• Piccole questioni programmatiche; e in più il mistero di Flora.

    Il frontespizio del diario di classe del primo anno di insegnamento di Flora a Varese.

    Cari lettori,

    in questi giorni mi state confermando che le storie che vado pubblicando sono di vostro gradimento. Vi devo confessare che, sebbene io abbia per deformazione professionale il classico fiuto del cronista per gli argomenti che si fanno leggere, non mi aspettavo che le piccole cose legate alla memoria dimenticata di Varese e scritte nella nuova veste del giullare avessero da subito un seguito così ampio, soprattutto fuori dal contesto nel quale sono nate (mi state scrivendo e leggendo in tanti da altre città e regioni).

    Alcuni di voi mi hanno chiesto perché non le raccolgo in un libro. Un lavoro piuttosto impegnativo è già in cantiere da tempo, ma non ho fretta di pubblicarlo, forse perché mi tiene compagnia con continue novità e scoperte e non riuscirei a staccarmene troppo presto: così, mentre indago negli archivi cittadini e non – la memoria di Varese è sparsa ovunque, sappiatelo! – e passo al setaccio il materiale per il libro dell’anima, mi rimane fra le dita sempre qualche voce che non saprei molto come far rientrare nell’indagine principale. E siccome quando una voce perduta salta fuori all’improvviso da un documento chiamando proprio te non puoi non ascoltarla, ho cercato un modo non complicato dal punto di vista editoriale per dare a queste voci la dignità che era stata sepolta da anni, a volte secoli, dalla polvere del dimenticatoio. La stessa cosa, del resto, che ho fatto per anni con le voci belle e inaspettate che affiorano da un negozio al mattino, da un cancello, da un parco… voci che seguirò ancora nei giorni che verranno: perché la cronaca mi è rimasta nel sangue, e anche se non la pratico più per conto terzi, è una dimensione che non potrò mai rinnegare: palestra di scrittura e di vita, continuerà per sempre ad esserlo.

    Mi avete anche chiesto di presentarmi, perché volete conoscere chi sono e sapere della mia persona. Vi rispondo che qui e là sicuramente emergerà qualcosa che mi riguarda, ed è già, ad oggi, venuto a galla parecchio: ma non ho interesse a fare come tanti noiosi che si mettono sul piedistallo e fanno inchinare ai loro piedi i loro personaggi. A me non spetta, qui, raccontare me stessa se non attraverso la scrittura delle storie che mi sono entrate nell’animo, e in cui casco debitamente un po’ come l’Alice di Carrol o – per rimanere sul nostrano – la Cascherina di Rodari. Ecco: prendete di me di volta in volta quello che si trova in un pezzettino nuovo che leggete: io mi ci specchio dentro prima di scriverlo.

    Il cancello della scuola Righi di Varese – anno 1884 – ove sono custoditi gli archivi scolastici in cui ho ritrovato i diari di Flora.


    Un’ultima cosa: non tormenterò il lettore con post a cadenza quotidiana. Oggi, ad esempio, vi disturbo con questo breve testo programmatico, ma in realtà sto lavorando, per pubblicarlo nei prossimi giorni (ora vedrò se a cadenza più o meno fissa) al “filone” di Flora: una storia delicata e con risvolti romantici che spero vi conquisterà passo dopo passo, come del resto pare abbia già fatto sin dalle prime battute. Dovrebbe catturare anche gli amanti del mistero, perché faremo i conti con più di un’incognita nella vicenda che la vede protagonista: a partire dalla sparizione di qualsiasi immagine che la riguardi. Mi credete se vi dico che ho scartabellato ovunque, ho chiesto a chiunque possa averla conosciuta ma non c’è soluzione all’enigma? Persino sulla sua tomba – eh già: noi amanti delle indagini d’archivio teniamo le lapidi in gran conto, dal momento che una foto salta sempre fuori al cimitero! – non esiste più la fotografia in ceramica che occupava lo spazio delimitato dai gancini metallici: cosa ne sia accaduto, e chi se la sia portata via, e quando, non ci è davvero dato ad oggi di sapere.
    Non vi dirò dove è sepolta, per ora, e magari mai: riposa in uno dei quattordici cimiteri varesini – i miei meravigliosi musei varesini a cielo aperto, uno più spettacolare dell’altro benché davvero poco valorizzati – e sono io in persona a prendermi cura della sua memoria. (Subito dopo i primi inattesi riscontri alla prima puntata, facendomi aiutare dalla mia amica e lettrice Raffaella, fioraia indunese, le ho portato un coloratissimo bouquet primaverile di stoffa a cui ho aggiunto anche qualche fiorellino colto nell’aiola antistante alla De Amicis, che ho lasciato seccare nel bel lume perennemente acceso, benché non si trovino parenti, o amici, o conoscenti che sappiano qualcosa di lei, mancata nel gennaio del 1986, e tornata a Varese dopo quarant’anni di assenza un mese prima di morire – la conferma è dalle anagrafi congiunte di Varese e Milano – apparentemente senza spiegazioni).

