi disperati. Fu probabilmente Agnese a procurare ad Angiola la tutela di una suora Orsolina di Malnate nei primi giorni del matrimonio coatto, affinché rimanesse inviolata dal Maroni che pretendeva di consumare le nozze: Matteo e Angelina, follemente innamorati e conviventi al Castello sotto l’egida di quella suocera anticonformista, avrebbero avuto un figlio naturale, Pietro Paolo Luigi, cui passerà – non senza traversie a causa del matrimonio morganatico, mai riconosciuto a Milano – il titolo di marchese.
Finché visse Agnese, che tanto aveva pregato la Vergine di poter avere una figlia, la buona nuora che aveva assicurato la discendenza dei Biumi fu trattata come una principessa, anche dopo la prematura morte di Matteo: e il nipotino, il piccolo principe, avrà giocato tante volte a nascondino con la nonna nelle molte stanze del Castello. Ma forse, senza esser visti da nessuno, ci giocano ancora.
Tanti anni dopo, nel 1736, la pronipote contessa Agnese Biumi, figlia unica del marchese Pietro Paolo Luigi, andava in sposa al conte Francesco Litta, da cui si sarebbe generata la nuova casata dei Litta Biumi, essendo il fratello Luigi, unico figlio maschio di Pietro Paolo, rimasto senza eredi. Proprio Luigi, o meglio la moglie, la marchesa ufficiale, nel 1690 promosse la costruzione dell’oratorio di San Materno al Lazzaretto, perché il santo era talmente caro alla famiglia che avevano deciso di trasferirne il titolo in una chiesa separata fisicamente dall’antico maniero, che ormai da tempo era divenuto un cascinale: ma donna Agnese, nonostante comprendesse le ragioni della cognata, teneva avvinta quella Madonna di cui le aveva raccontato la nonna nel cuore, e tutte le sere ai vespri aveva ottenuto dal parroco Bardelli che un coadiutore residente a Belforte vi dicesse il Rosario, dopo il suono della Martinella che raccoglieva le genti dai campi: e finché visse lei la Madonna del Bernascone protesse quelle sue genti, e le avrebbe protette anche quando qualcuno decise di nasconderla dietro ad un arazzo perché non ne fosse fatto scempio durante le aspre battaglie del maggio della Libertà, nel 1859. Di lì a poco la casata Litta Biumi si sarebbe estinta e la Madonna sarebbe stata dimenticata dalle sue genti per un secolo e mezzo.
Dicono che quelle mani d’edera che accarezzano Palazzo Biumi siano quelle di Agnese che prega, e la manina piccola sia quella del piccolo Pietro che, discolo e impaziente, le sfugge per rincorrere un gattino.
-
Caterina e Marcellino: una storia per il Duca
Dalla lettera del 10 aprile 1769 del Ministro Malagoli al Duca Francesco III Cari lettori,
l’amicizia è qualcosa di fondamentale nella nostra vita. Rischiara le giornate, ci fa sentire preziosi, dona serenità e certezze, cammina insieme a noi.
L’amicizia si può dimostrare in tanti modi, ed è essa stessa un dono. Quella fra il conte Malagoli e il Francesco III, signore di Varese dal giugno del 1765, forse non è molto conosciuta, anzi direi proprio per niente: sta di fatto che il duca d’Este si fidava di pochissime persone, e sceglieva i suoi ministri proprio fra i suoi intimi amici.
Il commissario Malagoli se l’era portato da Modena nella sua nuova villa di delizia varesina, che aveva acquistato dal ricco commerciante Tomaso Origone ristrutturandola a puntino secondo un estro “esotico” ammiccante ai giardini viennesi della cugina Maria Teresa d’Austria (che per ringraziarlo del sostegno militare ripetuto negli anni lo aveva omaggiato prima del governatorato di Milano e, a seguire, della signoria nella città di cui, essendo sovente ospite del marchese Menafoglio in quella meraviglia della sua villa di Biumo Superiore che tutti conosciamo, si era perdutamente innamorato).E però, dovendo attendere ancora per un paio di anni alle faccende milanesi (che non vedeva l’ora di sbolognare al nipote acquisito Ferdinando, figlio dell’imperatrice) prima di potersi godere il buen retiro nella città prealpina, e avendo peraltro qualche grattacapo da gestire pure nella sua patria d’origine, in realtà i primi anni andava e veniva dal feudo di Varese, che appunto aveva lasciato sotto la sorveglianza del fido Malagoli. Il quale gli scriveva fittamente dei fatti che si susseguivano alla Campagnola, come veniva chiamato i primi tempi quello che oggi indichiamo come Palazzo Estense, che durante gli anni ducali prese il nome di Palazzo La Corte: tale appellativo rimase sino al febbraio 1882, quando divenne sede ufficiale del Municipio dopo essere stato venduto al Comune dall’ex sindaco Cesare Veratti, ritiratosi in un’ala privata per gli ultimi anni della sua vita. (Da notare che il trasferimento della giunta non avvenne subito ma solo alla fine dell’anno per resistenze interne, ma di questo parleremo un’altra volta, perché altrimenti, come al solito, ed è un grave mio difetto, perdo il filo del discorso e mi metto a raccontare cose che non c’entrano niente con la storia principale!).
Francesco III, per la Grazia di Dio duca di Modena, Reggio, Mirandola, signore di Varese, etc etc etc Sta di fatto che un 10 di aprile del 1769, essendo appunto il Duca impegnato in faccende non varesine, il Malagoli, conoscendone bene l’animo malinconico, benché libertino e sentimentale, pensa bene di sollevargli il morale rendendolo edotto dell’evolversi di una situazione piccante occorsa a Corte qualche giorno prima: immaginiamoci perciò il nostro Este che legge la missiva con un calice di buon Pignoletto di sua produzione, seduto alla sua magnifica scrivania intarsiata milanese, alla luce del candelabro dorato che si era portato dallo stanzino d’oro del palazzo ducale a Modena, mentre attende l’ingresso nell’alcova della splendida terza moglie e seconda morganatica, Teresa d’Harrach. Il gaudente Francesco, detto per inciso, era novello sposo alla fresca età di 60 anni, portati con l’estro passionale e il fascino complicato e un po’ retrò dei nati sotto l’egida del Cancro: e i ritratti che possediamo, se non parlano proprio di un Adone, ci raccontano di un uomo intrigante e dal carattere in perenne, difficile equilibrio fra la lacrima e il riso. Non son cose che si sanno, ma Francesco aveva perso la mamma da bambino ed era stato allevato ai doveri di regnante con estrema severità dal padre Rinaldo, cardinale spretato per salvare la seconda volta la casata estense dall’estinzione; si era poi sposato la prima volta con una donna che portava il nome della madre, Carlotta, e che lo aveva fatto enormemente soffrire; e benché si fosse ampiamente riscattato nei panni militari di straordinario condottiero e sovrano magnanimo e illuminato, era rimasto sempre succube del fascino femminile e pronto a qualsiasi cosa pur di compiacere una donna di cui si fosse invaghito, sentimentalmente o umanamente (ma anche questa è un’altra storia e in questo momento il mio Duca, ovvero il mio datore di lavoro negli archivi da due anni a questa parte… ne riparleremo, non mi permette di andare oltre. Scusatemi).
In buona sostanza cosa era successo? Ve la faccio breve, col consenso di F III: la giovane e bella moglie del giardiniere, di nome Caterina, insofferente alla monotonia domestica e di temperamento ribelle, l’estate precedente si era presa una sbandata per un certo Marcellino Segre, un buon giovanotto che aiutava il marito nella sistemazione del parco che si stava allestendo – vedi sopra – alla viennese; i due, dopo varie vicissitudini e richiami all’ordine, erano scappati, prima l’uno poi l’altra, a Milano con la complicità di un tale prete Bolchino; e al giardiniere devastato dal dolore – il quale, per dirla tutta e non prendere per forza le parti dell’uno o dell’altra, giacché in certe cose le responsabilità sono sempre di entrambi e mai di uno solo, si teneva in casa suo fratello scapolo e obbligava la giovane moglie a far dietro anche a lui – non era rimasto che dedicarsi ai suoi magnifici fiori per dimenticare l’amore perduto. E chi meglio del duca che aveva tanto sofferto per amore di donne esuberanti e capricciose, e fino all’ultimo ne avrebbe sofferto, avrebbe potuto capirlo, e provarne compassione?
Palazzo Estense a Varese e i suoi giardini fioriti Ma la bella Teresa sta facendo il suo ingresso, in vesti lunari e profumata di viole, nella stanza nuziale. Il Duca ammira la cassettina degli omaggi floreali, giunti intatti nella frescura di una corsa notturna in carrozza da Palazzo: e le corolle odorose gli piacciono tanto quanto – ahinoi – le canne delle armi e le belle donne. Gli effluvi si intrecciano, e non ci è dato di proseguire il racconto se non con il pensiero, sperando di aver raccontato un Duca inedito e di aver fatto venir la voglia al lettore di leggere ancora di lui.
