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Auguri, Anna Maria!

A Varese si tende talvolta a dimenticare persone che hanno voluto un gran bene a questa città un po’ ingrata, facendo loro gran torto.
Forse solo gli amici della Varese Nascosta ultimamente hanno ricordato spesso la penna appassionata di Anna Maria Gandini, che, nonostante avesse fatto carriera ben oltre la Città Giardino, scrivendo per il Corriere e prestando la propria voce al Gazzettino Padano, era sempre rimasta legatissima alla città dove era nata nel 1931, proprio il 17 di gennaio, nel giorno della festa più bella: Sant’Antonio.
Sua abitudine interrotta unicamente dagli anni della malattia e del ricovero, gli ultimi di una vita intensa (e puntellata di sacrifici per crescere da sola l’unico figlio, giornalista come lei e come il nonno, mi raccontava il mio amico caro Maniglio Botti) era, il giorno di Sant’Antonio, accendere una candela votiva nella chiesa dedicata alla Motta. “Sono nata proprio quel giorno. Più varesina di così!” appuntava orgogliosamente in un articolo del 1996, raccolto nel bel libro di memorie “La mia Varese”, edito da Nicolini. Anna Maria umilmente definiva altri esperti di tradizioni locali, ma questo suo lavoro, è davvero una “preziosissima opera, così efficace contro l’oblio della Varese che sfugge”, come ebbe a commentare il curatore Alfredo Ambrosetti.
Anna Maria, la prima vera maestra varesina della cronaca della memoria, assegnatale d’ufficio nel 1992 in una rubrica dal quotidiano locale dove aveva militato decenni, la cronaca l’aveva nel sangue e ci teneva a rimarcarlo: “Sono tanti anni che ascolto e vedo; per una vita ho raccolto notizie, dato notizie”. Così si apre “La mia Varese”, che rende giustizia in un libro magistrale di quest’atto generoso del raccogliere storie legate ai suoi luoghi cari ed alle genti. Lei, che era veramente una maestra di scrittura e non solo, diplomata al Manzoni quand’ancora sorgeva in via Sacco, proprio di fronte alla sua casa come amava ricordare, non si era mai montata la testa, non si considerava scrittrice nonostante la formidabile palestra scrittoria ed intellettuale alle spalle. Per nostra fortuna, invece, qualcuno pensò a convincerla del contrario; così, anche se in età, Anna Maria ci ha regalato alcuni libri preziosissimi, frutto dell’assemblaggio dei pezzi sparsi della sua anima fieramente bosina.
Uno di questi è proprio “La mia Varese”, corredato di molte deliziose miniature che aveva affidato al cugino Mario Alioli.(Dedicato alla mia amica carissima Rita Paolocci, che fu moglie di Mario Alioli, con la quale avrei dovuto andare a trovare Anna Maria il 17 di gennaio del 2020. Visita che preferimmo rimandare, perché ero reduce da una pesante influenza, e avevo timore di poter essere ancora infettiva, e pericolosa per la salute già provata di una persona anziana per giunta in casa di riposo: sappiamo tutti poi purtroppo come evolvette quel terribile 2020 di lì a poco, e il mio desiderio rimase incompiuto, giacché Anna Maria si sarebbe spenta il giorno di Santo Stefano del primo anno covidiano, né io ebbi più per le famigerate chiusure possibilità di conoscerla, e di portarle notizie da quella festa che tanto amava e a cui non poteva più presenziare. Avrei voluto dirle tante cose, raccoglierne tante di lei. Mi rimangono la dolcezza di sapere che le ero stata annunciata, e che avrebbe avuto piacere della mia visita, e un colloquio avviato nel cuore con un’anima affine cui mi appello, intimamente, spesso, nei momenti difficili ma anche in quelli gioiosi).


Una delle preziose incisioni contenute nel libro, realizzate da Mario Alioli: l’omaggio al Gruppo Folkloristico Bosino.
Post scriptum: oggi alla Motta ho acceso una candela anche per te. -
Maria la Mazzacana, una cantastorie varesina dimenticata degli anni del Risorgimento.