    Dulcis in fundo, dato che il tema cimiteriale mi è particolarmente nelle corde, tenetevi pronti a leggerlo abbastanza spesso. Risuonerà – ve lo preannuncio – tutt’altro che funebre in questi spazi, così come non suona tale assolutamente per me, che frequento più volentieri i morti dei vivi, ultimamente, e chiacchiero con loro amabilmente allo stesso modo attraverso un diario ritrovato o tramite un atto anagrafico, o reperito negli archivi parrocchiali, o ancora una fattura di bottega di cento-e-cinquanta-anni-fa, e infine di fronte ad una lapide, appunto. Colgo l’occasione con questo post per mandare un bacio a tutti coloro che in questi ultimi anni hanno lavorato con me e per me sugli svariati fronti della memoria, essendone custodi: per quanto mi riguarda sono le persone più affascinanti e umanamente premurose, benché sovente obliate, proprio come ciò che accudiscono silenziosamente e con devozione.
    (Grazie Luisa per avermi permesso di lavorare negli archivi della Righi per tanti anni. TVB. Questo post è per te)

  • Caterina e Marcellino: una storia per il Duca

    Dalla lettera del 10 aprile 1769 del Ministro Malagoli al Duca Francesco III

    Cari lettori,

    l’amicizia è qualcosa di fondamentale nella nostra vita. Rischiara le giornate, ci fa sentire preziosi, dona serenità e certezze, cammina insieme a noi.

    L’amicizia si può dimostrare in tanti modi, ed è essa stessa un dono. Quella fra il conte Malagoli e il Francesco III, signore di Varese dal giugno del 1765, forse non è molto conosciuta, anzi direi proprio per niente: sta di fatto che il duca d’Este si fidava di pochissime persone, e sceglieva i suoi ministri proprio fra i suoi intimi amici.
    Il commissario Malagoli se l’era portato da Modena nella sua nuova villa di delizia varesina, che aveva acquistato dal ricco commerciante Tomaso Origone ristrutturandola a puntino secondo un estro “esotico” ammiccante ai giardini viennesi della cugina Maria Teresa d’Austria (che per ringraziarlo del sostegno militare ripetuto negli anni lo aveva omaggiato prima del governatorato di Milano e, a seguire, della signoria nella città di cui, essendo sovente ospite del marchese Menafoglio in quella meraviglia della sua villa di Biumo Superiore che tutti conosciamo, si era perdutamente innamorato).

