• La lettrice di Guttuso

    I lettori affezionati del mio blog sapranno che ho recentemente stretto amicizia con il Maestro Guttuso (complice una recente caduta da uno scalino al castello di Masnago…).
    Ecco, con questo suo (a mio avviso splendido) quadro esposto alla Galleria d’Arte Moderna di Palermo volevo dirvi che sto per tornare… in pista sulle pagine di un giornale varesino. Ma a me piace sempre di più pensarmi nelle vesti di lettrice, come si definiva la mia grande Madre Letteraria Anna Maria Ortese. Ecco il perché della scelta.

  • Tanti auguri, Professor Fenzi!

    Oggi è il compleanno dell’insigne Professor Enrico Fenzi, che non ha certo necessità di presentazioni da parte mia.
    Mi accompagna da tempo nelle mie sere di studio, quale libro del cuore per tante ragioni che preferisco tenere secretate, la sua edizione commentata del De Vulgari Eloquentia, pubblicata per i tipi della Salerno Editrice in occasione del settimo centenario della morte del Sommo Poeta. La trovo semplicemente sublime, la più completa e appassionata lettura del capolavoro incompiuto dantesco.

    Il De Vulgari è l’opera di Dante in assoluto che preferisco; Fenzi ad oggi il suo critico più alto e perspicace, degno discepolo ideale di Pio Rajna, altro grandissimo studioso del trattato linguistico, di cui come per Fenzi ho una personale venerazione. E l’edizione fenziana è proprio promossa dal Centro Pio Rajna in collaborazione con la Casa di Dante a Roma.

    Enrico Fenzi è anche un grandissimo studioso di Cavalcanti e tanto altro ancora.

  • Felicità è un segno dantesco inaspettato. Anzi, una rete di segni.

    Questa mattina ero impegnata in archivio. Sapendo che il libro mi sarebbe arrivato in un orario per me scomodo, e che se non fossi stata in casa sarebbe stato portato ad un punto di ritiro un po’ scomodo, ho appeso al portone d’ingresso un cartello pietoso per il corriere e ho chiesto la gentilezza ai vicini di ritirarlo per me; e così, quando sono rientrata dal lavoro, ho trovato con grande sollievo il pacco posato accanto alla porta di casa.
    D’altra parte avevamo concordato assieme alle Edizioni del Galluzzo, via mail, lo scorso venerdì la data della spedizione; avrei potuto cambiarla secondo gli impegni ma mi sentivo che non si sarebbe dovuto fare; soprattutto, ero ad un corso di aggiornamento professionale all’auditorium San Paolo a Milano e avevo dovuto cedere alla rapidità delle comunicazioni, senza poter pensare troppo ai miei effettivi impegni e alle possibilità pragmatiche del ritiro.

    Tutto questo per dire che felicità e commozione si sono legate alla scoperta che proprio ieri, il 17 febbraio, il giorno in cui il libro si metteva in viaggio, era anche l’anniversario della morte di Domenico De Robertis, il grande allievo di Contini, superatore del Maestro. Questo commento cui aveva atteso per quasi mezzo secolo era stato la sua ragione di vita e, appunto, il suo personale Virgilio Ambrosiano dove reclinava il capo congedandosi da questo mondo.
    Quattordici anni fa, come ieri, appunto.
    E quattordici, si sa, è numero fortemente dantesco.
    Grazie. Infinitamente.

  • Due Madonne ferraresi esposte ai Diamanti

    Ormai non è un segreto per i lettori del mio blog: non appena torno da Ferrara, inizio a contare i giorni che mi separano da lei, da questa città del cuore dove rinasco ogni volta, e divento compagna d’anima di Lucrezia Borgia, di sua suocera Eleonora, di Elisabetta ed Eleonora Gonzaga, di Isabella del Balzo, di Leonora, Marfisa e di tutte le dame che nell’esilio estense più o meno scelto, più o meno subìto, che fosse nativo o esotico trovarono rifugio degno di loro.

    A Ferrara mi sento a casa: ho i miei amici, ho i miei luoghi cari, ho i locali che amo frequentare assieme a mio marito ma anche da sola. E fra tanti luoghi dove amo trascorrere le mie lunghe giornate estensi, in particolare ve n’è uno, il Palazzo dei Diamanti, che per me è un vero asilo del cuore e della mente. Amo tornare spesso in Pinacoteca a salutare alcuni dipinti con i quali ho stabilito un colloquio intimo e prezioso.

    Lei è la mia Madonna preferita in assoluto. Mi fermo spesso a parlarle: è stata dipinta dal cosiddetto Maestro degli occhi ammiccanti verso la metà del Quattrocento ed è una tempera su tavola. Mi piace tantissimo per la tenerezza quotidiana che la contraddistingue: gioca con il suo Bambino facendogli il solletico e gli copre la testina con il suo velo, ma anche il sederino con un panno pulito. E’ una mamma che ha appena cambiato il figlio e si mostra nella sua delicata e timida semplicità: è davvero stupenda, sembra parlarti e sorriderti dicendo “Vedi? Sono come te, parlami e ti capirò”. Ispira confidenza, infonde serenità.

