Ruggero il legnamée

Cari amici,

oggi il cielo è di quell’azzurro limpido e pastoso come quei piccoli fiori che prendono il nome dagli occhi della Madonna, con qualche rara nuvola vagante a contrastarne il campo. E però soffia un vento fortissimo, che non dà requie ai pensieri e alle membra: quel vento che di qui, di là, di su, di giù conduce i protagonisti del Furioso a destini impensati, sbattendoli maliziosamente fuori dai loro buoni propositi e dalle strade intraprese.

Sarà che sono particolarmente legata a tutti i letterati di vento – da Arnaut a Dante a Petrarca all’Ariosto eccetera – ma da qualche giorno avrei dovuto scrivere una piccola storia bellissima, che a quelle corde letterarie è strettamente legata: sì, perché è la storia di Ruggero il Legnamée, occhi di cielo e chioma di aria ventosa, cui tiene moltissimo e che infatti protegge devotamente con la “scuffia” nei giorni più freddi; una storia che ho ritrovato da poco con piacere dal mio amico prestinaio Luca Famlonga di Belforte, bottega in cui le narrazioni della quotidianità si impastano assieme al pane, e ne si cava di volta in volta irripetibile poesia che allieta le giornate di primo mattino.

«Ruggero senza i» specifica l’anziano signore contando le monetine del resto che gli dà Laura, la sorella di Luca. Mi guarda divertito e in un niente prende a raccontare la sua vita. «Sono un ragazzo del ‘34» dice «e da bambino ho visto la guerra: i miei genitori facevano i contadini a Legnago. Che tempi, quelli in cui non bisognava sprecare niente: e neanche i talenti. Perciò, anche se si faceva fatica a mangiare, siccome i miei sapevano che volevo diventare un artigiano, alla fine della quinta elementare mi hanno permesso di andare ad imparare come si creano i mobili». Chissà perché lo immagino in groppa all’ippogrifo mentre la mattina vola con la gioia nel petto verso mondi sconosciuti. «Difatti – continua nel sorriso entusiasta che si accende al ricordo della gioventù – mi facevo ogni giorno in bicicletta dodici chilometri al giorno per andare a studiare alla scuola tecnica». Una storia di biciclette che non avrebbe potuto finire altrove se non a Belforte e nella mia penna, penso, mentre il cuore guizza al murale che ho fatto coi ragazzini della Salvemini: ma questa è un’altra storia e la racconteremo un’altra volta (e mi rendo conto una volta di più di come la nostalgia sia contagiosa).

Intanto il paladino del legno è arrivato alla svolta. «A diciannove anni, dopo la parentesi militare, vengo a sapere da un amico che a Varese c’erano tanti sciuri che nelle loro ville commissionavano lavori di pregio: e così dall’oggi al domani mi sono ritrovato a realizzare armadi e tavoli di quelli belli, artistici, massicci, che si facevano un tempo; ho portato a Varese i miei genitori – la mamma all’inizio aveva paura che mi mettessi coi contrabbandieri! – ride – e poi mi sono fatto una famiglia mia e ho lavorato trent’anni in azienda davanti al Tribunale: e adesso sono in pensione da tanti anni quanti ne ho lavorati» conclude malinconico con il suo leggero accento oriundo e arioso.

«E non mi ero mai fermato nemmeno dopo il pensionamento – precisa – perché ho continuato a creare e riparare tavoli, sedie ed altri oggetti nel mio piccolo laboratorio a Belforte, per gli amici o su commissione. Anche tutte le panche della chiesa del Lazzaretto e i mobili del settore musicale sono miei. Ma adesso da due anni in qua la vita sta prendendo ritmi diversi: questa pandemia ci ha cambiati, e io che ho amato il mio mestiere come fosse il più bello del mondo, adesso sento che mi manca tanto come l’aria che respiro».

Ruggero senza i – «era un nome che nel Veronese si usava, alla mia epoca» conclude, alludendo alla letteratura popolare dei cantastorie cui avevano attinto anche Boiardo e Ariosto – mi saluta reggendo il sacchetto del pane stretto al cuore, portandosi via in quel saluto i suoi ottantotto anni di lavoro, di passione, di poesia. Avrei potuto forse non raccontare questa piccola storia deliziosa? Anche questa è la mia Varese, certamente quella meno conosciuta: ma le piccole storie sono quelle da raccontare con gli strumenti più fini, e in pochi ormai li possediamo.

(p.s. siete in tanti a chiedermi la continuazione di Flora: non preoccupatevi: sta arrivando!)

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