
Ogni tanto qualche buon amico mi ricorda che nasco cronista, e che il mio lavoro fino a non molto tempo fa consisteva nel prendermi cura del tempo presente e delle sue storie.
Alcuni giorni fa avevo captato sulla bacheca del seguitissimo blog di Mauro Gregori, Varese la vedo così, la denuncia di una situazione di degrado nei pressi della fu elementare Canziani; così, approfittando di una mattinata relativamente libera, settimana scorsa mi sono presentata in quei luoghi a me tristemente cari per approfondire.
Tanto mi è appunto cara quella scuola, quanto rappresenta, assieme all’Addolorata, una delle ultime mie e più appassionate indagini per il giornale La Provincia di Varese, chiuso il quale non ebbi più voglia di proseguire a raccontare l’oggi della mia città, quasi mi sentissi di tradire la memoria degli ultimi, disperati mesi trascorsi, con i pochi sodali rimasti sulla barca, a mantenerne in vita pagine e storie che eravamo stati deputati a raccogliere e a testimoniare.

Ero riuscita, nonostante tutto, a prendermi una decina di giorni di ferie in quell’estate torrida e febbrile, bruciata fra le corse dal Palazzo cittadino a questo e quel quartiere e le volate in redazione a concordare le pagine che in cinque o sei, ma forse anche di meno, avremmo dovuto riempire in meno di mezza dozzina di indefessi, benché di pagine, ormai, ne fossero rimaste davvero poche. Eppure, come se il giornale fosse stato una rosa che sfogliava malinconicamente i suoi petali più belli e profumati, ci eravamo spartiti i diversi filoni in maniera viscerale, quasi più per dedizione alla materia che alla convinzione sincera di evitare l’irreparabile.
Ai non pochi lettori che ci dimostravano il consueto affetto – purtroppo non sufficiente a passare l’anno indenni – offrivamo in quei mesi ben oltre il puro spirito di servizio che già da solo rende onore alla professione giornalistica, quando svolta senz’altro padrone che l’amore per la notizia veritiera. Così, quando seppi che i traslochi della Canziani alla Don Bosco e dell’Addolorata da via Luini all’attuale Righi si sarebbero consumati proprio durante le mie ferie, chiesi insistentemente, ed ottenni dal mitico Caio (Francesco Caielli), il direttore, di tornare in opera a seguirle.

Non che fossi una giornalista modello con chissà quali titoli ed esperienza: ero arrivata tardi al secondo quotidiano varesino, dopo ambizioni letterarie chiuse nel cassetto, una pausa familiare piuttosto impegnativa e un nuovo percorso maturato nella recensione libraria e gastronomica e nel civismo cittadino; e per questo curriculum piuttosto eccentrico mi ero fatta una fama di ribelle ed eclettica che era piaciuta ai miei ed era guardata con immancabile sospetto dagli avversari.
Se c’era un argomento che mi andava di traverso – qualche cerimonia stantia o una certa conferenza stampa sul sesso degli angeli – mi inventavo di tutto pur di sbolognare a qualche collega la patata bollente; d’altra parte era famigerata la mia predilezione per quello che nessun altro avrebbe mai raccontato, almeno come lo avrei fatto io, s’intende, a partire dai lunghissimi (e spesso soporiferi) tête à tête fra rappresentanti delle istituzioni da una parte e presidi, maestri e genitori delle scuole a rischio dalle altre. Correvo a usmare l’aria, mi immolavo con il fuoco in corpo, mi immedesimavo, soffrivo con loro; mi intrufolavo nei cantieri prima degli altri giornali e soprattutto prima dell’invito ufficiale e generale da Palazzo.

E dalle interminabili riunioni da tagliarsi le vene, dove tutta la colleganza rivale levava le tende il prima possibile, la sera tardi dalla mia penna ne sortiva sempre la rappresentazione di un teatro di battaglia, con tanto di eroi disposti al sacrificio e di spargimento di sangue collettivo: il che, per chi era dentro l’argomento, non poteva non essere tale, ma io volevo proprio che fosse prerogativa del nostro giornale l’entrare nella notizia, e rappresentare come viva e sanguigna una città che aveva preso il colore fumé dei giornali blasonati e delle veline ufficiali nell’immaginario collettivo, mentre invece ai miei occhi aveva tinte vivide e luminose in tutte le sue pieghe, soprattutto le più inaspettate.
Non fu quindi abnegazione ma sincero trasporto il sentimento che mi portò a seguire le due diaspore scolastiche – Addolorata e Canziani dall’oggi al domani per motivi diversi avevano dovuto chiudere i battenti tra lo sgomento generale e le mille polemiche del caso – in quell’esaurirsi agostano delle ore vacanziere.