    Quest’altra opera, invece, è la Madonna col Bambino di Benvenuto Tisi detto il Garofalo (1481-1559), di mezzo secolo posteriore a quella precedente. E’ esposta nella mostra che terminerà domenica, al piano inferiore dei Diamanti (la Pinacoteca è al piano superiore): mi viene spontaneo accostarle per l’affinità cromatica delle figure virginali e del Bambino. I toni dominanti sono il nero del velo e del manto della Madonna, mentre l’abito è rosso, esattamente come nel dipinto del Solletico. Le espressioni in questo caso sono serie, gli occhi della Madonna e del Bambino non sono più rivolti all’osservatore; la Madre carezza con lo sguardo il Figlio, il quale gioca con due ciliegie e un uccellino che si è posato sulle sue dita, mentre Lei con un braccio lo tiene saldo al grembo, con l’altra mano chiude un libro che sta leggendo. Alle loro spalle la città turrita che doveva essere ancora al tempo (come attesta anche la cripta affrescata di recente ritrovamento in San Paolo, sotto la sepoltura di Guarino Veronese) e la campagna circostante. E’ ancora una scena del quotidiano, ma nei modi composti e classicheggianti del Raffaello ferrarese, che pur essendo già considerato un insigne Maestro e autore delle più splendide pale d’altare delle chiese ferraresi, non rinunciò a fare tabula rasa della sua arte dopo un viaggio a Roma in cui – come narra il Vasari nelle sue Vite – rimase folgorato da Michelangelo e Raffaello e volle tornare nei panni del discepolo che apprende un nuovo stile e un nuovo cammino.

    Quest’opera, un olio su tavola, appartiene ad una collezione antiquaria di Como (Callea Antichità). Garofalo, assieme a Mazzolino, Dosso e Ortolano è protagonista della mostra ai Diamanti che chiuderà, come ho scritto più sopra, alla fine di questa settimana. Nei prossimi giorni vi racconterò altre opere.

    Benvenuto Torreggiani, Busto in gesso del Garofalo, 1872.

    Per salutarvi, colgo l’occasione per presentare a queste pagine una persona cara e gentilissima (vero testimonial della cortesia estense) che rivedo sempre con piacere: Marco Gulinelli, assessore alla Cultura di Ferrara al suo secondo mandato. Lui e Vittorio Sgarbi sono la mente e l’anima di tutto ciò, e di molto altro ancora.


  • Sant’Imerio, il mio prediletto.

    Particolare del Polittico di Francesco De’ Tatti, 1517, Castello Sforzesco, Milano.

    L’ho saputo tardi, che si sarebbe festeggiato oggi1. Sant’Imerio mi è nel cuore da tanti anni; ho scritto tanto di lui in passato. E’ il mio santo preferito non solo perché è ad oggi l’unico santo varesino, ma anche perché è un pellegrino romeo, e mai come quest’anno giubilare vorrei che proteggesse la mia scrittura in cerca del suo cammino.

    Tanto si è detto, tanto si è lavorato di opinione su di lui e sul compagno Gemolo, col quale attraversava la Valganna quando vennero assaliti intorno all’anno Mille da alcuni briganti: Gemolo morì entrando nel bosco di retro all’abbazia di Ganna, dove la pietra incontrando il Margorabbia si fa del color del sangue; Imerio riuscì a trascinarsi sino a Bosto, che come mi spiega sempre il mio magister Renzo Talamona, era entità amministrativa separata da Varese e lo sarebbe rimasta per molto tempo: qui spirò e fu sepolto in un sarcofago di pietra conservato nella chiesa attualmente intitolata al santo (ma solo da un secolo a questa parte, giacché in precedenza era dedicata a san Michele).

    Si è cercato invano il nome del vescovo che li accompagnava, e che li avrebbe scortati sino a Roma se non ci fosse stato l’agguato. Si è ipotizzato addirittura che i due santi, la cui memoria ricorre in realtà il 4 di febbraio nel martirologio romano, fossero “gemini” e non cugini, e c’è chi addirittura pensa che fossero la stessa persona. Di fatto, su istigazione del mio Magister, nel lontano febbraio 2017 andai a leggere personalmente in biblioteca la voce dedicata sul ponderoso e fondamentale tomo del Bussero che Luigi Borri aveva acquisito fresco di stampa (la prima edizione in assoluto) nel 1917, tre anni prima di morire (la grafia è la sua, fidatevi): lo leggevo giusto nel suo centenario e fu un’emozione unica. (Abbiamo in biblioteca a Varese autentici tesori nascosti).

    La Memoria di san Gemolo del Bussero (che scriveva nel XIV secolo circa) continua ma non ve la faccio lunga (altrimenti la mia amica carissima e prima lettrice Antonia, al cui giudizio tengo tantissimo, mi sgrida e fa bene). Vi mostro solo uno scatto (un po’ datato: risale al 2010) del luogo del martirio di Gemolo, la famosa pietra di porfido rosso, e più sotto…

    … un tenero ricordo di quel 2017, in sant’Imerio, quando le celebrazioni durarono diversi giorni e don Enrico aveva invitato fra i conferenzieri il suo amico fraterno Renzo Talamona.

    Credo che la mia passione per la ricerca storica abbia inizio da qui. Una passione in cammino.

    Post scriptum. Fra pochi giorni si tornerà a parlare del Carnevale Bosino e del Pin Girometta. Ecco. Io anni fa proprio in occasione di quelle frequentazioni ipotizzai che Giuseppe Talamoni, il celeberrimo artista varesino fondatore (fra tante altre cose) del Gruppo Folcloristico e compilatore del Canzoniere Popolare Bosino (ma non parente di Renzo Talamona nonostante la quasi omonimia: so già che me lo chiederete e quindi anticipo la risposta!), si fosse ispirato all’iconografia della predella del polittico del Tatti, ossia in buona sostanza a Sant’Imerio, per generare la figurina archetipica del Pin.
    Oggi più che mai ne sono convinta e non mi stupirei, un giorno, di trovare la prova d’archivio che mi dà ragione.