(Dalla documentazione conservata presso l’Archivio di Stato di Modena, da me personalmente consultata nello scorso settembre. Busta 52, Atti di Corrispondenza varia relativi all’Amministrazione in Varese.
Ne approfitto per mandare un affettuoso saluto agli archivisti, preziosi e cari, che spero di rivedere presto per proseguire certe indagini preziose…)
-
Il tempo del silenzio e il tempo della voce
Chi vive di parole, come il giornalista, deve sottostare alle ragioni delle pagine – la commissione, il rigaggio, la notizia dell’ultim’ora, gli aggiornamenti, le inevitabili scocciature di chi non ha gradito il pezzo e più spesso, fortunatamente, l’apprezzamento del lettore e a volte del direttore e persino dell’editore – ma – spesso – anche delle pause più o meno previste e prevedibili e dolorose, fino all’esaurirsi del proprio compito di professionista della scrittura, o del proprio talento, o di entrambi.
Dopo una di queste pause, non la prima del resto nella mia avventura con le parole e con le pagine ma sicuramente la più lunga e sofferta, torno a scrivere utilizzando un mezzo a me altrettanto familiare quanto lo era divenuta la carta stampata negli ultimi tempi: il blog nel mare magnum del web (ero stata, nel 2007, forse la prima blogger varesina con Una mamma e sette laghi),lo farò nelle vesti ripetutamente annunciate su Facebook della Voce di Varese (appellativo scherzosamente affibbiatomi da un amico ai tempi della Provincia) e mi dedicherò unicamente alle storie, perché sono loro che sono venute a cercarmi, sono loro le mie committenti: sono tornate a chiedermi di aiutarle ad uscire dall’oblio dal quale sono state inghiottite, a volte perché il presente ha troppa fretta per stare ad ascoltare tutto e tutti, altre volte perché strati di dimenticanza si sono sedimentati su voci che ormai appartengono al passato dei giorni perduti. Siamo simili, mi hanno detto: non puoi dimenticarci anche tu.
Sono storie piccole, di una città dal fascino del tutto originale ma forse non adeguatamente raccontata al di fuori di una prospettiva monocorde e sempre troppo tesa a volare alto – ad inseguire i politici, i personaggi famosi, le questioni economiche sanitarie caritatevoli impegnate ed importanti, quelle che garantiscono la pagnotta a fine mese e rendono magari le pagine un po’ troppo uguali le une alle altre, ma non è certo la cosa più importante per un giornalista che insegue il giorno nel 2022, e che si deve adeguare al mainstream narrativo vincente. E certo, lo capisco sin troppo bene, sono del giro della cronaca pure io, o almeno lo sono stata fino a quando le lancette al mio giornale si sono fermate, e mi sono fermata anche io: ma questa è un’altra faccenda, e non c’è più pianto e non c’è più tempo di raccontarla, e soprattutto è capitato in tempo utile per evitare di essere risucchiati nell’omologazione di quest’ultimo biennio, che del giornalismo ha vissuto a mio modesto avviso le pagine peggiori di sempre, e che faticosamente ne uscirà, ammesso che ne possa uscire davvero.
Quello che so oggi, con consapevolezza nuova, frutto di un nuovo lavoro che ha dettato la svolta, è che le storie piccole non le vede mai nessuno, e a Varese il piccolo è la prospettiva migliore di osservazione: mentre io che sono alla loro altezza le ho sempre viste e mi sono sempre piaciute più delle altre che magari ero costretta di malavoglia a gestire per lavoro. E così, adesso che sono diventata editrice di me stessa e di tempo ne ho a sufficienza per riprendere a scrivere, questo mio povero tempo inutile voglio dedicarlo a loro e a chi, come me, sentendosi sempre troppo inadeguato rispetto alle cose importanti che vengono decise da menti superiori e scritte di conseguenza, ha bisogno nelle sue giornate di volare con la fantasia in qualche storia dimenticata dai più e raccolta da un piccolo giullare di provincia. Un giullare nel senso più genuino del termine, un cantastorie di piazza che di puntata in puntata, di giorno in giorno racconta le storie che ha raccolto qua e là camminando per via, e avendo come fidi consiglieri gli alberi, i fiori, le stelle e la luna.
++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++Dovrei iniziare a raccontarvi la prima storia, ma per oggi è finito il tempo della scrittura e così ricomincio domani. Vi basti sapere, per ora, che nelle prossime pagine vi presenterò un’amica cara cui sono legata ormai da tanti anni: Flora è il suo nome. Sarà una storia che riguarda lei, e anche un po’ me. E naturalmente, riguarda anche Varese.
A presto. -
Tutti i fiori del Castello
Mi piace immaginare che in ciascuno di questi fiori di luglio viva la voce dimenticata delle genti del Castello di tutte le epoche.
“Mi riconosci? Sono l’Angiola bella, l’innamorata di Matteo Biumi… mi volle a tutti i costi come sposa, nonostante fossi una contadina, contro il volere di mio padre, e io l’amai di amore coniugale per tutta la vita” (la splendida storia, ambientata alla metà del Seicento, è raccontata dal cronista Adamollo) “Io sono Rosalba, la maestra del Collodi che con le mie amiche e don Massimiliano feci prendere vita alla parrocchia del Lazzaretto. Rivivo nei fiori più delicati, che sbocciano all’alba e mi tingo di lei”. “Noi, piccole campanule, siamo le lavandaie di tutti i tempi, che portavano i mastelli colmi di panni al Vellone, e poi al lavatoio”. “In me, fiero tasso, rivive l’eroe troiano Belforte: con l’elmo dorato e la spada di fuoco conquistai queste terre al futuro Seprio, e alla leggenda mai rivelata”. “Noi siamo le coltivatrici dei gelsi, e facevamo la seta più preziosa del circondario. Ci insegnò a lavorarla il Moro in persona”. “Io sono Franca, sono stata un’attrice famosa, ma le mie prime recite furono nel cortile del Castello, nel dopoguerra, e portavamo le sedie dal Lazzaretto, ed erano tempi faticosi ma felici”. “Noi siamo i giovani caduti nella battaglia di Biumo, contro il generale austriaco Urban. Abbiamo tinto questi luoghi del nostro sangue, e ora come gocce di rosea rugiada nel mare verde della libertà torniamo a raccontare la nostra storia”. ops… non sono un fiore ma sono bellissimo lo stesso! “Non sono molti a conoscere la nostra storia, ma anche noi abbiamo vissuto nel Castello, quando nel Settecento fu adibito a convento. Siamo i fraticelli operosi che coltivavano la vite e producevano il vino eccellente denominato un tempo dei colli biumensini”. “Ci avete dimenticato: ma noi, le contadine, abbiamo lavorato nei secoli la terra per farne campi di miglio, e poi di mais, e poi di grano: noi siamo state polenta, pane, alimento per le nostre genti”. “Oggi non ci sono più, ma un tempo i campi qui erano pieni di fiordalisi” dice Flavio Mentasti, storico calciatore e dirigente della Belfortese.
Blu come gli occhi di Mariuccia, l’ultima castellana, mia infinita amica.“Nocciole acerbe: siamo i chierichetti del Lazzaretto, capitanati da Christian”. Caro, dolce, piccolo monello strappato al mondo troppo presto. Mio indimenticato allievo. Chi sarà questa noce, o meglio l’albero che troneggia sulla salita di via Scoglio di Quarto? Ma io penso che sia proprio lui, il Barbarossa, venuto ad emanare diplomi e ad accogliere il Marchese del Monferrato e con lui… ma questa è un’altra storia, e la racconteremo un’altra volta. “E noi? Noi siamo le madri che hanno accudito in grembo i figli di Belforte, e poi li hanno donati al mondo, semi preziosi e fecondi di storia”. “Non dimenticatevi mai dei ragazzini di Belforte, perché noi siamo stati e saremo sempre il sole che muove il futuro”. Con questa lieve carrellata vi auguro un’estate serena.
Il mio prossimo tempo sarà in uno spazio lontano per meditare, studiare e iniziare a scrivere una storia varesina che ho necessità di elaborare nella quiete del distacco.
Ci rivediamo a settembre. -
Il primo cittadino e l’ultimo: Davide e Davide.
Questa mattina è apparsa sul Sole 24 ore la notizia del Governance Poll, il sondaggio demoscopico sul gradimento dei sindaci dei capoluoghi italiani eseguito da Noto per conto del primo quotidiano finanziario italiano.
Secondo il report, Davide Galimberti, sindaco di Varese al suo secondo mandato, sarebbe risalito dalla centesima posizione del 2021 alla quarantatreesima a parimerito con Gianni Nuti sindaco di Aosta e Francesco Rucco di Vicenza, entrambi esponenti del centrodestra.
Davide, come è noto, raddoppiò il mandato avviato nel 2016 il 18 ottobre del 2021 con la tessera del PD in tasca, il sostegno dei 5Stelle (ancora tutte assieme) e una sequela di liste civiche a supporto, alcune al varo, altre rivestite a nuovo per l’occasione, e comunque con un 53% dei voti totali (il 53% rilevato dal Sole), 16741 preferenze per dirla tutta, con un’affluenza in calo rispetto al primo turno, pari al 47, 36% degli aventi diritto al voto, contro il 50, 93% strappato all’antagonista Matteo Bianchi il 4 di ottobre.