    E però, dovendo attendere ancora per un paio di anni alle faccende milanesi (che non vedeva l’ora di sbolognare al nipote acquisito Ferdinando, figlio dell’imperatrice) prima di potersi godere il buen retiro nella città prealpina, e avendo peraltro qualche grattacapo da gestire pure nella sua patria d’origine, in realtà i primi anni andava e veniva dal feudo di Varese, che appunto aveva lasciato sotto la sorveglianza del fido Malagoli. Il quale gli scriveva fittamente dei fatti che si susseguivano alla Campagnola, come veniva chiamato i primi tempi quello che oggi indichiamo come Palazzo Estense, che durante gli anni ducali prese il nome di Palazzo La Corte: tale appellativo rimase sino al febbraio 1882, quando divenne sede ufficiale del Municipio dopo essere stato venduto al Comune dall’ex sindaco Cesare Veratti, ritiratosi in un’ala privata per gli ultimi anni della sua vita. (Da notare che il trasferimento della giunta non avvenne subito ma solo alla fine dell’anno per resistenze interne, ma di questo parleremo un’altra volta, perché altrimenti, come al solito, ed è un grave mio difetto, perdo il filo del discorso e mi metto a raccontare cose che non c’entrano niente con la storia principale!).

    Francesco III, per la Grazia di Dio duca di Modena, Reggio, Mirandola, signore di Varese, etc etc etc

    Sta di fatto che un 10 di aprile del 1769, essendo appunto il Duca impegnato in faccende non varesine, il Malagoli, conoscendone bene l’animo malinconico, benché libertino e sentimentale, pensa bene di sollevargli il morale rendendolo edotto dell’evolversi di una situazione piccante occorsa a Corte qualche giorno prima: immaginiamoci perciò il nostro Este che legge la missiva con un calice di buon Pignoletto di sua produzione, seduto alla sua magnifica scrivania intarsiata milanese, alla luce del candelabro dorato che si era portato dallo stanzino d’oro del palazzo ducale a Modena, mentre attende l’ingresso nell’alcova della splendida terza moglie e seconda morganatica, Teresa d’Harrach. Il gaudente Francesco, detto per inciso, era novello sposo alla fresca età di 60 anni, portati con l’estro passionale e il fascino complicato e un po’ retrò dei nati sotto l’egida del Cancro: e i ritratti che possediamo, se non parlano proprio di un Adone, ci raccontano di un uomo intrigante e dal carattere in perenne, difficile equilibrio fra la lacrima e il riso. Non son cose che si sanno, ma Francesco aveva perso la mamma da bambino ed era stato allevato ai doveri di regnante con estrema severità dal padre Rinaldo, cardinale spretato per salvare la seconda volta la casata estense dall’estinzione; si era poi sposato la prima volta con una donna che portava il nome della madre, Carlotta, e che lo aveva fatto enormemente soffrire; e benché si fosse ampiamente riscattato nei panni militari di straordinario condottiero e sovrano magnanimo e illuminato, era rimasto sempre succube del fascino femminile e pronto a qualsiasi cosa pur di compiacere una donna di cui si fosse invaghito, sentimentalmente o umanamente (ma anche questa è un’altra storia e in questo momento il mio Duca, ovvero il mio datore di lavoro negli archivi da due anni a questa parte… ne riparleremo, non mi permette di andare oltre. Scusatemi).

    In buona sostanza cosa era successo? Ve la faccio breve, col consenso di F III: la giovane e bella moglie del giardiniere, di nome Caterina, insofferente alla monotonia domestica e di temperamento ribelle, l’estate precedente si era presa una sbandata per un certo Marcellino Segre, un buon giovanotto che aiutava il marito nella sistemazione del parco che si stava allestendo – vedi sopra – alla viennese; i due, dopo varie vicissitudini e richiami all’ordine, erano scappati, prima l’uno poi l’altra, a Milano con la complicità di un tale prete Bolchino; e al giardiniere devastato dal dolore – il quale, per dirla tutta e non prendere per forza le parti dell’uno o dell’altra, giacché in certe cose le responsabilità sono sempre di entrambi e mai di uno solo, si teneva in casa suo fratello scapolo e obbligava la giovane moglie a far dietro anche a lui – non era rimasto che dedicarsi ai suoi magnifici fiori per dimenticare l’amore perduto. E chi meglio del duca che aveva tanto sofferto per amore di donne esuberanti e capricciose, e fino all’ultimo ne avrebbe sofferto, avrebbe potuto capirlo, e provarne compassione?