    1. Racconto del Polittico in questo articolo: Le due Caterine clarisse: Caterina Piccinelli e Lucrezia Borgia. Da Varese a Ferrara, due nobildonne in colloquio oltre il tempo. – La Voce di Varese ↩︎

  • Faber a colloquio con l’arte varesina in Sala Veratti. E la mia nuova indagine sotto i suoi auspici.

    Non è da me fare incursioni nei luoghi della mondanità varesina, essendomi da tempo rifugiata nel mio caro e confortevole esilio dorato, fatto di famiglia, studi, scrittura, viaggi – tanti – ed archivi.

    Proprio ieri sera, però, uscivo dalla Biblioteca Comunale, sita nei locali di Palazzo Estense dove avevo studiato per tutto il pomeriggio avviando un’indagine nuova, che mi occuperà diversi mesi rincorrendo un caso d’oblio di quelli che mi prosciugano le vene ai polsi: e quella dolce voce femminile negletta e ormai visceralmente amata, di cui sto raccogliendo – direbbe Anna Banti – faticosamente i minuzzoli della storia – mi aveva condotta lontano nel tempo, un giorno di quasi cent’anni or sono, quando il refettorio dell’ex convento di Sant’Antonino venne aperto per la prima volta dopo secoli e per l’arte.

    Fresca di tanto studio gettavo il cuore in corsa verso quella Sala Veratti che avrebbe ospitato il vernissage dell’esposizione dedicata a Fabrizio de André, alla presenza dell’assessore alla cultura Enzo Laforgia, grande appassionato di Faber e promotore della mostra. Non dopo aver incontrato sulla via qualche amico che da tempo non vedevo…

    Leopoldo Giampaolo, già direttore della Biblioteca Civica, storico ed insegnante. Sempre sotto la sua protezione mi pongo, da quando ho avuto il privilegio di riscoprire i suoi primi registri scolastici e di scriverne sul Calandari do ra Famiglia Bosina.
    La Voce con il Sindaco Davide Galimberti, caro amico da anni
    Palazzo Estense, sede del Municipio e della Biblioteca Civica

    Così, finalmente, facevo il mio ingresso in quello scrigno di bellezze che è la Sala Veratti, la quale apre solo in occasione di rari eventi, e grazie alla sollecitudine dei volontari che se ne offrono custodi: di questo evento in particolare si fa garante il caro Roberto Leonardi con l’Associazione Varesina dei Carabinieri.

    L’interno della sala Veratti. In piedi, acanto ai curatori della mostra, il titolare del dicastero alla cultura di Varese, Enzo Laforgia, docente al liceo Cairoli di Varese.
    prospetto della sala allestita per la mostra, durante la conferenza di inaugurazione
    Se l’avesse scritta veramente, vorrei leggerla, io che da anni scartabello nelle storie dei “matti” varesini
    la Sibilla Libica profetizza la nascita di Gesù da una Vergine Signora delle Genti
    I preziosi vinili in esposizione, fra cui alcune rarissime “lacche” (prime edizioni)
    Quando il “Faber” venne a Varese assieme ad un giovanissimo Eugenio Finardi
    La Sibilla Eritrea profetizza la nascita umile di Cristo
    La Sibilla Persica predice la nascita del Signore, salvezza delle genti, (da notare le abbreviazioni latine ben note ad una personalità colta come il Magatti), dal grembo della Vergine.
    il magnifico soffitto del Refettorio.

    Non potevo certo mancare all’appuntamento con il primo cantastorie d’Italia, io che, povero giullare (che custodisco la ricetta della cimma della nonna di mio marito, e che ho fatto sei figli mezzi zeneizi), sovente canticchio Re Carlo tornava dalla guerra. L’ascoltavo la prima volta a lezione in Festa del Perdono grazie al professor Alfonso d’Agostino, di cui mi pregio d’esserne stata allieva nel tempo degli dei falsi e bugiardi; lui mi ha trasmesso per primo il sacro fuoco di liberare le vite degli altri imprigionate dalla polvere del tempo: proprio come Faber, il filologo romanzo della chanson italiana.

    Non potevo certo mancare, e non solo perché ho scoperto di recente una cantastorie varesina dimenticata dell’epoca del Risorgimento. Non potevo certo mancare perché ero stata appena chiamata ad inseguire una nuova storia tutta varesina, parimenti splendida e struggente, che aveva avuto inizio proprio da quella Sala Veratti1, da quelle meravigliose Sibille dal cartiglio latino dipinte dal mio adorato Magatti assieme al Baroffio; e avevo ancora sotto gli occhi, pregni delle carte appena lette, il podestà Domenico Castelletti2 che quella sala nel lontano 1929 aveva voluto riaprire e restaurare e destinare all’arte ed alla cultura varesina. Arte e cultura che un tempo furono floride e pionieristiche, e tali, mi auguro proprio sotto gli auspici delle Sibille e di Faber, devono tornare.

    Il novello “piantone” di via Veratti, che sostituisce il cedro risorgimentale abbattuto nel 2022. Luogo caro alla protagonista della mia nuova storia.


    1. La storia della Sala è raccontata al seguente link: Sala Veratti – Musei Civici di Varese ↩︎
    2. In qualità di presidente dell’allora Club degli Artisti, ribattezzato presto Circolo degli Artisti di Varese.- ↩︎

  • Buon san Biagio con Ugo Celada da Virgilio

    E’ tradizione milanese e anche varesina che a san Biagio, il 3 di febbraio, si gusti un pezzetto di panettone conservato da Natale, possibilmente portato a benedire in chiesa, perché il santo dai noti poteri taumaturgici – fu, Biagio, in realtà un medico armeno e vescovo cristiano morto martire nel 316 – protegga dai malanni da raffreddamento e delle alte vie respiratorie: “A San Bias – recita il detto popolare – “sa benediis la gola e ‘l nas”.

