
Faccio un po’ di fatica a scrivere queste righe.
Oggi è una giornata triste, più triste del solito.
Però nel vasetto dove le ho seminate all’inizio di aprile, sono nate due piccole rose. Bianche, e sono le rose della Madonna.
Dicono che sia molto difficile far germogliare i semi delle rose. Far germogliare qualcosa, generalmente, non è per nulla facile. Costa fatica, impegno, dedizione, sacrificio. Anche il giornalismo è sacrificio. Anche dedicarsi alla storia lo è, alla letteratura, alla cucina.
E’ stato un maggio di tanti anni fa quello in cui ho conosciuto Laura.

Mia omonima, giornalista di fama e scrittrice gastronomica – la più prolifica d’Italia con gli innumerevoli titoli pubblicati per svariati editori, tra cui Giunti, Xenia e anche il nostrano Macchione -, sarebbe diventata il mio direttore poco tempo dopo. Avevamo le stesse passioni, gatti compresi: l’unica cosa che a me non riusciva facile era il giardinaggio, perché il pollice verde non mi era mai stato particolarmente congeniale. Lei invece faceva nascere le rose dai semi: era veramente una di quelle fate che aveva descritto con la sua magistrale penna nei suoi libri di antropologia. Una creatura particolare, con un carattere a volte scontroso, marcatamente ribelle e refrattario alle convenzioni. Non si era mai sposata, e in ragione di forti sofferenze personali amava particolarmente le rose per questo, per quelle spine che aveva dovuto lungamente subire, nella vita come nella professione, e che aveva deciso di farsi sodali per quell’intelligenza fine che possedeva, declinata sul piano di una sensibilità assolutamente fuori dal comune.
Laura aveva il marchio della libertà intellettuale, merce rara nel nostro mestiere. Ed aveva creduto nella mia medesima sua disposizione: per questo, quando le raccontavo del mio malessere dopo la chiusura del mio giornale, benché comprendesse che il giornalismo è in crisi, cercava di farmi reagire. Guarda sempre oltre, mi diceva. Cerca di superare i lutti: c’è sempre qualcosa per cui valga la pena di rifiorire. Questo mi disse l’ultima volta che ci siamo scritte.

Non so bene come potrò fare ad elaborare il fatto di aver perso proprio lei, che mi aveva scoperta e modellata quasi fosse una madre, non una maestra di giornalismo. Quando, in una fase particolarmente aspra, inveii contro quel tesserino che non mi aveva tutelata dopo il fallimento della Provincia, se ne rattristò come avessi rigettato tutto alle ortiche. Eppure sapeva bene che questo mondo, totalmente cambiato nel giro di pochi anni, sarebbe rimasto sempre nelle mie corde, perché quando do i numeri alla fine non ci crede veramente mai nessuno ai miei propositi funerei. Si raccomandava che la mia penna sempre ai limiti dell’esplosivo in qualsiasi contesto evitasse in particolare il sentimentalismo da feuilleton: ogni tanto mi scappava la mano, lo ammetto, anche quando dovevo imbastire la storia dei bruscitti. Eppure era nata proprio così la mia rubrica gastronomica del lunedì sul secondo quotidiano cartaceo di Varese, con qualche sbrodolatura che dipendeva dal colloquio in prima persona che stabilivo con le lettrici. Una rubrica che piaceva, che era molto seguita: la prima lettrice, che mi telefonava sempre per complimentarmi o anche per sgridarmi, a volte, era Maria, Maria Corvi, l’indimenticabile fioraia del Corso, appassionata di orchidee quanto di cucina. E diventammo grandi amiche proprio grazie a quelle righe che le avevo ripetutamente dedicato.