    Palazzo Estense a Varese e i suoi giardini fioriti

    Ma la bella Teresa sta facendo il suo ingresso, in vesti lunari e profumata di viole, nella stanza nuziale. Il Duca ammira la cassettina degli omaggi floreali, giunti intatti nella frescura di una corsa notturna in carrozza da Palazzo: e le corolle odorose gli piacciono tanto quanto – ahinoi – le canne delle armi e le belle donne. Gli effluvi si intrecciano, e non ci è dato di proseguire il racconto se non con il pensiero, sperando di aver raccontato un Duca inedito e di aver fatto venir la voglia al lettore di leggere ancora di lui.

    (Dalla documentazione conservata presso l’Archivio di Stato di Modena, da me personalmente consultata nello scorso settembre. Busta 52, Atti di Corrispondenza varia relativi all’Amministrazione in Varese.

    Ne approfitto per mandare un affettuoso saluto agli archivisti, preziosi e cari, che spero di rivedere presto per proseguire certe indagini preziose…)

  • Ruggero il legnamée

    Cari amici,

    oggi il cielo è di quell’azzurro limpido e pastoso come quei piccoli fiori che prendono il nome dagli occhi della Madonna, con qualche rara nuvola vagante a contrastarne il campo. E però soffia un vento fortissimo, che non dà requie ai pensieri e alle membra: quel vento che di qui, di là, di su, di giù conduce i protagonisti del Furioso a destini impensati, sbattendoli maliziosamente fuori dai loro buoni propositi e dalle strade intraprese.

    Sarà che sono particolarmente legata a tutti i letterati di vento – da Arnaut a Dante a Petrarca all’Ariosto eccetera – ma da qualche giorno avrei dovuto scrivere una piccola storia bellissima, che a quelle corde letterarie è strettamente legata: sì, perché è la storia di Ruggero il Legnamée, occhi di cielo e chioma di aria ventosa, cui tiene moltissimo e che infatti protegge devotamente con la “scuffia” nei giorni più freddi; una storia che ho ritrovato da poco con piacere dal mio amico prestinaio Luca Famlonga di Belforte, bottega in cui le narrazioni della quotidianità si impastano assieme al pane, e ne si cava di volta in volta irripetibile poesia che allieta le giornate di primo mattino.

    «Ruggero senza i» specifica l’anziano signore contando le monetine del resto che gli dà Laura, la sorella di Luca. Mi guarda divertito e in un niente prende a raccontare la sua vita. «Sono un ragazzo del ‘34» dice «e da bambino ho visto la guerra: i miei genitori facevano i contadini a Legnago. Che tempi, quelli in cui non bisognava sprecare niente: e neanche i talenti. Perciò, anche se si faceva fatica a mangiare, siccome i miei sapevano che volevo diventare un artigiano, alla fine della quinta elementare mi hanno permesso di andare ad imparare come si creano i mobili». Chissà perché lo immagino in groppa all’ippogrifo mentre la mattina vola con la gioia nel petto verso mondi sconosciuti. «Difatti – continua nel sorriso entusiasta che si accende al ricordo della gioventù – mi facevo ogni giorno in bicicletta dodici chilometri al giorno per andare a studiare alla scuola tecnica». Una storia di biciclette che non avrebbe potuto finire altrove se non a Belforte e nella mia penna, penso, mentre il cuore guizza al murale che ho fatto coi ragazzini della Salvemini: ma questa è un’altra storia e la racconteremo un’altra volta (e mi rendo conto una volta di più di come la nostalgia sia contagiosa).

    Intanto il paladino del legno è arrivato alla svolta. «A diciannove anni, dopo la parentesi militare, vengo a sapere da un amico che a Varese c’erano tanti sciuri che nelle loro ville commissionavano lavori di pregio: e così dall’oggi al domani mi sono ritrovato a realizzare armadi e tavoli di quelli belli, artistici, massicci, che si facevano un tempo; ho portato a Varese i miei genitori – la mamma all’inizio aveva paura che mi mettessi coi contrabbandieri! – ride – e poi mi sono fatto una famiglia mia e ho lavorato trent’anni in azienda davanti al Tribunale: e adesso sono in pensione da tanti anni quanti ne ho lavorati» conclude malinconico con il suo leggero accento oriundo e arioso.

