
Cari lettori,
nel giro di pochi giorni Varese si è vista oltraggiare tre dei suoi simboli più cari: il campanile del Sacro Monte, il totem di Tavernari in via Albuzzi e il piccolo cigno dei Giardini Estensi.
Di quest’ultimo, che ormai ha concluso i suoi giorni terreni, dirò solo che la sua morte mi ha creato un grande e personale dispiacere: quale che ne sia stata la causa, e direi che il contesto ambientale indecoroso ha contribuito fortemente a non consentirgli di vivere se non pochi giorni, andando oltre al fatto in sé io ci ho visto, spietatamente, il simbolo della poesia in terra varesina che esala i suoi ultimi respiri.
Una poesia floreale, che dovrebbe essere il filo conduttore di una visione politica superiore della nostra città, capace di intercettarne con una prospettiva armonica e umile l’indole, l’essenza, la vocazione: il genio.
Peccato che la politica cittadina sia, da decenni, avvezza più a pensare Varese come un’azienda da amministrare, che come una civitas dove al centro ci sono i cives, appunto, i cittadini, e non il conticino da far quadrare a tutti i costi. Peccato, anche, che gli umanisti, in questa politica, latitino sempre più, dato che in quel cigno morente nessuno ha ravvisato alcun canto soffocato, alcuna voce messa a tacere. (Ed io, che banalmente avevo letto del loro arrivo nel settembre del 1929, proprio nei giorni in cui il mio personaggio più bello, Flora, vinceva il concorso magistrale che l’avrebbe portata ad insegnare a Varese – avevo appena fatto la scoperta in archivio – ho collegato immediatamente, e non son più riuscita a scrivere nulla da allora).

Il secondo simbolo offeso è, dicevo, il totem dello scultore Tavernari, sfregiato da un atto vandalico più di una settimana fa. Domenica, ossia ieri, si presentava ancora imbrattato di vernice, nonostante l’indignazione generale e ipocritamente propositiva sorta all’indomani dei fatti, sotto gli occhi dei passanti noncuranti e dei clienti del ristorante vicino che pranzavano in sua muta compagnia.

L’ho abbracciato, ho pianto. In lui, maestoso, silente, ferito sentivo forse solo io, nitido, l’urlo soffocato di quel cigno che estingueva il suo lamento: solo, indifeso, abbandonato nell’indifferenza plateale di una città intera. Era esposto senza targa alcuna, alla mercé di chiunque, è stato detto. Una firma, sul basamento, ricorda l’atto d’amore dell’artista per la sua Varese, che ora si raccoglie in quel grido di disperazione.

Il terzo ed ultimo, il più maestoso e perciò sconvolgente, il campanile del Sacro Monte spento all’improvviso.