Le vacanze di Natale sono sempre per me un invito a a rifugiarmi negli ozi letterari, ragion per cui mi dimentico per molto tempo di riaprire il computer e di scrivere su una tastiera: ma non di farlo con carta e penna, giacché la mia vita è ancora parecchio legata alla scrittura a mano, per la stessa ragione per cui per me sono fonte di ispirazione e lavoro gli archivi.
E’ questo il motivo per cui vi presento in queste ore la storia di Maria della Motta, l’ultimo personaggio congedatosi dalla mia penna, e sa il Cielo quanto soffro ogni volta che li lascio partire per il proprio viaggio. Una vicenda per quanto ne so, inedita sino alla pubblicazione sul Calandari1, e che mi ha letteralmente consumato il cuore. L’ho scoperta per caso, cercando altro come sempre succede, fra i faldoni d’archivio di via XXV aprile un 15 di dicembre di alcuni anni or sono2, e l’ho inseguita nei suoi luoghi meticolosamente, dalla nascita in una cascina bobbiatese nel 1816, sino alla morte in manicomio al Mombello, registrata dall’ufficiale del Comune di Varese l’ultimo giorno dell’anno, in realtà avvenuta proprio una tarda mattina a mezzo dicembre. Proprio nella ricorrenza, che non avrebbe ricordato nessuno, di fatto, io l’avevo ritrovata.
Non credo al caso. Credo nei personaggi che chiamano lo scrittore, che lo scelgono per affinità, che ardono dal desiderio di ritrovare la propria voce perduta, soffocata nella damnatio memoriae, inghiottita dal tempo come se non fosse mai esistita. E sono onorata di essere cercata dai personaggi più umili, più dimenticati, più calpestati, sepolti sotto la cenere del tempo e dell’oblio: quelli che nessuno avrebbe desiderio di scrivere, forse, chissà.E’ così che, a cento e cinquant’anni di distanza dalla morte, anzi cinquantuno, ho voluto ridare voce alla povera, bella cantastorie che, per le strade di Varese e sul sagrato di sant’Antonio intonava canzonette giocose e irriverenti indirizzandole a personaggi locali, col volto dipinto dai carboncini per ricordare che era la Strega della Motta: lei che essendo donna, e senza un tetto sulla testa, fu inchiodata all’etichetta di matta, quando era al contrario una umile cantrice di piazza degli anni del Risorgimento, nata assieme alla città di Varese, e destinata a morire lontano, in incolpevole, silente esilio.
Per rendere giustizia a Maria, di cui non conserviamo nulla se non una croce in calce ad un visto di congedo carcerario, ho voluto regalare nell’anniversario bembiano, una voce italiana in endecasillabi.
Mi farà molto piacere se la ascolterete.
Calandari do ra Famiglia Bosina par or 2025. Settantesima edizione, quella della maturità.
Fra le molte storie splendide presenti di personaggi illustri, la mia potrebbe apparire stravagante, e dichiaratamente lo è.
Proprio per questo le auguro – immeritatamente per me che l’ho scritta, di cuore per lei che l’ha incarnata – la fortuna che merita e mai ha avuta.
Per concludere, i volti del Calandari. Non tutti, ovviamente, ma coloro che sono “cascati” gioiosamente nei miei giullareschi selfie. Grazie! E buon Sant’Antonio a tutti.
Da sinistra: Albertina Galli, Carlo Zanzi, Fausto Bonoldi, il regiù Broggini e la fiammante giullare che scrive. 
Con il mio amico carissimo, Roberto Canesi, a cui faccio gli auguri per sant’Antonio, data a lui molto cara (il giorno dell’apertura della libreria varesina nel 1964). 
Con le mie carissime Maria Talamoni (nipote dell’indimenticato poliedrico artista Giuseppe, fondatore della Famiglia Bosina, e Roberta Frattini, scrittrice della fortunata “saga” libraria della giornalista-libellula Libby) 
Con il mio amico fraterno Matteo Bollini, critico d’arte - Il Calandari do Ra Famiglia Bosina par or 2025, che ringrazio di cuore per aver accolto come da diversi anni a questa parte una mia storia, è stato ufficialmente presentato a dicembre in due occasioni: la cena sociale del 6 dicembre della Famiglia Bosina e il 15 dicembre, giorno di luna piena, incredibilmente proprio il giorno di Maria, all’ANCE di via Cavour. Diretto dal mio carissimo Carlo Zanzi, giornalista e romanziere, è disponibile alla libreria antiquaria Canesi di via Walder e alla Ubik della centralissima Piazza del Podestà, uno dei luoghi principali dove si snoda la storia di Maria. ↩︎
- Per la precisione era il 15 dicembre 2021. ↩︎
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“Lezioni singolari” pavesi nel ricordo di amici e colleghi, nel primo anniversario di Angelo Stella.