    «E non mi ero mai fermato nemmeno dopo il pensionamento – precisa – perché ho continuato a creare e riparare tavoli, sedie ed altri oggetti nel mio piccolo laboratorio a Belforte, per gli amici o su commissione. Anche tutte le panche della chiesa del Lazzaretto e i mobili del settore musicale sono miei. Ma adesso da due anni in qua la vita sta prendendo ritmi diversi: questa pandemia ci ha cambiati, e io che ho amato il mio mestiere come fosse il più bello del mondo, adesso sento che mi manca tanto come l’aria che respiro».

    Ruggero senza i – «era un nome che nel Veronese si usava, alla mia epoca» conclude, alludendo alla letteratura popolare dei cantastorie cui avevano attinto anche Boiardo e Ariosto – mi saluta reggendo il sacchetto del pane stretto al cuore, portandosi via in quel saluto i suoi ottantotto anni di lavoro, di passione, di poesia. Avrei potuto forse non raccontare questa piccola storia deliziosa? Anche questa è la mia Varese, certamente quella meno conosciuta: ma le piccole storie sono quelle da raccontare con gli strumenti più fini, e in pochi ormai li possediamo.

    (p.s. siete in tanti a chiedermi la continuazione di Flora: non preoccupatevi: sta arrivando!)

  • La storia di Flora, maestra gentile

    (un fiore di campo alla De Amicis di via Aquileja a Varese, aprile 2022)

    Cari amici,

    nelle poche ore trascorse da quando ieri pomeriggio ho dato vita a questo blog – che, come spiegavo, in realtà è la continuazione di un lavoro analogo iniziato su Facebook due anni or sono, e sospeso pro tempore, mi avete riempita di graditissimi riscontri in via privata. Ad essi vorrei rispondere puntualmente e lo farò, ve lo prometto, prossimamente, aggiungendo qualche riga più rappresentativa intorno alla poetica delle piccole cose e del giullare: oggi invece mi preme dar vita al mio primo personaggio e alla sua storia, che spero vi entrino nel cuore come da tempo sono entrati nel mio.

    Flora – questo il suo nome di battesimo, nome vero e non di fantasia benché rispondente alla soave persona che dobbiamo immaginare e che è veramente stata – è una maestra elementare di tanti anni or sono.

    Insegna alla De Amicis, la scuola di Valle Olona, negli anni Trenta del secolo scorso. Terminata da poco più di un decennio la Grande Guerra, con lei si era esaurito anche il colpo di coda dell’influenza spagnola, che si era innestata sui razionamenti alimentari e sulla carestia, prostrando la popolazione già messa a dura prova dagli eventi bellici e dalle innumerevoli perdite di giovani vite al fronte. Numerose malattie infettive – epidemie ripetute di morbillo in primis, ma anche l’influenza, la scarlattina e – non ultima – la tubercolosi – avevano ulteriormente angustiato la popolazione scolastica negli anni successivi: eppure, quando Flora viene chiamata a prendere servizio a Varese, è perché le classi delle scuole cittadine sono talmente numerose da arrivare alle sessanta unità, e urge sdoppiarle incrementando il numero dei docenti e allestendo con urgenza nuovi edifici scolastici di adeguate dimensioni.

    E’ proprio in quegli anni che si va progettando la nuova De Amicis di via Aquileja, essendo la scuola ubicata nell’edificio costruito ai Ronchi negli anni Ottanta dell’Ottocento ormai verso l’esaurimento degli spazi e del suo compito (gravi con gli altri i problemi idraulici, di cui si legge nelle delibere di giunta di fine secolo). Quel primo di dicembre del 1929, quando incontra per la prima volta le sue alunne varesine, la giovane insegnante milanese descrive con occhi commossi il suo novello regno:

    «Oggi ho assunto la terza classe femminile formata mediante lo sdoppiamento di quella numerosa già esistente. Siamo allogate nel locale della Cooperativa Fascista Filippo Corridoni. L’aula è al secondo piano, è piccola e ci si sta appena appena, ma è graziosa e raccolta; illuminata da due finestre che dominano la strada a zig zag che conduce a Varese e il profilo dei più rinomati monti del luogo: il Campo dei Fiori e S. Maria del Monte».