Dal sito de Il Sole 24 ore, il report per Varese Se la matematica non è un’opinione, il nostro Davide governa Varese da 9 mesi con il consenso del 25,2% dei varesini: non proprio moltissimo, e questa vittoria rosicata (benché guadagnata sul campo) dovette fare fortemente i conti con il forte astensionismo di ottobre – motivato, come potete capire, anche dalla situazione covidiana in corso, o meglio dal rifiuto del cittadino per la valenza di un voto “libero” in cabina quando tutt’Italia – e le scuole non ne erano esenti – era sottoposta alla maglia del green pass. Non si ha davvero voglia né tempo di ricordare una così triste pagina della nostra storia politica che si spera sia definitivamente archiviata: io, civica purissima e gagliarda, mi recai in cabina ma davvero molto, molto combattuta, ma so di molti che desistettero dall’impresa.
Perché dico questo? Perché Davide era sempre stato sostenuto dalle forze civiche: proprio quelle che in questa nuova tornata elettorale col 16, 3 % dei voti totali gli avevano garantito al primo turno di passare al ballottagio, e poi, sommati ai 1048 voti non strappati di certo a Bianchi ma ai civici “non allineati” (le varie liste dei miei amici Caterina Cazzato, Daniele Zanzi, Francesco Tomasella e anche di Calenda/Azione), di stravincere su Bianchi. Per la cronaca, quel 1048 che va calcolato sul totale dei voti finali di Galimberti rappresenta di essi il 16%, ma per sommarli compiutamente a quelli dei civici della prima tornata occorre riferirli ai trentamila votanti totali del ballottaggio: viene fuori una percentuale dimezzata, circa 8%, che sommati appunto al 16,3% delle preferenze del primo turno più l’8 dà un 24,3 % che si parifica praticamente con il 26% del piddì, che non rinuncerebbe al voto nemmeno in barella o con l’estrem’unzione stile ser Ciappelletto.
Boccaccesca o no che sia stata questa elezione, prendiamola dal versante letterario serio, ossia quello della commedia umana: del resto l’humilitas avrebbe dovuto segnare pesantemente questa rielezione da quel 4 di ottobre dedicato a Francesco patrono d’Italia cui entrambi i candidati riaffidavano le proprie sorti all’elettorato. I segni sono segni.
L’area Morandini Camminavo, una mattina di settimana scorsa, anzi correvo verso il centro cittadino, dalla mia Belforte, ammirando il Bernascone che con la torre civica faceva capolino su via Tonale. Faceva un caldo terribile: all’improvviso scorgo una figura accucciata sul marciapiede che delimita la tristemente nota area oggi degradata che da largo Comolli immette su via Trento, e che ai più è nota col nome dell’architetto che ha recentemente ripiastrellato una metà di via Del Cairo: fu, anche questo, un suo progetto di una quarantina di anni or sono. Progetto destinato all’inglorioso esaurirsi della sua vocazione commerciale e terziaria in generale: non più uffici ma spazi vuoti affidati al degrado da decenni, non più negozi tranne un paio di vetrine – un bazar e un pub – che resistono indefesse ma non certo premiate per il loro zelo.
Ora, questo luogo che volenti o nolenti è nell’immaginario comune l’area Morandini, che siate fan o detrattori del celeberrimo bizzozzerese, è diventata da tempo una sorta di Palazzo Estense rovesciato.
“Posso avvicinarmi?” chiedo all’uomo seduto che mi scruta da lontano dai suoi occhiali rettagolari, di intellettuale. “Ma certo” mi risponde. “Buongiorno Davide – lo saluto esitante – perché lei si chiama così, vero?” “Certo” è la replica decisa ma gentile. “Lei si chiama come il sindaco” gli dico, mentre penso che il primo cittadino con un quarto dei consensi popolari siede in un ufficio confortevole, l’appartamento che fu di Francesco III in persona e che raffigura sulle pareti cieli e prati fioriti, e che sul quel quarto aveva promesso solennemente un minuto dopo la rielezione: “Sarò il sindaco di tutti”.
Il Davide raggomitolato con le gambe incrociate in un ufficio a cielo aperto, lattine e cartoni per scartoffie, è – come dire – un sindaco al contrario: l’ultimo dei cittadini.
Mi dà udienza, solennemente, e lentamente mi racconta la sua storia.Era stato, nella vita “borghese”, un rappresentante. Vive da vagabondo da un anno, o forse di più: i ricordi sfumano nella tristezza e forse anche in un goccio di alcool che tiene compagnia.
Ha una moglie e un figlio, che però non si curano più di lui da tempo.Si procura cibo e sostegno con l’elemosina. Mi scuso di fargliela, perché devo correre a fare una visita agli occhi e non posso entrare nel supermercato per portargli qualcosa. “Che cosa hai?” mi chiede preoccupato. “Nulla, solo che non ci vedo molto bene ultimamente, sarà perché studio e scrivo tanto” e mentre mi commuovo alla sua sollecitudine, mi chiedo come una persona così umile possa interessarsi dei problemi altrui, lui che potrebbe rappresentare i problemi in toto dei varesini tutti, reali e riferiti.
“Il sindaco non è mai venuto a trovarla?” gli chiedo mentre lo saluto.
Non aspetto la risposta, che non arriverebbe.
Ci sorridiamo e prendo congedo, con il desiderio di scrivere questa storia il prima possibile. Perché è una storia urgente da scrivere.Ora, se il mio voto vale davvero qualcosa, e voto significa affidarsi a qualcuno, io vorrei che il primo cittadino fosse ricevuto dall’ultimo, e che si trovasse una sistemazione dignitosa per il Davide che incarna la malinconica voce di una città che si sente sempre più abbandonata nelle piccole cose. Anche lui, come il cigno, il campanile e il totem. Una malinconica poesia.
-
Scrivere per un blog, scrivere per un giornale.
Cari lettori,
è passato un mese esatto da quando ho scritto l’ultimo articolo.
Non è che non abbia intercettato storie da raccontare. E’ che non ho avuto voglia proprio di farlo. La poesia mi è davvero mancata, quasi come se quel cigno morto avesse spento anche la mia voce.
Poi sono successe anche altre cose, alcune spiacevoli. Ad esempio, qualcuno, pare con sede a Milano, nelle scorse settimane ha riaperto il giornale per cui scrivevo, e che era stato chiuso nel 2017. La notizia mi è arrivata come un fulmine a ciel sereno il venerdì precedente il varo da un caro amico, il quale di più non mi ha saputo dire, e anzi credeva potessi dargli io spiegazioni. Sono rimasta pietrificata: non ero a conoscenza dell’operazione, non so assolutamente chi siano i nuovi proprietari – sebbene siano trapelate indiscrezioni su una certa area politica che esultava sulle chat private – né tantomeno conosco la nuova redazione.
Nessuno la conosce, per la verità.
Nessuno dei miei ex colleghi interpellati, e questo è già brutto a pensarsi, peggio che mai a scriversi: di certo, quel presentarsi in continuità nell’editoriale di lancio con quel manipolo di “eroi”, così siamo stati definiti, che ha difeso fino all’ultimo il cartaceo morendo con lui, mi è rimasto a dir poco indigesto.
Nessuno di noi, che io sappia, ha passato il testimone, o comunque è stato interpellato per farlo.Tutti noi, chi più chi meno, nel giro di quattro anni e mezzo, abbiamo intrapreso nuovi cammini, perciò l’arrivo di questa notizia non ci sconvolge di certo l’esistenza: e nonostante questo, sarebbe stata un’operazione gentile, se non doverosa, da parte di chi ha rilevato la testata interpellarci veramente, e non solo per finta, quanto meno per prepararci all’idea che la causa per la quale avevamo dato l’anima, e alcuni di noi ci avevano pure rimesso in salute, era in procinto di riapparire dalle sue ceneri come la Fenice.
E’ per questo che la simpatia che avrei potuto provare per chi all’improvviso aveva tentato di rimettere in piedi qualcosa di perduto è svanita nell’istante in cui personalmente ho letto quelle righe.
“Scriveremo anche per voi”, dicono in maniera ridicolmente lugubre, credendo di fare un omaggio alla redazione che fu, anzi al giornale che fu, evidentemente ormai sorpassato – per loro – nelle impostazioni, impersonando la gioventù che, spavalda, prende le redini della situazione, e lancia in resta cambierà i connotati del giornalismo varesino con un colpo di spugna.Scusate, cari ragazzi: fermo restando che il requiem lo lascerei ai morti veri, e sappiate che possono esser molto più simpatici dei vivi, il mozzo di quell’equipaggio di marinai indefessi che fingete di avere come auctoritas suprema (e che non abbandonarono la nave che affondava non dico in un’estate dove si era rimasti in pochissimi duri e puri ma neanche a Natale e a Santo Stefano sulle ben chiare battute finali), vuole dirvi che noi lottammo per salvare almeno la memoria di un giornale vero, che visse a pieni polmoni Varese e diede voce alle storie che gli altri non vedevano.