Fatico a scrivere queste righe come se stessero spegnendo me: e, di fatto, così è avvenuto per giorni, e forse sarà ancora. Fatico, perché da un paio d’anni mi occupo in archivio anche di storia dei campanili.
I quali, essendo di pubblica utilità, sono sempre stati – ho letto carte dal Settecento in poi – di pertinenza municipale. Si sprecano le liti, ad esempio, fra i vari parroci di questa o quella parrocchia e i podestà, poi i sindaci, poi ancora i podestà e poi di nuovo i sindaci, per mettere a tacere le proteste dei campanari chiamati a svolgere il loro puntuale servizio, anche in notturna, quando non venivano adeguatamente remunerati. Certo, il Comune di Santa Maria del Monte è acquisizione relativamente recente – 1927 – del Comune di Varese, e quindi questa storia di tre secoli di contenziosi con Varese non ce l’ha: semmai, l’avrà avuta col sindaco del borgo, ma attendo smentite. Inutile negarlo: la torre campanaria è sempre servita come faro laico per la cittadinanza, sia dal punto di vista della regolazione dell’ora, sia dal punto di vista dell’orientamento: e se anche l’illuminazione è argomento non particolarmente datato, va idealmente ad aggiungersi a questa funzione multiforme di utilità pubblica e, soprattutto, di simbolo per la comunità tutta.
A prescindere dalle motivazioni addotte dalle parti in causa per non sobbarcarsi l’onere di un migliaio circa di euro di spesa annuale per il rinnovo dell’accensione, fino ad oggi sostenuti dall’associazione degli Amici del Sacro Monte (lode a loro), io direi che il campanile del Sacro Monte spento così all’improvviso è stato l’urlo che ha compreso e sublimato tutti i precedenti: l’urlo dell’indifferenza di chi gira la testa e accampa scuse per non guardare una città che lentamente muore. Quella luce venuta a mancare è come se fosse il buio calato definitivamente sulla nostra Varese: perché, fra tutte, la sovrastava e la illuminava. Ora, io vorrei andare oltre alle tifoserie, come superiore è appunto il Sacro Monte su tutto: se anche giuridicamente si dimostrasse che è l’una o l’altra parte a dover chinare il capo, credo che la parola dovrebbe essere data proprio a lui, al campanile: il quale, essendo suo dovere comunicare la speranza nelle nostre genti, e non altro, si appellerebbe al Sommo Comunicatore, il Dante Alighieri del De Vulgari Eloquentia. In un capitolo cruciale del I libro, il diciassettesimo, il poeta esule e travagliato immagina di aver finalmente identificato il vulgare latium – il volgare italiano che sta disperatamente cercando di definire e di trovare come ancora di salvataggio per la sua Italia frammentata e dilaniata dalle guerre – in un codice linguistico illustre:
Per hoc quoque quod illustre dicimus, intelligimus quod illuminans et illuminatum prefulgens: et hoc modo viros appellamus illustres, vel quia potestate illuminati alios et iustitia et karitate illuminant.
Intendiamo, per illustre, qualcosa che illumina e che illuminato, risplende: e per questo chiamiamo illustri quegli uomini che, illuminati dal potere, donano luce di giustizia e di carità agli altri.
Ripeto: non ne voglio fare una questione puramente filologica, documentaria, giuridica o cavillosa.
Semplicemente riportare a chi ci amministra il messaggio luminoso di una auctoritas contro cui è ben difficile avere l’ultima parola. Dante Alighieri, l’exul immeritus, che aveva patito il buio, l’offesa, il silenzio, io credo che si appellerebbe oggi come un tempo al mondo degli amministratori laici per accendere ancora la propria poesia. Perché Dante considerava sole l’imperatore quanto il papa, ma il primo – vi porto nella Monarchia e una decina di anni più tardi del passo del De Vulgari che ho citato, abbiate pazienza solo per qualche breve battuta finale – aveva le pertinenze sull’ordine terreno e sulla concordia dei popoli, il secondo aveva invece un magistero eminentemente celeste.
E qui, noi, stiamo parlando sì di una materia legata all’ambito curiale, un campanile, ma di fatto chiamata ad operare in un campo tanto umano, troppo umano, come la speranza di una comunità – quella varesina – in cui va spegnendosi ogni giorno di più la fiammella della poesia.
2 risposte a “Tre simboli offesi, tre voci soffocate: la poesia sta davvero morendo a Varese? (Appello al Sindaco Davide Galimberti)”
Cara Laura, per quel che riguarda i campanili,il contesto giuridico è cambiato.Chi ti scrive ha insegnato storia del diritto medievale e moderno all’ UniGenova. Non ho mai avuto occasione di occuparmi di spese x i campanili,ma la situazione può essere stata quella che descrivi.Bisognerebbe vedere la normativa e la prassi nei singoli stati preunitari e,qui,in Lombardia,nel susseguirsi dei vari regimi.L’ atteggiamento verso la chiesa, per esempio,durante la repubblica cisalpina, era di forte ostilità, tanto che- come ben sai- il convento delle monache del S.Monte venne soppresso ed i suoi beni confiscati. Per quel che riguarda oggi,ho fatto una breve ricerca su di una vasta banca dati di legislazione ,giurisprudenza e dottrina giuridica,che si chiama Dejure Giuffre’,ma non ho trovato nulla. Quando avrò tempo,vedrò se riesco a trovare qualcosa.Vale il mio suggerimento di porre – da parte, del comune, se realmente intenzionato ad intervenire – un quesito alla corte dei conti- l’ organo preposto alla vigilanza contabile su di esso. Non è tenuta a rispondere, ma spesso lo fa. Quando,con altra giunta, si parlo’ di finanziare l’ illuminazione notturna delle cappelle della via sacra, risultò che non era giuridicamente possibile ( sono passati degli anni,ma credo di ricordare bene),perché si trattava di un bene non comunale.Concludo con un esempio tragicamente divertente: anni fa un sindaco del Varesotto fu censurato dalla corte dei conti di Milano,xche’ il comune aveva regalato dei fiori ad una centenaria.Tuttavia- bontà loro- considerata l’ eseguita’ del danno,non venne condannato al risarcimento. Non è così dappertutto: al sud atti assai più gravi non vengono sanzionati.Cosi’ vanno le cose.Un caro saluto, mia battagliera amica e madre di cotanta prole,merito che non cessero’ mai di lodare,in un popolo che – sopratutto per egoismo- come ci dicono anche gli ultimi dati- si va estinguendo. Buona domenica a te ed alla tua bella famiglia. Mario Speroni
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Tutti fatti gravi, ma lo spegnimento del campanile è particolarmente vergognoso a mio parere. Rattrista anche me da matti
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