A Laura invece non ho mai dedicato nulla, proprio come fanno i figli egoisti coi genitori, senza consapevolezza magari di aver ferito. Lo faccio ora, nel giorno in cui dall’Alentejo, dove visse un paio di anni in ritirato e volontario esilio, torna per sempre nel Modenese, dove riposano anche i suoi genitori: e l’ho saputo solo pochi minuti fa. Nativa di Bologna – quante discussioni irriverenti sulla composizione del ragù, di cui mi contestava l’addizione della pancetta – “solo ed esclusivamente crudo tritato finemente!” e la querelle infinita sul nome della sua Bologna passato come antonomasia alla mortadella, ma solo nel Varesotto (“siete degli incivili” rideva), aveva studiato a Milano laureandosi in Storia del Cristianesimo e delle Religioni alla Statale; aveva vissuto lungamente nel campoluogo lombardo e successivamente a Blello, nella bergamasca, prima di tornare per un’ultima stagione – purtroppo proprio quella del terremoto – in Emilia. E’ mancata il 4 di gennaio di questo 2022, che per me è iniziato all’insegna del morbo covidiano che ho voluto affrontare a mani nude, consapevole della scelta fatta sul mio corpo resistente alla fatica, ai ripetuti parti, alla maternità vissuta con entusiasmo ma anche con la gravità di pesi sostenuti quasi sempre in solitudine. Lo abbiamo appreso, in Italia, solo il giorno successivo: ed era disgraziatamente il mio compleanno. Lei per me fu una luce folgorante: ero talmente orgogliosa di essere stata scelta che consegnavo anche la mezzanotte precedente al cesareo dell’indomani. E’ stata lei a forgiarmi alla resistenza in questo nostro mestiere e a ripensarmi di continuo nella scrittura, facendo leva sulle infinite risorse che una donna che scrive non può non possedere.
Laura ha scritto anche di cucina varesina, lombarda e padana, oltre che di tutt’Italia e di storia della cucina, materia nella quale naturalmente eccelleva (sua la seguitissima rubrica di tradizioni e costume sulla Padania). Agli editoriali e alla saggistica aveva affiancato anche la carriera di conduttrice radiofonica (la tv, benché “spaccasse” lo schermo, le era meno congeniale) e il suo programma, pur in forma ridotta e plasmata sulle mie esigenze, lo avevo ereditato proprio io. Mi aveva investita del ruolo di testimonial della cucina di Varese non solo per il suo giornale, Cavolo Verde, ma anche per svariati convegni e manifestazioni gastronomiche, e grazie a lei avevo calcato anche le scene delle Stelline di Milano con gli olivicoltori varesini. Quando ho abbandonato la gastronomia, non senza rimpianti, per dedicarmi esclusivamente alla cronaca, probabilmente la mia vera vocazione fino a quando non ho scoperto l’indagine archivistica (tornando peraltro da giornalista al mondo nel quale ero nata), sono sicura che non se ne ebbe a male: lo sapeva anche lei che il cartaceo schiavo del giorno deve sperimentare e saper fare di tutto all’occorrenza, e non si stancava mai di ripetermelo, prima e dopo l’esame che feci da pubblicista: esame tardivo – saranno dieci anni in questi giorni – ma assolto con risoluta convinzione.
Il giornalismo, in fondo, è proprio come coltivare le rose dai semi: quando credi che sia impossibile fare quello che ti tocca gestire, invece sei riuscito a farlo. Questo l’ho appreso sul campo, prima e dopo la canonizzazione dell’ordine. E non mi sono mai pentita di essere una voce libera in questo mestiere, mai. Bentornata a casa, Laura. Da oggi sei un pochino anche in questi miei nuovi semi.
2 risposte a “Il mese delle rose – per Laura Rangoni”
Un commovente ricordo di una grande donna, libera e anticonformista non senza i conseguenti dovuti tormenti. Quello che a volte non si ha il coraggio di essere, almeno per me. Grazie Laura per queste righe che me l’hanno fatta apprezzare ancora di più.
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Grazie a te, cara Barbara. Sei una carezza in una giornata densa di malinconia. È bello pensare che Laura sia rimasta nel cuore di chi coltiva la letteratura che tanto amava.
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