Quel mozzo non è disposto a far passare l’idea che il giornalismo si faccia dal divano di casa, campando a comunicati stampa a distanza di sicurezza dal mondo che si pretenderebbe di descrivere, magari aspettando il cenno superiore di quelli che preferiscono per ora non far sapere che sono loro la regia del tutto.
Magari è la vostra idea di giornalismo, questa.
La nostra non lo fu e non lo è di certo. Quindi, se potete, evitate di ricordare coram populo che “la Provincia è tornata”. Ché magari qualcuno crede che voi siate noi, e ci facciamo pure la figura di quelli che non sanno più nemmeno cos’è un giornale.(post scriptum: e non basta comprarsi il pacchetto completo dei social con i like che furono i nostri, per identificarvi automaticamente con noi).
-
Tre simboli offesi, tre voci soffocate: la poesia sta davvero morendo a Varese? (Appello al Sindaco Davide Galimberti)
I cigni erano arrivati nel laghetto dei Giardini nel Settembre del 1929 per iniziativa del podestà Domenico Castelletti Cari lettori,
nel giro di pochi giorni Varese si è vista oltraggiare tre dei suoi simboli più cari: il campanile del Sacro Monte, il totem di Tavernari in via Albuzzi e il piccolo cigno dei Giardini Estensi.
Di quest’ultimo, che ormai ha concluso i suoi giorni terreni, dirò solo che la sua morte mi ha creato un grande e personale dispiacere: quale che ne sia stata la causa, e direi che il contesto ambientale indecoroso ha contribuito fortemente a non consentirgli di vivere se non pochi giorni, andando oltre al fatto in sé io ci ho visto, spietatamente, il simbolo della poesia in terra varesina che esala i suoi ultimi respiri.
Una poesia floreale, che dovrebbe essere il filo conduttore di una visione politica superiore della nostra città, capace di intercettarne con una prospettiva armonica e umile l’indole, l’essenza, la vocazione: il genio.
Peccato che la politica cittadina sia, da decenni, avvezza più a pensare Varese come un’azienda da amministrare, che come una civitas dove al centro ci sono i cives, appunto, i cittadini, e non il conticino da far quadrare a tutti i costi. Peccato, anche, che gli umanisti, in questa politica, latitino sempre più, dato che in quel cigno morente nessuno ha ravvisato alcun canto soffocato, alcuna voce messa a tacere. (Ed io, che banalmente avevo letto del loro arrivo nel settembre del 1929, proprio nei giorni in cui il mio personaggio più bello, Flora, vinceva il concorso magistrale che l’avrebbe portata ad insegnare a Varese – avevo appena fatto la scoperta in archivio – ho collegato immediatamente, e non son più riuscita a scrivere nulla da allora).
Il secondo simbolo offeso è, dicevo, il totem dello scultore Tavernari, sfregiato da un atto vandalico più di una settimana fa. Domenica, ossia ieri, si presentava ancora imbrattato di vernice, nonostante l’indignazione generale e ipocritamente propositiva sorta all’indomani dei fatti, sotto gli occhi dei passanti noncuranti e dei clienti del ristorante vicino che pranzavano in sua muta compagnia.
L’ho abbracciato, ho pianto. In lui, maestoso, silente, ferito sentivo forse solo io, nitido, l’urlo soffocato di quel cigno che estingueva il suo lamento: solo, indifeso, abbandonato nell’indifferenza plateale di una città intera. Era esposto senza targa alcuna, alla mercé di chiunque, è stato detto. Una firma, sul basamento, ricorda l’atto d’amore dell’artista per la sua Varese, che ora si raccoglie in quel grido di disperazione.Il terzo ed ultimo, il più maestoso e perciò sconvolgente, il campanile del Sacro Monte spento all’improvviso.
Il campanile di Santa Maria del Monte in un bellissimo scatto del critico d’arte Matteo Bollini, che mi onora della sua fraterna amicizia Fatico a scrivere queste righe come se stessero spegnendo me: e, di fatto, così è avvenuto per giorni, e forse sarà ancora. Fatico, perché da un paio d’anni mi occupo in archivio anche di storia dei campanili.
I quali, essendo di pubblica utilità, sono sempre stati – ho letto carte dal Settecento in poi – di pertinenza municipale. Si sprecano le liti, ad esempio, fra i vari parroci di questa o quella parrocchia e i podestà, poi i sindaci, poi ancora i podestà e poi di nuovo i sindaci, per mettere a tacere le proteste dei campanari chiamati a svolgere il loro puntuale servizio, anche in notturna, quando non venivano adeguatamente remunerati. Certo, il Comune di Santa Maria del Monte è acquisizione relativamente recente – 1927 – del Comune di Varese, e quindi questa storia di tre secoli di contenziosi con Varese non ce l’ha: semmai, l’avrà avuta col sindaco del borgo, ma attendo smentite. Inutile negarlo: la torre campanaria è sempre servita come faro laico per la cittadinanza, sia dal punto di vista della regolazione dell’ora, sia dal punto di vista dell’orientamento: e se anche l’illuminazione è argomento non particolarmente datato, va idealmente ad aggiungersi a questa funzione multiforme di utilità pubblica e, soprattutto, di simbolo per la comunità tutta.
A prescindere dalle motivazioni addotte dalle parti in causa per non sobbarcarsi l’onere di un migliaio circa di euro di spesa annuale per il rinnovo dell’accensione, fino ad oggi sostenuti dall’associazione degli Amici del Sacro Monte (lode a loro), io direi che il campanile del Sacro Monte spento così all’improvviso è stato l’urlo che ha compreso e sublimato tutti i precedenti: l’urlo dell’indifferenza di chi gira la testa e accampa scuse per non guardare una città che lentamente muore. Quella luce venuta a mancare è come se fosse il buio calato definitivamente sulla nostra Varese: perché, fra tutte, la sovrastava e la illuminava. Ora, io vorrei andare oltre alle tifoserie, come superiore è appunto il Sacro Monte su tutto: se anche giuridicamente si dimostrasse che è l’una o l’altra parte a dover chinare il capo, credo che la parola dovrebbe essere data proprio a lui, al campanile: il quale, essendo suo dovere comunicare la speranza nelle nostre genti, e non altro, si appellerebbe al Sommo Comunicatore, il Dante Alighieri del De Vulgari Eloquentia. In un capitolo cruciale del I libro, il diciassettesimo, il poeta esule e travagliato immagina di aver finalmente identificato il vulgare latium – il volgare italiano che sta disperatamente cercando di definire e di trovare come ancora di salvataggio per la sua Italia frammentata e dilaniata dalle guerre – in un codice linguistico illustre:
Per hoc quoque quod illustre dicimus, intelligimus quod illuminans et illuminatum prefulgens: et hoc modo viros appellamus illustres, vel quia potestate illuminati alios et iustitia et karitate illuminant.
Intendiamo, per illustre, qualcosa che illumina e che illuminato, risplende: e per questo chiamiamo illustri quegli uomini che, illuminati dal potere, donano luce di giustizia e di carità agli altri.
Ripeto: non ne voglio fare una questione puramente filologica, documentaria, giuridica o cavillosa.
Semplicemente riportare a chi ci amministra il messaggio luminoso di una auctoritas contro cui è ben difficile avere l’ultima parola. Dante Alighieri, l’exul immeritus, che aveva patito il buio, l’offesa, il silenzio, io credo che si appellerebbe oggi come un tempo al mondo degli amministratori laici per accendere ancora la propria poesia. Perché Dante considerava sole l’imperatore quanto il papa, ma il primo – vi porto nella Monarchia e una decina di anni più tardi del passo del De Vulgari che ho citato, abbiate pazienza solo per qualche breve battuta finale – aveva le pertinenze sull’ordine terreno e sulla concordia dei popoli, il secondo aveva invece un magistero eminentemente celeste.
E qui, noi, stiamo parlando sì di una materia legata all’ambito curiale, un campanile, ma di fatto chiamata ad operare in un campo tanto umano, troppo umano, come la speranza di una comunità – quella varesina – in cui va spegnendosi ogni giorno di più la fiammella della poesia. -
Noi eravamo il mondo: oggi siamo una discarica (autorizzata). La fine ingloriosa della scuola Canziani di Varese, fiore all’occhiello dell’istruzione della Città Fiorita.
Un bellissimo murale realizzato dalla scuola Canziani Ogni tanto qualche buon amico mi ricorda che nasco cronista, e che il mio lavoro fino a non molto tempo fa consisteva nel prendermi cura del tempo presente e delle sue storie.
Alcuni giorni fa avevo captato sulla bacheca del seguitissimo blog di Mauro Gregori, Varese la vedo così, la denuncia di una situazione di degrado nei pressi della fu elementare Canziani; così, approfittando di una mattinata relativamente libera, settimana scorsa mi sono presentata in quei luoghi a me tristemente cari per approfondire.