    Mi rivolgo a lui da tanto tempo, avendo avuto problemi alla gola di altra natura, legati alla tiroide, di matrice ereditaria, e alle corde vocali, ragion per cui in passato dovetti abbandonare il sogno dello studio del canto. Rientrati gli allarmi, da allora ho eletto san Biagio protettore della mia voce e della mia scrittura, ed è a lui che chiedo anche per quest’anno di intercedere perché io possa continuare a coltivarle in maniera dignitosa, gentile e produttiva.


    Ho scelto per questo breve articolo un dipinto emblematico di Ugo Celada da Virgilio, pittore inizialmente legato al movimento culturale Novecento e al circolo intellettuale di Margherita Sarfatti, di cui costituiva l’astro originalissimo e l’esponente di punta, applaudito da Parigi a Milano. Promotore del realismo magico, originario di Cerese di Virgilio, in provincia di Mantova (da cui il nome d’arte: all’anagrafe fu Ugo Celada), ritrattista di pregio ma anche paesaggista, venne isolato e dimenticato dopo il rifiuto di aderire al Fascismo. Da qui il tramonto e l’oblio della sua arte, il rifugio a Varese alla fine degli anni Cinquanta, la morte solitaria giunta nel centesimo anno di età.

    Il 26 gennaio scorso si sarebbe dovuto quantomeno ricordare il ventennale dalla scomparsa, ma dal momento che Varese è città smemorata per antonomasia, non ci si poteva aspettare certo che qualcuno si ricordasse… di averlo dimenticato a suo tempo. E così, di dimenticanza in dimenticanza, la città immemore prosegue impettita ad offrire sacrifici sull’altare dell’Ingratitudine, e a portare in trionfo sempre la stessa minestra riscaldata.
    Altro che panettone, caro Ugo.

    (in foto: Ugo Celada da Virgilio, 1895-1995, Dolci. Dipinto ad olio su supporto di masonite, venduto all’asta nell’aprile del 2001. Da notare il particolare delle rose bianche e rosse, i colori di Varese)

    Udo Celada Da Virgilio, Bambina che legge. Sempre in bianco e rosso, i colori che evidentemente aveva nel cuore.



  • Carlo Bossoli, pittore reporter e giramondo. Da Varese a Rancate e ritorno: un allestimento superbo

    di Laura Pantaleo Lucchetti, 24 – 25 gennaio 2025

    Carlo Bossoli, Il Lago di Varese, Castello di Masnago (1845-53 ca)

    Non è facile catturare sulla pagina l’intensa emozione che regala una mostra di raro pregio e originalità come quella allestita in suolo elvetico sulla vita e la produzione di Carlo Bossoli (Lugano 1815 – Torino 1884). Proprio per questo ne scrivo ad una settimana dal mio approdo a Rancate, in Ticino, nei luoghi dell’esposizione: e nonostante il tempo trascorso, la fascinazione non accenna a stemperarsi. Ci si arriva in mezz’oretta di macchina da Varese, città da dove sono partiti in prestito alcuni suoi lavori appartenenti alle collezioni del Castello di Masnago, museo di cui ho variamente scritto nei giorni scorsi: rimane esposta nella pinacoteca varesina una splendida veduta del lago nostrano, alla quale regalo il compito di fungere da preambolo e ponte del cuore e della narrazione.

    Rancate, perla bucolica di rara bellezza e conservazione, situata ai piedi del Monte San Giorgio, un tempo comune autonomo, da quindici anni è divenuta quartiere residenziale di Mendrisio. Nella sua porzione medievale perfettamente conservata, memore dell’antica appartenenza al Seprio, si incastona, specularmente alla chiesa parrocchiale dedicata a Santo Stefano, la pregevole sede della pinacoteca cantonale Giovanni Zust, dove Sergio Rebora e i suoi collaboratori hanno allestito una mostra che per quantità di contributi, di novità espositive e anche di ricerca biografica può dirsi la più completa su Bossoli di ogni tempo.

    E’ qui, dunque, che prende avvio il viaggio ideale nei luoghi rappresentati da un pittore di notevole caratura e produttività, acuto osservatore delle città e delle loro genti d’Europa e del mondo del secolo XIX nonché testimone oculare e reporter iconografico degli avvenimenti salienti della storia di quel tempo.

    Carlo Bossoli ritratto da Domenico Scattola (1845-50 ca.)
    Lugano e il suo lago, 1842, olio su tavola
    Veduta del lago di Lugano dal Monte San Giorgio, 1850-55 ca., olio su tavola

    Luganese di nascita, autodidatta e cosmopolita di formazione, Bossoli fu a cavallo della metà dell’Ottocento uno degli artisti più contesi dalle case regnanti europee, dai Savoia alla regina Vittoria: su loro commissione documentò fittamente seguendo gli eserciti, a suon di olii, tempere e litografie, gli episodi cruciali delle Guerre d’Indipendenza e della Guerra di Crimea (1853), affidando poi ad editori londinesi il compito di raccogliere i suoi lavori in albi riassuntivi. Della sua opera colpiscono e commuovono i dettagli, i particolari desiderosi ognuno di raccontare una propria storia legata alle vicende personali dei committenti o di personaggi di cui si sarebbe del tutto perduta la memoria se non fosse stata inserita nella minuta trama del pittore.