    Una classe vivace e promettente che fa subito festa a Flora: un colpo di fulmine reciproco, benché – sottolinea la giovane – alcune alunne “si sono commosse al pensiero di dover lasciare il loro maestro». Ci si chiederà chi fosse questo insegnante tanto amato in una classe originariamente composta da 58 allievi: si trattava nientemeno che del neodiplomato Leopoldo Giampaolo, il futuro direttore dei Civici Musei, della Biblioteca, uomo di notevole levatura culturale e insigne storico varesino, i cui esordi di insegnante a fianco di Flora ho raccontato nelle pagine del Calandari do ra Famiglia Bosina di quest’anno e che vi invito caldamente ad andare a cercare dal caro amico libraio Canesi di via Walder (farete un ottimo acquisto, dal momento che la piccola Laura Aresi, ovvero chi scrive, con il nome avito, legata ai natali bergamaschi, sul Calandari è affiancata da firme prestigiose e pezzi imperdibili legati alla memoria del nostro territorio).

    Io non andrei oltre col racconto, oggi. Per una serie di contingenze si è fatto tardi e devo attendere a cose domestiche e a qualche pagina di studio che mi attende ogni sera come conforto dell’anima. Solo, vorrei aggiungere qualche piccolo dettaglio: Flora era nata a Milano nel 1899 e si era diplomata a vent’anni all’istituto Tenca di via Moscova (a cui mi riprometto sempre di scrivere per cercare le note più acerbe del suo passaggio terreno, non breve come vedremo benché pressoché dimenticato dai più). A Milano risiedeva con la sua famiglia e fino alle soglie del secondo conflitto mondiale fece la pendolare dal capoluogo lombardo a Varese, prendendo il treno prestissimo ogni mattina e arrivando nella Città Giardino al sorgere del sole: e con lei, bella come un fiore di primo mattino – così mi ha raccontato qualche tempo fa una sua allieva oggi novantenne, che vive tuttora nel suo culto – iniziavano liete le giornate di studio delle bambine olonesi, affezionatesi a lei in un batter di ciglia, come fossero le figlie che non avrebbe mai avuto.

    (Questo racconto è dedicato alle maestre della scuola Sacco, eredi spirituali della De Amicis per tanti motivi, non ultimo il fatto che allorché chiuse, nel 2010, per motivi non ancora ben vagliati – ne riparleremo – i piccoli transfughi e le loro insegnanti migrarono in massa alle elementari belfortesi, fondendosi in un unico destino; in secondo luogo, perché il cursus honorum delle maestre della Sacco si è sovente fondato, sin dai suoi esordi nel ‘64, su una precedente gavetta alla De Amicis, così come mi ha confermato questa mattina la maestra Francesca, che ama particolarmente i miei racconti storici sulle scuole varesine, condotti negli archivi della Righi quanto in quelli anagrafici e storici varesini e milanesi. Per la cronaca, Flora questa gelida e buia mattina di primo aprile, esordita con la nevicata al Campo dei Fiori e al Sacro Monte, è sicuramente stata l’artefice del piccolo miracolo occorso alla Sacco, ove si erano guastati dalla tempesta di venerdì sera le centraline di controllo del riscaldamento e della luce, e non v’era verso di trovare l’inghippo: non è la prima volta che parlando di lei i guai scolastici si risolvono e torna il sereno. Un nume tutelare gentile che ha commosso anche Rossella, amica di tanti anni, a cui parimenti dedico queste pagine, e affettuosamente ringrazio per esserci stata vicina).