Tanto mi è appunto cara quella scuola, quanto rappresenta, assieme all’Addolorata, una delle ultime mie e più appassionate indagini per il giornale La Provincia di Varese, chiuso il quale non ebbi più voglia di proseguire a raccontare l’oggi della mia città, quasi mi sentissi di tradire la memoria degli ultimi, disperati mesi trascorsi, con i pochi sodali rimasti sulla barca, a mantenerne in vita pagine e storie che eravamo stati deputati a raccogliere e a testimoniare.
L’aula informatica della Canziani nel 2017 Ero riuscita, nonostante tutto, a prendermi una decina di giorni di ferie in quell’estate torrida e febbrile, bruciata fra le corse dal Palazzo cittadino a questo e quel quartiere e le volate in redazione a concordare le pagine che in cinque o sei, ma forse anche di meno, avremmo dovuto riempire in meno di mezza dozzina di indefessi, benché di pagine, ormai, ne fossero rimaste davvero poche. Eppure, come se il giornale fosse stato una rosa che sfogliava malinconicamente i suoi petali più belli e profumati, ci eravamo spartiti i diversi filoni in maniera viscerale, quasi più per dedizione alla materia che alla convinzione sincera di evitare l’irreparabile.
Ai non pochi lettori che ci dimostravano il consueto affetto – purtroppo non sufficiente a passare l’anno indenni – offrivamo in quei mesi ben oltre il puro spirito di servizio che già da solo rende onore alla professione giornalistica, quando svolta senz’altro padrone che l’amore per la notizia veritiera. Così, quando seppi che i traslochi della Canziani alla Don Bosco e dell’Addolorata da via Luini all’attuale Righi si sarebbero consumati proprio durante le mie ferie, chiesi insistentemente, ed ottenni dal mitico Caio (Francesco Caielli), il direttore, di tornare in opera a seguirle.
Un’aula dell’Addolorata di via Bernardino Luini nel maggio 2017, prima del trasferimento Non che fossi una giornalista modello con chissà quali titoli ed esperienza: ero arrivata tardi al secondo quotidiano varesino, dopo ambizioni letterarie chiuse nel cassetto, una pausa familiare piuttosto impegnativa e un nuovo percorso maturato nella recensione libraria e gastronomica e nel civismo cittadino; e per questo curriculum piuttosto eccentrico mi ero fatta una fama di ribelle ed eclettica che era piaciuta ai miei ed era guardata con immancabile sospetto dagli avversari.
Se c’era un argomento che mi andava di traverso – qualche cerimonia stantia o una certa conferenza stampa sul sesso degli angeli – mi inventavo di tutto pur di sbolognare a qualche collega la patata bollente; d’altra parte era famigerata la mia predilezione per quello che nessun altro avrebbe mai raccontato, almeno come lo avrei fatto io, s’intende, a partire dai lunghissimi (e spesso soporiferi) tête à tête fra rappresentanti delle istituzioni da una parte e presidi, maestri e genitori delle scuole a rischio dalle altre. Correvo a usmare l’aria, mi immolavo con il fuoco in corpo, mi immedesimavo, soffrivo con loro; mi intrufolavo nei cantieri prima degli altri giornali e soprattutto prima dell’invito ufficiale e generale da Palazzo.
L’ingresso della biblioteca della Canziani nel 2017 E dalle interminabili riunioni da tagliarsi le vene, dove tutta la colleganza rivale levava le tende il prima possibile, la sera tardi dalla mia penna ne sortiva sempre la rappresentazione di un teatro di battaglia, con tanto di eroi disposti al sacrificio e di spargimento di sangue collettivo: il che, per chi era dentro l’argomento, non poteva non essere tale, ma io volevo proprio che fosse prerogativa del nostro giornale l’entrare nella notizia, e rappresentare come viva e sanguigna una città che aveva preso il colore fumé dei giornali blasonati e delle veline ufficiali nell’immaginario collettivo, mentre invece ai miei occhi aveva tinte vivide e luminose in tutte le sue pieghe, soprattutto le più inaspettate.
Non fu quindi abnegazione ma sincero trasporto il sentimento che mi portò a seguire le due diaspore scolastiche – Addolorata e Canziani dall’oggi al domani per motivi diversi avevano dovuto chiudere i battenti tra lo sgomento generale e le mille polemiche del caso – in quell’esaurirsi agostano delle ore vacanziere.
Il benvenuto agli alunni della Canziani dalla scuola “San Giovanni Bosco” nel settembre 2017 E se sulla storia dell’Addolorata continuai a lavorare in archivio nei soliti sotterranei della Righi, pubblicandola sul Calandari (qui potete leggere quegli studi), della Canziani da allora (qui l’ultimo pezzo, quello sul trasloco) non scrissi più una riga, benché sempre negli archivi avessi trovato la sua storia, che risale al 1964, quando ci fu la necessità di trasferire la scuola “speciale” di via Walder in luogo più consono ai bisogni di una scolaresca con esigenze che oggi definiremmo inclusive: era, infatti, la Canziani nata per convogliare in una scuola statale espressamente studiata anche a livello architettonico per l’argomento, le disabilità più svariate, benché poi nel decennio successivo la chiusura progressiva a livello nazionale delle scuole speciali in seguito alla legge 517 del 1977 (ma molte di loro sopravvivono ancora nei grandi centri) avesse prediletto l’integrazione scolastica anche in territorio varesino, così da trasformare la Canziani in scuola elementare di riferimento dei bambini tutti del colle dei Miogni.
La scuola Canziani come si presenta oggi, ovvero come un deposito comunale materiali accatastati della ditta Sirti, che non sta eseguendo lavori nella scuola ma in Varese Il logo della Canziani, lo scoiattolo insubre, è ancora visibile nel pannello sulla cancellata Non ho aperto questa digressione solo per crogiolarmi nella nostalgia o per dimostrare che la storia di quella Canziani che parlava agli scoiattoli e che costruiva programmi con l’università dell’Insubria nel magnifico parco amato degli abeti rossi amato da Salvatore Furia (tanto da essere stato eletto per celebrare la festa degli alberi) è storia inclusiva alla massima potenza, avendo le disabilità offerto i loro spazi al mondo circostante e non il contrario. Ormai un ciclo intero, dalla prima alla quinta, sta già esaurendosi nelle nuove aule della Don Bosco senza mai aver varcato la soglia della scuola del Bellotti, e cinque anni potrebbero aver mandato l’argomento della riapertura in proscrizione; sono, del resto, non più di una ventina i bambini che dal quartiere posto alla sommità di via Marzorati alla mattina alle otto meno dieci e al rientro all’una usufruiscono del pullmino comunale, ad oggi rimasto gratuito: un numero non certo capace di riaprire una sezione distaccata dalla “Busca” (dal nome della via), che nel frattempo si è fagocitata anche il codice meccanografico per intero, senza lasciar adito a molte speranze di un dietro front amministrativo. Ma questa amministrazione, che all’epoca ha voluto salvare due scuole sacrificandone necessariamente una – quella, stando agli atti di perizia, con difetti d’agibilità particolarmente onerosi sul piano economico da superare – mentre nel corso degli anni ha fatto le più favolose promesse di recupero dell’immobile e dei suoi luoghi (doveva diventare un parco? doveva essere ricostruita ex novo?), oggi, senza dire niente a nessuno, e contando sulla distrazione congiunta dei media sull’argomento, ha trasformato la memoria di un luogo caro alla città in un deposito sciatto e malinconico. La ditta in azione, infatti, contrariamente a quanto si potrebbe sperare, non sta lavorando negli interni della scuola: semplicemente userà il suo bel parco come punto d’appoggio per lavorare all’esterno – schiaffo non solo agli abitanti del colle ma anche alle maestre, alle bidelle e alle famiglie che in sessant’anni ha fatto la storia della scuola varesina.
Un’aula della Canziani al Montello durante il trasloco del 2017
(Alle maestre Loredana, Grazia, Paola; a mamma Serena, la presidente del comitato genitori; alla bidella Antonella; alla collega Barbara della Prealpina, coinvolta come madre prima ancora che cronista. A Mauro, allora consigliere comunale del gruppo misto, che mi diede l’onere e anche l’onore di rappresentarlo nella commissione educativi. A Rossella, assessore ai servizi educativi, perché le diedi filo da torcere allora e so che lo sto facendo anche adesso, e mi dispiace; e a tutti coloro che amano le storie, quelle belle e dimenticate). -
Un’incantevole mattinata grazie alla Varese Nascosta
Ieri mattina, nella splendida ambientazione retrò del MIV- Multisala Impero – squisitamente messa a disposizione dal patron Andrea Cervini, ho partecipato ad una matinée interamente consacrata alla Storia della Città Giardino. Ad ideare lo splendido e insolito convegno, gli amici della Varese Nascosta ai quali va il mio plauso sincero ed affettuoso sia per l’impresa non certo facile (di questi tempi, poi!) di attrarre un folto pubblico (la sala era gremita) con l’argomento storico, ma soprattutto per l’armonioso allestimento, che ha saputo essere accattivante sotto ogni aspetto.