    Barricate in Piazza San Babila, 1848, tempera su carta applicata su tela. Collezione privata.
    particolare della tela summenzionata. Trattasi del duca Litta e del fratello Giulio?
    sempre dal quadro delle barricate milanesi, il particolare personaggio di una donna del popolo abbigliata secondo la moda dell’epoca: con la celeberrima sperada e la mantellina a tinte stampate, che torna immancabilmente in tutti i lavori milanesi del Bossoli.

    E’ del poeta il fin la meraviglia, scriveva il Marino, altro incallito giramondo di professione, benché spinto da ragioni diverse, ma altrettanto acuto osservatore e profeta dell’arte descrittiva e cronachistica due secoli prima di Bossoli. Di fronte a tanto fervore, tanto scrupolo di rappresentazione rimango estasiata, trasportata d’ufficio nella materia di quei dipinti, in mezzo alla moltitudine dei personaggi finemente cesellati che paiono vivere di vita propria, nel mezzo di battaglie e tramonti, piazze e processioni: poesie di paesaggi nostrani ed esotici – Bossoli viaggia instancabilmente per l’Italia e l’Europa tutta, in Medio Oriente, in Nord Africa, pur avendo fatto di Milano prima e Torino1 poi la sua residenza ufficiale – e di città catturati sulla tela come farebbe oggi il fotografo in uno scatto sapientemente studiato, o come cercherebbe di rendere il cronista a parole.

    Piazza Navona, Roma, 1848, gouache e gesso su carta applicata a tela
    particolare del dipinto di Piazza Navona summenzionato
    come sopra, con la firma di Bossoli
    Panorama di Messina negli anni ’40 del XIX secolo, prima del terremoto, tempera su tela
    Panorama di Napoli, 1843 circa

    Ma Bossoli è di un altro tempo, di un altro spazio: peregrina fra popoli quieti e bellicosi sempre con le medesime armi gentili del suo mestiere, la matita per gli schizzi e la carta per supportarli, esponendosi in prima persona agli eventi sempre e comunque, per poi concretizzare in un secondo momento, dagli appunti, l’opera definitiva attraverso la tavolozza della memoria.

    Interno di un bazar a Costantinopoli, 1847, tempera su carta
    Castelli in Renania, 1870 ca

    Il successo di Bossoli è pari alla sua maestria: eppure in nessuna città, in nessuna nazione riesce a farsi più di tanto domestico. Sin da bambino è abituato alla lontananza dalla natìa Lugano: giovanissimo, coi genitori approda ad Odessa, sul Mar Nero, nell’attuale Ucraina, dove riceve dai governatori locali avvezzi alle presenze artigiane ticinesi le prime prestigiose commissioni; tornato a Milano, si impegna a seguire gli avvenimenti delle Cinque Giornate del marzo ’48: è il suo primo ingaggio da reporter di guerra, cui ne seguiranno molti altri, fra cui moltissime committenze signorili che, quale vanto sociale, amano far ritrarre le loro magioni. Fra loro i Litta, famiglia di illustre e antica stirpe, che idealmente pongo quale punto d’approdo del mio resoconto: i ritratti dei Duchi Antonio Litta Visconti Arese, uno dei maggiori committenti del Bossoli, realizzato questa volta da Eliseo Sala, e del fratello minore Giulio, cui passò il titolo alla morte del primo nel novembre del 1866, presiedono l’ultima rassegna di vedute, legate alle ville nobiliari.

    Il Duca Antonio Litta Visconti Arese, condottiero delle Cinque Giornate, 1849, Eliseo Sala
    Il Duca Antonio, particolare.
    Veduta del giardino di Villa Litta a Lainate, 1852 circa, tempera su carta, prestito dei Musei Civici Varesini

    Post Scriptum. E’ anche questo mio, in fondo, un lavoro su commissione da parte di una voce cara, che due anni or sono mi ha cercata dalle remote polveri degli archivi varesini. Una voce, ça va sans dire, del tutto dimenticata, di quelle che giungono inattese, pungenti, irresistibili, sublimi.

    Ricongiungere il suo Antonio a quel lago tanto amato, a quelle sponde dolci, a quella città dove aveva consumato i suoi ultimi giorni felici prima dell’improvvisa e rapida malattia – Varese – , lo ammetto, era la mia prima missione di questa visita, per Lei. Di tanto in tanto ricevo l’inattesa gioia di aggiungere un prezioso tassello ai minuzzoli di una storia che sto faticosamente raccogliendo, e questo rende giustizia alla giornalista che ho scelto di essere oggi, alla scrittrice – spero – della sua storia, domani.

    Ginevra, 1851, Il tirasegno federale.
    1. Dal 1850 Bossoli visse a Milano e dal ’53 a Torino congiungendo a sé la sorella Giovanna e il nipote Francesco Edoardo, suo allievo ed erede nella vita e nell’arte. Di Francesco Edoardo, che fu vedutista specializzato nella tematica di montagna, a Rancate sono esposti diversi lavori. ↩︎