  • Il tempo del silenzio e il tempo della voce

    Chi vive di parole, come il giornalista, deve sottostare alle ragioni delle pagine – la commissione, il rigaggio, la notizia dell’ultim’ora, gli aggiornamenti, le inevitabili scocciature di chi non ha gradito il pezzo e più spesso, fortunatamente, l’apprezzamento del lettore e a volte del direttore e persino dell’editore – ma – spesso – anche delle pause più o meno previste e prevedibili e dolorose, fino all’esaurirsi del proprio compito di professionista della scrittura, o del proprio talento, o di entrambi.

    Dopo una di queste pause, non la prima del resto nella mia avventura con le parole e con le pagine ma sicuramente la più lunga e sofferta, torno a scrivere utilizzando un mezzo a me altrettanto familiare quanto lo era divenuta la carta stampata negli ultimi tempi: il blog nel mare magnum del web (ero stata, nel 2007, forse la prima blogger varesina con Una mamma e sette laghi),lo farò nelle vesti ripetutamente annunciate su Facebook della Voce di Varese (appellativo scherzosamente affibbiatomi da un amico ai tempi della Provincia) e mi dedicherò unicamente alle storie, perché sono loro che sono venute a cercarmi, sono loro le mie committenti: sono tornate a chiedermi di aiutarle ad uscire dall’oblio dal quale sono state inghiottite, a volte perché il presente ha troppa fretta per stare ad ascoltare tutto e tutti, altre volte perché strati di dimenticanza si sono sedimentati su voci che ormai appartengono al passato dei giorni perduti. Siamo simili, mi hanno detto: non puoi dimenticarci anche tu.

    Sono storie piccole, di una città dal fascino del tutto originale ma forse non adeguatamente raccontata al di fuori di una prospettiva monocorde e sempre troppo tesa a volare alto – ad inseguire i politici, i personaggi famosi, le questioni economiche sanitarie caritatevoli impegnate ed importanti, quelle che garantiscono la pagnotta a fine mese e rendono magari le pagine un po’ troppo uguali le une alle altre, ma non è certo la cosa più importante per un giornalista che insegue il giorno nel 2022, e che si deve adeguare al mainstream narrativo vincente. E certo, lo capisco sin troppo bene, sono del giro della cronaca pure io, o almeno lo sono stata fino a quando le lancette al mio giornale si sono fermate, e mi sono fermata anche io: ma questa è un’altra faccenda, e non c’è più pianto e non c’è più tempo di raccontarla, e soprattutto è capitato in tempo utile per evitare di essere risucchiati nell’omologazione di quest’ultimo biennio, che del giornalismo ha vissuto a mio modesto avviso le pagine peggiori di sempre, e che faticosamente ne uscirà, ammesso che ne possa uscire davvero.

    Quello che so oggi, con consapevolezza nuova, frutto di un nuovo lavoro che ha dettato la svolta, è che le storie piccole non le vede mai nessuno, e a Varese il piccolo è la prospettiva migliore di osservazione: mentre io che sono alla loro altezza le ho sempre viste e mi sono sempre piaciute più delle altre che magari ero costretta di malavoglia a gestire per lavoro. E così, adesso che sono diventata editrice di me stessa e di tempo ne ho a sufficienza per riprendere a scrivere, questo mio povero tempo inutile voglio dedicarlo a loro e a chi, come me, sentendosi sempre troppo inadeguato rispetto alle cose importanti che vengono decise da menti superiori e scritte di conseguenza, ha bisogno nelle sue giornate di volare con la fantasia in qualche storia dimenticata dai più e raccolta da un piccolo giullare di provincia. Un giullare nel senso più genuino del termine, un cantastorie di piazza che di puntata in puntata, di giorno in giorno racconta le storie che ha raccolto qua e là camminando per via, e avendo come fidi consiglieri gli alberi, i fiori, le stelle e la luna.

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    Dovrei iniziare a raccontarvi la prima storia, ma per oggi è finito il tempo della scrittura e così ricomincio domani. Vi basti sapere, per ora, che nelle prossime pagine vi presenterò un’amica cara cui sono legata ormai da tanti anni: Flora è il suo nome. Sarà una storia che riguarda lei, e anche un po’ me. E naturalmente, riguarda anche Varese.
    A presto.