Matteo Inzaghi presenta il direttivo della Varese Nascosta: il presidente Paolo Musajo, la responsabile social Paola Molinari, il fondatore Luigi Manco e il vicepresidente Damon Zangheri. Assente, per il triste motivo della morte della sua mamma, il mio carissimo Fausto Bonoldi, responsabile stampa Subiectum, la proiezione di un filmato (muto) d’epoca di una dozzina di minuti riguardante un matrimonio celebrato a Villa Toeplitz esattamente novant’anni or sono, il 14 maggio del 1932: a sposarsi, nell’incantevole cornice dei giardini voluti da donna Edvige, la nipote Rysia Toeplitz con Federico Consolo.
Non vi faccio il resoconto della mattinata e nemmeno dei moltissimi sponsor, che trovate diffusamente sulla stampa varesina. Mi interessa piuttosto descrivere l’evento secondo il mio personale estro, di ricercatrice in primis: non vi nascondo che il ritrovamento d’archivio di Paolo Musajo Somma di Galesano, l’artefice della scoperta d’archivio, mi ha emozionata e entusiasmata sin da quando è stato reso noto sui social.
Enrichetta Toeplitz e Federico Consolo sugli schermi del MIV. Emozionati ed emozionante… Paolo, recentemente promosso alla presidenza del direttivo della Varese Nascosta, associazione che si occupa di divulgazione storica locale principalmente attraverso i social (l’omonimo gruppo Facebook, che conta 25mila iscritti, nasce nell’agosto del 2015 da un’idea di Luigi Manco e l’indimenticato Andrea Badoglio, ma la narrazione prosegue anche su Youtube, Tiktok e Instagram), qualche tempo fa ha scovato, nell’archivio della Fondazione Cineteca Italiana, un’autentica chicca che racconta il lontano sì dei due altolocati sposini in un mattino festoso che rivive sullo schermo nei volti, nell’eleganza varesina e nel contesto architettonico e botanico dell’epoca.
Per me e per la mia compagnia è stato un autentico tuffo nel passato, condito dal piacere di ritrovarsi finalmente, dopo due anni bui, in un contesto lieto, privo di angosce e socialmente e culturalmente stimolante. Ero presente alla proiezione con il professor Renzo Talamona, mio magister di ricerca e grandissimo e paterno amico (prometto di raccontarvi la sua storia, anzi le sue storie di pendolare pressoché quotidiano degli archivi fra Varese e Milano: ne rimarrete incantati), la deliziosa Caterina Cazzato, con la quale ho avviato un’interessante discussione sulla moda degli anni Trenta (la mia amica, di cui ricordiamo tutti l’eleganza innata nella recente campagna elettorale che l’aveva vista unico candidato sindaco donna al Municipio di Varese, mi ha rivelato di essere cresciuta in un atelier di moda!) e l’architetto appassionato di materia estense Franco Piana.
La bella compagnia di Renzo Talamona, Caterina Cazzato e Franco Piana Veramente tutti notevoli, a detta della compagnia al completo, i relatori: personalmente affascinata dalla lettura di Marita Viola, vi dico che non vedo l’ora di leggere il libro che Alessandro Pellegatta ci ha rivelato di essere in procinto di pubblicare sulla figura dell’esploratrice Edvige Toeplitz, moglie del banchiere Giuseppe, e padrone di casa, di cui sta studiando i resoconti di viaggio inediti.
Villa Toeplitz come appare dal filmato Tanta roba!, come direbbero i miei figli. Senza voler essere minimamente esaustiva nella relazione della mattinata (non potrei nemmeno volendolo, e non è questo lo scopo del presente commento), vi posso senza dubbio raccontare che non c’è stato un intervento noioso o fuori luogo: in particolare mi hanno colpito quello sulle automobili d’epoca di Beppe Macchi, presidente del VAMS (confesso: ho un debole per le Isotta Fraschini da quando ho riscoperto la figura di Filippo Tommaso Marinetti), la fine, puntuale e (ça va sans dire) veemente arringa di Daniele Zanzi intorno alle modificazioni agronomiche e ambientali di Villa Toeplitz occorse sino ai giorni presenti e infine il delicato e sapiente excursus sul paesaggio della Varese degli anni Trenta di Giuseppe Armocida.
Confesso di essermi emozionata in particolare sulle parole del presidente della Società Storica Varesina, che confermavano, in un vivido e dinamico affresco che correva di fronte ai miei occhi come fossi a guardare dal finestrino di un treno in corsa, il sentimento che avevo provato immaginando il viaggio di Flora verso le sue allieve del mattino. Ecco: io credo che il coinvolgimento emotivo per la storia varesina e le sue piccole storie sia stato in me veramente totale ieri mattina! E sono sicura che Flora fosse con me, seduta in qualche posto defilato, ad assaporare quei racconti e la proiezione di quel film, un matrimonio di cui si sarà sicuramente e lungamente favoleggiato in quel 1932 in cui andava e veniva da Milano abbigliata secondo il costume dell’epoca, sempre elegante e bellissima, i capelli ondulati e mori portati alle spalle, una spilla appuntata al cuore con un cameo, così come mi è stata descritta dall’ultima sua allieva rimasta a poterla raccontare: ed è l’unica descrizione che io possa ad oggi avere della fisicità della maestra di cui ho ritrovato i diari, ed è una cosa tanto più misteriosa se pensiamo che la documentazione iconografica di quell’epoca – ce lo ha dimostrato l’amico Paolo Musajo – è difficile da scovare, ma da qualche parte esiste ancora.
L’intervento dell’esperto di moda Antonio Frana Due parole sugli sposi che non mi ricordo se siano state dette pubblicamente e quindi mi sono premurata di scovare dalle mie fonti personali, per la curiosità di conoscere meglio chi mi aveva invitata alla splendida cerimonia (tenutasi nella cappella gentilizia della villa suddetta). Rysia all’epoca del matrimonio con Federico aveva solamente 23 anni, essendo nata il 31 agosto del 1909: sarebbe morta a Milano vent’anni fa esatti, dopo una vedovanza trentennale dal suo amato Federico (spirato nel 1973). La meravigliosa mattinata – la giovane rampolla di casa Toeplitz, figlia di Luigi, fratello di Giuseppe, e il promettente chimico palermitano si erano sposati alle undici del mattino – sarebbe stata ovviamente immortalata negli atti del Comune di Varese: e io, lo confesso, che passo le giornate a meditare su queste scartoffie storiche e a dar loro un’anima, mi sono commossa.
L’atto di matrimonio registrato dal Comune di Varese A suggello della carrellata di interventi, agli invitati al matrimonio ritrovato è stata offerta la praticamente perfetta replica estetica e sostanziale della sontuosa torta nuziale a sette piani, che Rysia aveva tagliato con spada d’onore universitaria del consorte (e curiosamente gli invitati ne avrebbero partecipato a mani nude, secondo probabilmente una ritualità scaramantico-augurale dell’epoca a noi francamente ignota).
La torta realizzata dagli allievi del De Filippi: spicca la riproduzione dello stemma della casata, ricostruito come da filmato il fotogramma del filmato che immortala la torta con tanto di stemma Un dolce magistralmente realizzato dai professori e dagli allievi degli ultimi anni dell’Istituto Alberghiero De Filippi secondo un attento studio filologico delle indicazioni dei ricettari e dell’arte pasticcera di novant’anni fa: il pandispagna – ho chiesto lumi alla prof! – proprio come si montava a spuma allora senza strumentazione e senza addizioni furbe di alcun tipo (oggi la tendenza è alveolarlo chimicamente) e la “bagna” rigorosamente liquorosa e fruttata, in melodioso connubio con la nuvola candida e freschissima di panna e fragole. Un dolce tagliato beneauguralmente dai futuri sposini Luigi e Stefania in una commovente staffetta con Rysia e Federico suggerita dal presentatore della giornata – il collega Matteo Inzaghi, grande amico di Luigi – e letteralmente divorato da tutti i presenti, benché ne sia rimasto abbastanza da poter essere condotto – mi ha confermato Paolo Musajo – alla mensa dei poveri gestita dalle suore di via Bernardino Luini: perché la gioia di una Varese ritrovata potesse essere condivisa veramente da tutti, anche chi assapora la dolcezza della vita molto meno sovente di tanti altri concittadini.
Con Caterina Cazzato e Jenny Santi, già allieva di Renzo al Cairoli!: due “sindache” veramente speciali! I formidabili ragazzi del servizio di sala del De Filippi: servizio impeccabile L’ultima discendente dei Toeplitz, in perfetto outfit anni Trenta A conclusione di questa molto parziale relazione, vorrei fare un ultimo commento: come ci insegna la bionda, splendida e statuaria Paoletta Molinari, padrona di casa e volto iconico della Varese Nascosta, l’anima di Varese è femminile. Non dobbiamo dimenticarlo mai.
-
Una maestra pendolare degli anni Trenta. Continua la storia di Flora, con una sorpresa.