    PINACOTECA CANTONALE GIOVANNI ZUST – RANCATE (MENDRISIO); CANTONE TICINO, SVIZZERA

    decs-pinacoteca.zuest@ti.ch; http://www.ti.ch/zuest; tel. +41 (0)91 816 47 91

    CARLO BOSSOLI – PITTORE GIRAMONDO TRA LE CORTI REALI E IL MAGICO ORIENTE

    20 OTTOBRE 2024/ 23 FEBBRAIO 2025

    DA MARTEDI’ A VENERDI’ 9-12/14-17; SABATO E DOMENICA 10-12/ 14-18

    CON IL SOSTEGNO DI FONDAZIONE LUCCHINI LUGANO

    ingresso 10 euro/CHF 10; ridotto 8 euro/CHF 8

  • Voci femminili al castello di Masnago

    Tamar, di Francesco Hayez

    Oggi, complici la caduta di ieri mattina e il Blue Monday, mi sento tanto come la mia amica Accidia della Sala dei Vizi e delle Virtù al Castello di Masnago, e quindi devo cercar di reagire scrivendo qualcosa di buono. Ma prima di tutto vorrei ringraziare i miei Lettori e le mie Lettrici, perché con grande piacere le statistiche degli ultimi giorni parlano chiaro: con le mie sole forze, senza appoggiarmi ad alcun editore, ho la mia cinquantina di visualizzazioni giornaliere di media, che per un blog di nicchia come il mio sono semplicemente fantastiche, insperate direi.

    L’Accidia, Sala dei Vizi e delle Virtù, Castello di Masnago

    Ci tengo a fare un ragionamento con voi. Non so francamente se ambire a potenziare la diffusione della Voce o preferire lo status quo: quello che mi interessa è continuare a raggiungere le corde di chi prova piacere a leggermi, e so di essere impegnativa e non per tutti. Sapete cosa scriveva Boccaccio sempre nella Conclusione dell’autore del Decameròn, vero? Più o meno così: care Signore che mi accusate di prolissità e di esser pesante, sappiate che io scrivo per chi ha tempo e voglia di leggermi, e se non avete tempo né voglia pazienza, leggere deve essere una compagnia per chi decide di impiegare il suo tempo leggendo, mentre se ha già qualcos’altro da fare, non si sforzi: il mio lavoro non fa per lui.

    Ma veniamo all’argomento del giorno. Il Castello di Masnago, come vi avevo già raccontato alcun tempo fa1, si presta particolarmente ad un itinerario muliebre. In questi giorni l’attenzione è monopolizzata dalla stupenda ricollocazione del pezzo forte dei Musei Civici, la Tamar di Francesco Hayez, di cui hanno lungamente ragionato tutti i media locali: lo avrei fatto anch’io a suo tempo, ma nessuno aveva pensato di invitarmi alla conferenza stampa o alla presentazione ufficiale e così ho ritenuto di lasciar scrivere giustamente chi era maggiormente informato. Ieri mattina finalmente l’ho potuta ammirare: è veramente un dipinto meraviglioso, esposto in maniera perfetta in una sala espressamente dedicata, argomentato nella sua genesi in maniera puntuale da un meticoloso lavoro documentario esposto dalla curatrice Serena Contini.

    Non mi dilungo oltre sul tema. L’avvio delle voci femminili del castello origina da Maria Lampugnani2, proprietaria del maniero nel XV secolo, lei medesima cantrice e probabilmente trovatrice3, così come la vediamo raffigurata nella celeberrima Sala degli Svaghi.

    Portate i vostri figlioli al Castello: non solo perché il Parco Mantegazza che lo circonda è bellissimo, pieno di alberi secolari e addirittura monumentali, ma anche perché questi spazi raccontano la storia di tanti bambini e bambine. Salite in Pinacoteca e troverete una sala quasi pressoché dedicata, dove la Bambina coi Fiori di Giacomo Balla (Torino, 1871 – Roma, 1958) è in gentile colloquio con numerosi altri ritratti infantili. Come vi avevo preannunciato in un altro articolo4, la fanciullina vestita di cielo, identificata con Luce, la figlia del fondatore del movimento futurista in pittura, nel sessantesimo anno dalla sua acquisizione da parte dei Musei Varesini (fu donato da Amelia Bolchini nel 1965), a metà marzo diventerà la testimonial della primavera di Varese alla FONDAZIONE MAGNANI-ROCCA di Mamiano di Traversetolo (Parma) per tutta la durata della mostra “Fiori e giardini nell’arte italiana del Novecento”.5

    Bambina coi fiori, circa 1902, olio su tela

    Inutile dire che il mio spirito fanciullesco si identifica un po’ con tutte le bambine della sala, in diverse curiosamente sfoggianti una capigliatura ramata. Ad esempio, mi rivedo nel dipinto del celeberrimo pittore scapigliato Tranquillo Cremona (1837-1878), dove due fanciulli colgono violette bianche. La bambina paffutella con lo scialle rosso… potrei davvero esser io!

    Tra i fiori – 1871, Tranquillo Cremona, olio su tela

    E che dire del ritratto di Margherita Villa bambina dell’intrese Daniele Ranzoni (1843-89)? Risale al 1872/73, ma ci sembra quasi che stia per uscire dalla cornice per farsi una corsetta nel bosco mano nella mano con Luce.

    Non voglio tediarvi troppo né spoilerarvi tutta la rassegna. Aggiungo per oggi solo un paio di volti femminili che ancora ci parlano dal tempo, e con il quale mi piace sovente tornare in colloquio (è uno dei pochi lussi che mi concede il mio tesserino di giornalista, l’ingresso gratuito nei musei, ed è per questo che volentieri metto a disposizione le mie visite al gentile e paziente Lettore). Il primo è l’enigmatica Signorina F di Ada Shalk (1883-1957) sembra guardare oltre il velo di tristezza che la costringe nei cupi tratti dipinti: cosa staranno cercando ancora quei grandi occhi malinconici? cosa significherà quel nero della veste? La sua pittrice6 venne definita da Mario Bertolone “una delle più sensibili artiste di Varese”: eppure, dopo la sua morte, poco si è saputo e divulgato di lei. Quel poco che sappiamo nella Varese che aveva eletto sua dimora sin dagli esordi del XX secolo (abitava in via Bernascone, come ci testimoniano alcuni annuari) è contenuto in questo ritratto e in quello esposto accanto, che raffigura forse la medesima persona, fattasi donna, vestita d’azzurro. Sono entrambi doni di Rinaldo Corti, entrambi attribuiti nella targa presente a Masnago al ventennio 1920-40, senza maggior precisione. Arrivano alle Collezioni museali varesine nel 1960, tre anni dopo la morte di Ada. Il volto della signorina F pare ricorra spesso nei suoi dipinti: mi piace pensare che possa essere un autoritratto.