E se sulla storia dell’Addolorata continuai a lavorare in archivio nei soliti sotterranei della Righi, pubblicandola sul Calandari (qui potete leggere quegli studi), della Canziani da allora (qui l’ultimo pezzo, quello sul trasloco) non scrissi più una riga, benché sempre negli archivi avessi trovato la sua storia, che risale al 1964, quando ci fu la necessità di trasferire la scuola “speciale” di via Walder in luogo più consono ai bisogni di una scolaresca con esigenze che oggi definiremmo inclusive: era, infatti, la Canziani nata per convogliare in una scuola statale espressamente studiata anche a livello architettonico per l’argomento, le disabilità più svariate, benché poi nel decennio successivo la chiusura progressiva a livello nazionale delle scuole speciali in seguito alla legge 517 del 1977 (ma molte di loro sopravvivono ancora nei grandi centri) avesse prediletto l’integrazione scolastica anche in territorio varesino, così da trasformare la Canziani in scuola elementare di riferimento dei bambini tutti del colle dei Miogni.



Non ho aperto questa digressione solo per crogiolarmi nella nostalgia o per dimostrare che la storia di quella Canziani che parlava agli scoiattoli e che costruiva programmi con l’università dell’Insubria nel magnifico parco amato degli abeti rossi amato da Salvatore Furia (tanto da essere stato eletto per celebrare la festa degli alberi) è storia inclusiva alla massima potenza, avendo le disabilità offerto i loro spazi al mondo circostante e non il contrario. Ormai un ciclo intero, dalla prima alla quinta, sta già esaurendosi nelle nuove aule della Don Bosco senza mai aver varcato la soglia della scuola del Bellotti, e cinque anni potrebbero aver mandato l’argomento della riapertura in proscrizione; sono, del resto, non più di una ventina i bambini che dal quartiere posto alla sommità di via Marzorati alla mattina alle otto meno dieci e al rientro all’una usufruiscono del pullmino comunale, ad oggi rimasto gratuito: un numero non certo capace di riaprire una sezione distaccata dalla “Busca” (dal nome della via), che nel frattempo si è fagocitata anche il codice meccanografico per intero, senza lasciar adito a molte speranze di un dietro front amministrativo. Ma questa amministrazione, che all’epoca ha voluto salvare due scuole sacrificandone necessariamente una – quella, stando agli atti di perizia, con difetti d’agibilità particolarmente onerosi sul piano economico da superare – mentre nel corso degli anni ha fatto le più favolose promesse di recupero dell’immobile e dei suoi luoghi (doveva diventare un parco? doveva essere ricostruita ex novo?), oggi, senza dire niente a nessuno, e contando sulla distrazione congiunta dei media sull’argomento, ha trasformato la memoria di un luogo caro alla città in un deposito sciatto e malinconico. La ditta in azione, infatti, contrariamente a quanto si potrebbe sperare, non sta lavorando negli interni della scuola: semplicemente userà il suo bel parco come punto d’appoggio per lavorare all’esterno – schiaffo non solo agli abitanti del colle ma anche alle maestre, alle bidelle e alle famiglie che in sessant’anni ha fatto la storia della scuola varesina.

(Alle maestre Loredana, Grazia, Paola; a mamma Serena, la presidente del comitato genitori; alla bidella Antonella; alla collega Barbara della Prealpina, coinvolta come madre prima ancora che cronista. A Mauro, allora consigliere comunale del gruppo misto, che mi diede l’onere e anche l’onore di rappresentarlo nella commissione educativi. A Rossella, assessore ai servizi educativi, perché le diedi filo da torcere allora e so che lo sto facendo anche adesso, e mi dispiace; e a tutti coloro che amano le storie, quelle belle e dimenticate).
Una replica a “Noi eravamo il mondo: oggi siamo una discarica (autorizzata). La fine ingloriosa della scuola Canziani di Varese, fiore all’occhiello dell’istruzione della Città Fiorita.”
Grazie Laura. Interessante scritto sulle scuole Canziani ed Addolorata. Peccato questo abbandono di una scuola con bravissime maestre e collocata in un bellissimo posto per attività scolastiche.
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