Il giardino esterno agli archivi comunali, che dà sulla via XXV Aprile: bello e misterioso…
Ci sono giornate in cui ci si sente terribilmente sfiniti e si pensa di aver sbagliato tutto nella vita. I motivi della stanchezza psicologica possono essere molteplici: direi che dopo due anni come quelli che ci siamo appena lasciati alle spalle (speriamo) chiunque potrebbe sentirsi autorizzato a coltivare pensieri di frustrazione. In particolare quelli come me che per una serie di ragioni irrazionali fanno sempre mille cose assieme, aprendo mille gomitoli e intrecciando altrettanti fili nelle loro giornate, potrebbero pensare di essere particolarmente inconcludenti alla fine di un percorso in cui siamo stati trattati un po’ tutti quanti, soprattutto i cosiddetti “non particolarmente utili alla società” (tradotto: chi ha fatto della scrittura e dello studio le sue professioni), come schegge impazzite.
Stamattina, tornando in archivio comunale dopo due settimane di assenza (ho appuntamento fisso al mercoledì, ma settimana scorsa dovevo seguire un convegno sul Canzoniere Italiano di Pasolini), ero convinta di essere arrivata ad un punto morto nelle mie indagini su una storia varesina che mi ha preso il cuore da due anni, e sta portando le mie ricerche ben oltre la cerchia delle mura cittadine. Si tratta di un lavoro grosso che ho intenzione di perseguire con tutta calma, pochi frammenti alla settimana: eppure, se in un certo periodo la storia non mi chiama, inizio a diventare sospettosa.
in archivio, con il mio fedelissimo computer Avrà cercato qualcun altro? Non credo. E allora perché non mi regala più segni, intuizioni, tasselli da assemblare?
Forse semplicemente perché quelli precedenti che hai trovato devono sedimentare e fruttare!, entra senza permesso nei miei pensieri una vocina tranchante senza nemmeno vestirsi di virgolettato. Eh già. Sei la vocina della coscienza sporca della scrittrice pigra e dispersiva? Precipitati in archivio – ribatte quella – e smettila di piagnucolare. Hai dimenticato tutte le tue storie piccole? Flora l’hai abbandonata? Proprio lei che ti è stata vicina durante le chiusure (ti soffoca alla sola idea di pronunciarla quella parola abominevole: lockdown, ti do ragione), lei con la quale prendevi il caffè alla mattina presto salutandola dal balcone di casa, intuendo la torre della De Amicis fra gli alberi, perché con la DAD i tuoi figli avevano occupato tutte le stanze possibili e immaginabili e tu non avevi altro spazio vitale, appunto, se non il balcone? Proprio lei che ti ha condotto nella didattica a distanza temporale, che ti ha fatto viaggiare nella storia della scuola varesina, che ti ha fatto compagnia e ti ha consolata tutte le sante mattine mentre allestivi le aule domestiche e ti improvvisavi bidella per i tuoi figli che avevano per banco tutti i tavoli e le scrivanie presenti in casa, mentre a te rimaneva per lavorare solo la sedia mezza rotta sul poggiolo?
Non vuoi continuarla solo perché hai paura che un eventuale editore non te la pubblicherebbe più se la vedesse già lanciata sul blog? E pazienza! Hai capito che questa storia serve ai tuoi lettori (ok, più lettrici, diciamocelo, ma non solo!) adesso? Che si stanno appassionando adesso? Che stanno facendo tesoro adesso di queste povere righe che li trasportano altrove, fuori dalle angustie del quotidiano, come era successo a te a suo tempo?, e le storie mica servono solo a chi le trova e le scrive! Servono ai lettori, le storie: santo cielo!
(la cartella da cui si è materializzata Flora) Ha ragione la vocina.
Caro lettore, mi scuso profondamente per aver interrotto bruscamente le pubblicazioni di una delle più belle storie che mi abbiano mai scaldato il cuore. Facciamo pace (mi chiede di dirtelo Flora, con la quale mi sono già scusata). Hai voglia di sapere cosa ho trovato stamattina in archivio comunale nella cartella 31, cat. IX? (e tu dirai: ma cosa mi interessano i riferimenti d’archivio? Beh, io te li devo dare, per scrupolo documentario, perché si fa così!)
Ho trovato una lettera di Flora. Una lettera indirizzata al Podestà Domenico Castelletti.
Andiamo per ordine. Colta da folgorazione mattutina mentre bevevo il primo caffè (ovviamente sul balcone augurando a Flora buon lavoro: le buone abitudini non si abbandonano mai) mi dico: ma ci saranno pure da qualche parte le cartelle delle pratiche individuali degli insegnanti di novant’anni or sono, relative a malattie, buste paga, assunzioni, trasferimenti eccetera. (Le scuole ai tempi erano di diretta pertinenza del Comune).
Detto fatto, in pochi minuti ho sul mio tavolo di lavoro – oggi quello doppio, stupendo, accanto alla finestra aperta che dà sul giardino: arrivavano in sala le dolci note dei violini del Manzoni – il materiale che mi serve. Mi passano sotto gli occhi le pratiche di tantissimi maestri dell’epoca, fra cui vedo il nostro Leopoldo Giampaolo e – finalmente – anche Flora, che prende, incredibilmente, a materializzarsi sotto ai miei occhi da quella anonima cartella variamente fascicolata!
La pratica di Leopoldo Giampaolo, assunto alle scuole comunali da tre anni, quattro mesi e otto giorni al dicembre 32 E gli atti che mi commuovono sono due: ma del primo vi dirò la prossima volta
Nel secondo è proprio la sua voce a parlare, in una lettera al Podestà, perché le concedesse di poter mantenere la residenza nella sua città natale, Milano, con la promessa che sarebbe sempre arrivata puntuale al lavoro. E allora, siccome so che state aspettando anche voi da tempo queste parole, vi lascio leggere questa lettera così come si è presentata a me verso le undici e mezza del mattino, all’improvviso, come se volesse dirmi: “Prendevo veramente il treno tutte le mattine… ”. E una carezza lieve e furtiva uscita dal tempo mi asciuga una lacrima.
(A Carla con infinita amicizia).
-
Auguri, Mamme… auguri, Varese!
Oggi è la Festa della Mamma, e mi piace ricordare che sia stata proprio la mia prima lettrice, Maria Corvi, sei figli e la poesia nel cuore, a portarla a Varese a metà degli anni Cinquanta. La nostra amicizia nacque nel segno di un’intervista che le feci anni fa, quando la insignirono del premio della mamma varesina dell’anno. Lei era la storica fioraia di Varese e aveva la passione dei fiori e della lettura: aveva avuto fra le sue clienti più affezionate anche Liala, e mi diceva sempre che aveva ritrovato qualcosa della sua soavità nella mia penna.
Dalla bacheca Facebook di “Ave” Alfredo Corvi
“Probabilmente una delle prime vetrine in Italia, che pubblicizzavano la Festa della Mamma, appena nata” scriveva il 6 maggio 2016Maria era una lettrice incallita del mio giornale, La Provincia di Varese, e non mancava mai di telefonarmi quando le era piaciuto particolarmente un mio pezzo, solitamente una storia o la rubrica di cucina del lunedì , che sovente le dedicavo: una volta, per il suo compleanno, l’avevo omaggiata a sorpresa della ricetta della torta delle rose, che era stata inventata per Isabella d’Este, madre di prole numerosa come Maria (e anche la scrivente). Cuoca provetta, oltre che di una simpatia e allegria uniche, era la matriarca induscussa del Corso, e confortava spesso i vicini e la parrocchia di san Vittore con le sue delizie, che consistevano il più delle volte in sontuosi vassoi di pasta religiosamente fatta a mano. E soprattutto era una gran lavoratrice: “Laura, non importa quanti figli hai: ma se provi passione per il tuo lavoro, non devi assolutamente rinunciare a farlo”. Aveva trascorso la vita dapprima aiutando papà Tagnocchetti nella gastronomia omonima, poi – una volta sposata – accudendo i suoi fiori e ricavandone composizioni colorate e bellissime, sempre aiutata dalla suocera – la prima fioraia storica a portare il cognome dei Corvi – con la quale, mi disse, aveva avuto un rapporto di straordinario affetto, come fosse stata una seconda mamma.
Maria Corvi nel 2015, alla Festa di San Vittore Così oggi, dopo la festa parrocchiale del Lazzaretto, sono corsa a salutare la mia Varese – noi dei quartieri periferici la pensiamo sempre un po’ separata e sospesa, il cuore di una città stellare insomma che pure è un unicum da quasi cento anni (la data fatidica, lo saprete tutti, è il 1927) – e ho pensato che essere mamma è davvero la cosa più bella, anche se chi ha la maternità come dimensione dell’anima sovente ha questo slancio di accudimento non solo verso i figli, ma tutto ciò che ama, e poi ad arrivare a coltivare sensi di colpa per non riuscire a fare bene tutto ciò che si vorrebbe fare è un attimo. A me succede spesso: vorrei prendermi cura di tante cose e persone, vorrei scrivere tutte le mie storie perché se mi hanno cercato significa che avevano bisogno di me, vorrei leggere tutti i libri che ho accumulato in libreria e sul comodino perché gli scrittori devono rivivere nel colloquio con i lettori di tutti i tempi e se hanno chiamato proprio me… eccetera, ma alla fine, quando mi corico la sera, mi sembra sempre di aver fatto il minimo indispensabile e sovente mi ritrovo a chiedermi che tipo di madre io sia, che tipo di moglie, amica, giornalista, scrittrice… stop.