    Ritratto in nero o signorina F, Ada Shalk, olio su tela, 1920-1940

    Mi congedo con un volto delicatissimo di Lettrice, ritratta da Eleuterio Pagliano – l’autore del famosissimo Sbarco dei Cacciatori delle Alpi a Sesto Calende conservato a Villa Mirabello, protagonista in armi dei fatti risorgimentali egli stesso, e ancor prima delle Cinque Giornate di Milano – assorta nell’atto di consultare un libro di preghiere, e specularmente con la splendida pala dell’Immacolata Concezione del pittore ligure David Beghé al piano superiore dei Tesori Ritrovati, una superba collezione restaurata ed assemblata grazie ai finanziamenti di Fondazione Cariplo.
    Spero che questo percorso d’anima tutto al femminile, dall’Accidia al Canto alla Preghiera consolatrice sia stato di vostro gradimento.

    Il libro di preghiere, 1857/58 – Eleuterio Pagliano (1826-1903)
    David Beghé, Immacolata Concezione, Collegio Rotondi, Gorla Minore, seconda metà sec. XIX.

    1. Vedi l’articolo Maria, marchesa di Masnago: una nobildonna colta d’altri tempi ci apre il suo castello. – La Voce di Varese ↩︎
    2. Vedi nota 1. ↩︎
    3. Poetessa compositrice e performer delle proprie composizioni. ↩︎
    4. Vedi l’articolo A Santa Lucia la piccola “Luce di Masnago” diventa “testimonial” di Varese – La Voce di Varese ↩︎
    5. La mostra durerà dal 15 marzo al 29 giugno 2025, salvo proroghe ↩︎
    6. Ada Van Der Shalk (31 dicembre 1883/23 agosto 1957), nata a Milano, era la figlia del console olandese. Formatasi all’Accademia di Belle Arti di Monaco, successivamente in Francia e Olanda, visse e operò a lungo a Varese nella prima metà del secolo scorso in via Bernascone al civico 3 e fu scelta da Margherita Sarfatti per l’esposizione “Novecento” del 1926 alla Permanente di Milano. ↩︎

  • Un segno di Renato Guttuso… e che segno!

    Ha chiuso oggi, 19 gennaio 2025, l’allestimento “Virtuose relazioni” curato da Serena Contini nelle sale al piano inferiore del Castello di Masnago: un percorso intorno al colloquio prezioso fra tre protagonisti del Novecento pittorico che hanno impregnato di sé un’importante stagione culturale varesino: Enrico Baj (1924-2003), Vittorio Tavernari (1919-1987) e Renato Guttuso (1911-1987), il “fratello maggiore” del trio.

    Natura morta, barattoli. Olio su tela. 1966

    Avevo già visitato la mostra in ottobre, e già allora l’avevo trovata interessante, sotto alcuni aspetti decisamente curiosa dal momento che l’arte moderna mi è meno familiare di quella classica. Senza nulla togliere agli altri autori, ho preferito di gran lunga le opere di Guttuso, che conoscevo dal precedente allestimento precovidiano di Villa Mirabello. (Se devo essere sincera fino in fondo, il mio Tavernari prediletto rimane il Totem, ma non quello ligneo che si trova all’ingresso del museo di Masnago: il suo gemello bronzeo di via Albuzzi, del quale già avevo scritto su questi lidi nel giugno del ’22 1).

    Enrico Baj – Hervé di Rosa, Il tesoro del Titanic, 1994, acrilico su tela e struttura metallica


    Questa mattina, però, ho avvertito il desiderio di tornare a salutare Guttuso. Intendiamoci: non siamo mai andati troppo d’accordo, benché abbia sentito parlare sin da bambina quando in casa giravano pittori e cataloghi d’arte, essendo mia madre pittrice e figlia a sua volta di un pittore. Di lui particolarmente non mi è mai piaciuta la trasposizione della Fuga in Egitto alla terza cappella, forse perché la storia del Nuvolone cancellato tout court, per me che ho un animo sostanzialmente filologico, mi rattrista; ma deve aver pesato anche, e fortemente, sul giudizio personale il fatto di aver scoperto che mio nonno, restauratore di Madonne in quel di Pagazzano nel Trevigliese, era stato a bottega da quel Poloni che per primo mise mano all’affresco un centinaio d’anni fa.

    In ogni caso, non sono il tipo da giudicare un artista per una sola sua opera, o impresa che dir si voglia. Negli anni recenti, ammetto di aver avuto in un ritorno di fiamma una sorta di attrazione fatale per Guttuso, che – se lo ricordano in pochi – fra parentesi era stato chiamato anche ad istoriare una Commedia. E così, per passare alla pars construens del racconto, questa mattina volevo rivedere l’ultima volta le opere che più mi avevano emozionato, in primis la Natura Morta con barattoli del Sessantasei, una sorta di biglietto da visita del pittore di origine siciliana che visse a lungo a Velate (dove è sepolta per inciso nel mausoleo di famiglia la moglie Mimise, a poca distanza dalla scrittrice Liala e dalla mia nonna materna).
    Ben lungi dall’essere una natura morta qualsiasi, la tela raffigura una sorta di allegorica scatola degli attrezzi: Guttuso ci fa insomma entrare nella sua officina personale, fatta di lavoro pesante, di caffè, di colori, di acqua, olii e trementina.
    Non manca una bottiglia di vino: ci mancherebbe altro, da un gaudente come lui.