Stop. Facciamo che vi saluto con un sorriso.
8 maggio 2022 Ah, dimenticavo: i famosi fiori stamattina erano ancora nel medesimo posto, sul ciglio della strada, davanti a casa mia. Ed erano quasi praticamente intatti, perché aveva fatto freddo e aveva piovuto.
Mi sono detta: ma se fossero stati veramente per me?
Li ho raccolti e adesso Varese mi sorride da un vaso strano, che avevo trovato al mercatino tanto tempo fa.Secondo me Maria avrebbe fatto la stessa cosa. Non avrebbe mai abbandonato in terra un mazzo di fiori. E lei, la prospettiva di un fiore, la conosceva benissimo.
Era davvero l’anima gentile di Varese la mia amica Maria. Ci penso da tempo: mi piacerebbe che in suo ricordo si istituisse un premio letterario, tutto varesino, di poesia floreale. Devo provare a suggerirlo a due amici: Davide Galimberti e Daniele Zanzi, così magari fanno pure pace. Perché avere un sindaco che tappezza Varese di aiole fiorite è bello (vedi quella di piazza Biroldi, o i gigli che stanno spuntando alle rotonde di Bizzozero e del Castello), ma avere Daniele alla cura del nostro patrimonio arboreo, l’oro verde come lui lo chiama, sarebbe più bello ancora, per far rinascere i Giardini come si meritano, e tanto altro ancora.
(Dedicato alla mia mamma Nina, prima lettrice ex aequo con Maria, pittrice di paesaggi, di Madonne e di fiori)
-
Il mese delle rose – per Laura Rangoni
Un semino di rosa che germoglia sul mio balcone. Faccio un po’ di fatica a scrivere queste righe.
Oggi è una giornata triste, più triste del solito.
Però nel vasetto dove le ho seminate all’inizio di aprile, sono nate due piccole rose. Bianche, e sono le rose della Madonna.
Dicono che sia molto difficile far germogliare i semi delle rose. Far germogliare qualcosa, generalmente, non è per nulla facile. Costa fatica, impegno, dedizione, sacrificio. Anche il giornalismo è sacrificio. Anche dedicarsi alla storia lo è, alla letteratura, alla cucina.
E’ stato un maggio di tanti anni fa quello in cui ho conosciuto Laura.Laura Rangoni (Bologna, 23 dicembre 1962 – Bicos, 4 gennaio 2022)
Mia omonima, giornalista di fama e scrittrice gastronomica – la più prolifica d’Italia con gli innumerevoli titoli pubblicati per svariati editori, tra cui Giunti, Xenia e anche il nostrano Macchione -, sarebbe diventata il mio direttore poco tempo dopo. Avevamo le stesse passioni, gatti compresi: l’unica cosa che a me non riusciva facile era il giardinaggio, perché il pollice verde non mi era mai stato particolarmente congeniale. Lei invece faceva nascere le rose dai semi: era veramente una di quelle fate che aveva descritto con la sua magistrale penna nei suoi libri di antropologia. Una creatura particolare, con un carattere a volte scontroso, marcatamente ribelle e refrattario alle convenzioni. Non si era mai sposata, e in ragione di forti sofferenze personali amava particolarmente le rose per questo, per quelle spine che aveva dovuto lungamente subire, nella vita come nella professione, e che aveva deciso di farsi sodali per quell’intelligenza fine che possedeva, declinata sul piano di una sensibilità assolutamente fuori dal comune.
Laura aveva il marchio della libertà intellettuale, merce rara nel nostro mestiere. Ed aveva creduto nella mia medesima sua disposizione: per questo, quando le raccontavo del mio malessere dopo la chiusura del mio giornale, benché comprendesse che il giornalismo è in crisi, cercava di farmi reagire. Guarda sempre oltre, mi diceva. Cerca di superare i lutti: c’è sempre qualcosa per cui valga la pena di rifiorire. Questo mi disse l’ultima volta che ci siamo scritte.Le fate, Laura Rangoni, Xenia, 2004 (ancora disponibile, ad es. su Macrolibrarsi) Non so bene come potrò fare ad elaborare il fatto di aver perso proprio lei, che mi aveva scoperta e modellata quasi fosse una madre, non una maestra di giornalismo. Quando, in una fase particolarmente aspra, inveii contro quel tesserino che non mi aveva tutelata dopo il fallimento della Provincia, se ne rattristò come avessi rigettato tutto alle ortiche. Eppure sapeva bene che questo mondo, totalmente cambiato nel giro di pochi anni, sarebbe rimasto sempre nelle mie corde, perché quando do i numeri alla fine non ci crede veramente mai nessuno ai miei propositi funerei. Si raccomandava che la mia penna sempre ai limiti dell’esplosivo in qualsiasi contesto evitasse in particolare il sentimentalismo da feuilleton: ogni tanto mi scappava la mano, lo ammetto, anche quando dovevo imbastire la storia dei bruscitti. Eppure era nata proprio così la mia rubrica gastronomica del lunedì sul secondo quotidiano cartaceo di Varese, con qualche sbrodolatura che dipendeva dal colloquio in prima persona che stabilivo con le lettrici. Una rubrica che piaceva, che era molto seguita: la prima lettrice, che mi telefonava sempre per complimentarmi o anche per sgridarmi, a volte, era Maria, Maria Corvi, l’indimenticabile fioraia del Corso, appassionata di orchidee quanto di cucina. E diventammo grandi amiche proprio grazie a quelle righe che le avevo ripetutamente dedicato.
A Laura invece non ho mai dedicato nulla, proprio come fanno i figli egoisti coi genitori, senza consapevolezza magari di aver ferito. Lo faccio ora, nel giorno in cui dall’Alentejo, dove visse un paio di anni in ritirato e volontario esilio, torna per sempre nel Modenese, dove riposano anche i suoi genitori: e l’ho saputo solo pochi minuti fa. Nativa di Bologna – quante discussioni irriverenti sulla composizione del ragù, di cui mi contestava l’addizione della pancetta – “solo ed esclusivamente crudo tritato finemente!” e la querelle infinita sul nome della sua Bologna passato come antonomasia alla mortadella, ma solo nel Varesotto (“siete degli incivili” rideva), aveva studiato a Milano laureandosi in Storia del Cristianesimo e delle Religioni alla Statale; aveva vissuto lungamente nel campoluogo lombardo e successivamente a Blello, nella bergamasca, prima di tornare per un’ultima stagione – purtroppo proprio quella del terremoto – in Emilia. E’ mancata il 4 di gennaio di questo 2022, che per me è iniziato all’insegna del morbo covidiano che ho voluto affrontare a mani nude, consapevole della scelta fatta sul mio corpo resistente alla fatica, ai ripetuti parti, alla maternità vissuta con entusiasmo ma anche con la gravità di pesi sostenuti quasi sempre in solitudine. Lo abbiamo appreso, in Italia, solo il giorno successivo: ed era disgraziatamente il mio compleanno. Lei per me fu una luce folgorante: ero talmente orgogliosa di essere stata scelta che consegnavo anche la mezzanotte precedente al cesareo dell’indomani. E’ stata lei a forgiarmi alla resistenza in questo nostro mestiere e a ripensarmi di continuo nella scrittura, facendo leva sulle infinite risorse che una donna che scrive non può non possedere.
Laura ha scritto anche di cucina varesina, lombarda e padana, oltre che di tutt’Italia e di storia della cucina, materia nella quale naturalmente eccelleva (sua la seguitissima rubrica di tradizioni e costume sulla Padania). Agli editoriali e alla saggistica aveva affiancato anche la carriera di conduttrice radiofonica (la tv, benché “spaccasse” lo schermo, le era meno congeniale) e il suo programma, pur in forma ridotta e plasmata sulle mie esigenze, lo avevo ereditato proprio io. Mi aveva investita del ruolo di testimonial della cucina di Varese non solo per il suo giornale, Cavolo Verde, ma anche per svariati convegni e manifestazioni gastronomiche, e grazie a lei avevo calcato anche le scene delle Stelline di Milano con gli olivicoltori varesini. Quando ho abbandonato la gastronomia, non senza rimpianti, per dedicarmi esclusivamente alla cronaca, probabilmente la mia vera vocazione fino a quando non ho scoperto l’indagine archivistica (tornando peraltro da giornalista al mondo nel quale ero nata), sono sicura che non se ne ebbe a male: lo sapeva anche lei che il cartaceo schiavo del giorno deve sperimentare e saper fare di tutto all’occorrenza, e non si stancava mai di ripetermelo, prima e dopo l’esame che feci da pubblicista: esame tardivo – saranno dieci anni in questi giorni – ma assolto con risoluta convinzione.
Il giornalismo, in fondo, è proprio come coltivare le rose dai semi: quando credi che sia impossibile fare quello che ti tocca gestire, invece sei riuscito a farlo. Questo l’ho appreso sul campo, prima e dopo la canonizzazione dell’ordine. E non mi sono mai pentita di essere una voce libera in questo mestiere, mai. Bentornata a casa, Laura. Da oggi sei un pochino anche in questi miei nuovi semi.