    Come non soffermarsi poi ancora una volta di fronte al Gineceo? Ho sempre amato quest’opera straordinaria, provocante, trasgressiva, boccaccesca, in cui i colori accesi fanno da contrasto ai volti estenuati, quasi inespressivi delle donne raffigurate. Non credo alla comune, e un po’ bigotta, idea di un Guttuso che volesse rappresentare la donna oggetto tout court in una scena di promiscuità erotica. Suggerita dalla frutta sul tavolino in primo piano, torna nel capolavoro guttusiano l’idea di natura morta alla maniera del dipinto poco più sopra citato, come se la donna facesse parte di diritto della sua personale officina, come se avesse voluto affastellare in un’opera la quintessenza dell’elemento muliebre, che per l’auctor rappresenta la gioia, il sesso, la bellezza nella disarmonia di corpi dalla bellezza quotidiana ma non scontata. Al freddo delle calze e delle vesti delle due figure predominanti si contrappone il calore che scende dalle figure in alto, in cui spicca per ben tre volte la sua musa Marta Marzotto, replicata in bianco più sotto: il nero ventilatore posto accanto alle frutte pare voler raffreddare i vari strati della scena, senza del tutto riuscirci, e di fatto è quanto di più letterario Guttuso potesse introdurre, sotto forma simbolica, in un suo lavoro: la donna allegoricamente rappresentata in tutte le sue dimensioni, dalla più ingenuamente erotica a quella più consapevolmente sensuale, attraverso un filtro voyeuristico quasi sacralizzante, che la espone ai vari venti della passione, come una Alatiel boccacciana. Ebbene sì, caro Lettore: Tu giudichi Guttuso dalla sua tessera politica (innegabile l’avesse, ci mancherebbe), io dalla sua cultura, dal suo colloquio con i classici, con chi lo ha preceduto nella sua arte e nell’arte in generale. Non sto a farti la lezioncina, ma prova a leggere cosa scrive per difendersi Boccaccio dalle accuse di sconcezza2 nella Conclusione del Decameròn, e poi probabilmente mi darai ragione.

    Figura in piedi, 1985, Olio e Acrilico su cartone intelato

    Ma arriviamo a lei, a Marta, in colloquio con sé stessa o meglio le sue molteplici anime ritratte nel Gineceo, cui è posta accanto. Il ritratto della celeberrima nobildonna (di natali umili) e mecenate è disarmante: stupenda nella sua nudità sfrontata e serafica, di una serenità che la attualizza oltre il tempo: sono passati quarant’anni da quando posò l’ultima volta per il suo Renato, e ancora ci parla, ci racconta di quell’amore, anzi dell’amore. Di più: dell’eterno femminino. Da quest’opera non mi separerei davvero mai.

    Concludo il percorso con il Chiaro di luna del 1986, dove ritorna il motivo della donna inespressiva: ma il foglio che la figura superiore sta leggendo alla compagna racchiude un colloquio muliebre che al pittore è evidentemente sconosciuto. E’ il tema dell’ineffabilità dell’animo femminile interpretato mirabilmente dal Maestro di Bagheria nell’ultimo scorcio della sua intensa vita.

    Ma il segno preannunciato dal titolo, ti starai chiedendo, Lettore, dove sta?

    Non so se è il caso di dirtelo, ma probabilmente devo. Allora, devi sapere che l’allestimento è contiguo alla Sala dei Vizi e delle Virtù, nella quale sono passata a salutare la mia cara Amica Maria Lampugnani nelle vesti dell’Accidia. Bene, uscita dalla sala, ripercorrendo quelle di Guttuso per salire in Pinacoteca, improvvisamente mi trovo per terra lunga e distesa come un salame, dopo aver inciampato in un gradino: mi salva essermi girata prima dell’atterraggio sulla, eh, chiappa destra, attutendo decisamente il colpo.
    Mio marito, che è con me, mi aiuta a rialzarmi e sorride sotto i baffi. “Sai – mi dice ammiccante – ho fatto i conti: la Marzotto in quel ritratto aveva la tua età”.

    Tornata a casa e ripensando al fatto, ancora un poco dolorante, mi pare che il segno di Guttuso sia stato abbastanza inequivocabile.
    Morale della favola: a cinquantaquattro anni, lungi dall’esser sul viale del tramonto (si sa che ad una certa le donne entrano un po’ in crisi…), non solo posso finalmente permettermi di chiacchierare con la sua opera, ma addirittura di essere ammessa nel suo ideale gineceo. In buona sostanza, con una bella pacca sul sedere, e una sonora risata, la scrivente e Guttuso hanno fatto definitivamente pace, anzi di più: sodalizio intellettuale.

    (Post scriptum. Avrò fatto arricciare il pelo a qualche spigolistra donna, ma, come dire: io può).

    (la storia prosegue).

    Castello di Masnago, Varese.
    Per info: http://www.museivarese.it

    1. Per la storia dei due Totem, vedi la pagina ufficiale Rinasce il Totem di Tavernari – Musei Civici di Varese ↩︎
    2. “troppa licenzia usata”, nel Decameron ↩︎