(Il logo dell’evento con il Sonetto della Garisenda di Dante, 1287, dai Memoriali Bolognesi)

La sede centrale dell’Università di Pavia in Strada Nuova.
Giovedì 5 dicembre, in una Pavia luminosa e gelida, si teneva il convegno in memoria di Angelo Stella ad un anno dal suo ingresso nella famiglia delle stelle celesti.
Ho aspettato a scriverne, perché in realtà ricorre oggi, 14 dicembre, l’anniversario. Naturalmente c’ero, non sarei potuta mancare, non sarei dovuta mancare, all’omaggio per il maestro dei miei maestri, siderale e umile ad un tempo, di quell’umiltà manzoniana che era stata il solco del suo cammino, umano e di studioso. Giusto e sacrosanto dedicargli un’intera giornata di studi nella magnifica Aula Foscolo dell’altrettanto magnifica Università pavese, dove sin dagli anni Settanta era stato docente di letteratura italiana, e dantesca, di storia della lingua, di dialettologia.

Il convegno ha veicolato un’immagine iconica del professor Stella, a Casa Manzoni, il centro nazionale di studi di cui fu a lungo presidente, davanti al busto di Don Lisander. Per L’Edizione Nazionale delle Opere di Alessandro Manzoni in particolare aveva curato i volumi degli scritti linguistici inediti.
Organizzata da Giovanni Battista Boccardo e Mirko Volpi col patrocinio della Fondazione Corti, di cui Stella fu promotore e anima (oltre che direttore del celeberrimo Centro Manoscritti ricevuto in eredità da Maria Corti), la rassegna di memorie legate al grande linguista originario di Travedona ha messo in luce l’appassionato magistero del discepolo della grande “cacciatrice di fantasmi” d’archivio e di poesia1.
Due figure cui sono particolarmente legata, su cui confluisce un filo di voci straordinario, la scuola linguistica e filologica milanese e lombarda che origina da Cattaneo, Biondelli, Ascoli. Proprio sulla figura di Graziadio Isaia Ascoli in occasione dei cento e cinquant’anni dell’Archivio Glottologico Italiano2, e in particolare sul delicato rapporto che ebbe con la politica e la cultura del tempo, in primis con Manzoni, si era tenuto un primissimo convegno a inizio luglio a Firenze, nella medicea sede dell’Accademia della Crusca, convegno appunto dedicato alla memoria del nostro eminente professore varesino.
Un professore operoso eppure riservato, timido, “Abscondito” come lo pseudonimo che si era scelto da accademico, che nella pala cruscante si immedesimava in una spiga di grano dietro alla quale aveva fatto rappresentare uno specchio d’acqua e le sue care montagne, eco letteraria dei suoi amati paesaggi manzoniani. Un professore che amava ricordare la prima sua tesi affidata ad una studentessa proveniente da studi di ragioneria, e quella compilata sempre sotto la sua guida da un collega della Provincia di Como, Sergio Gavallo, che da pensionato si era iscritto in università senza perdere una lezione per arrivare ad occuparsi del volgare comasco del ‘400, sigillando i suoi studi, chapeau, con il Nostro.
Angelo Stella, nella sua oltre che trentennale carriera di docente a Pavia – aveva esordito in università in sordina, in qualità di bibliotecario, nel ’64, per poi approdare all’incarico di docenza nel 1970, e congedarsi da professore ordinario al termine dell’a.a. 2006/2007 – aveva curato ben cento e cinquanta tesi, più una decina di dottorato, tutte spulciate con cura certosina da Silvia Isella, fra le presenza illustri al convegno, nonché altra grande testimone della scuola linguistica pavese (e, detto con una punta di orgoglio campanilistico che forse dovrei tenere a bada quantunque lo esprima di rado, varesina e figlia di Dante Isella, il cui nome si presenta da sé, che fu sodale di Stella in anni in cui – come amava sottolineare – la cultura a Varese un altro pianeta).
Silvia Isella e Giuseppe Antonelli, attuale presidente della Centro Manoscritti di Maria Corti.
Difficilmente riesco, ultimamente, a straniarmi dalla mia realtà quotidiana come quando sono immersa nel mio mondo letterario e poetico. Ebbene, Pavia è riuscita a regalarmi veramente ore spensierate e appassionate inseguendo le molteplici stelle di Angelo. Sono veramente tanti e disparati gli ambiti di ricerca del Professore d’acqua dolce, chiamato affettuosamente dai suoi amici Mister, ossia Magister all’inglese, per ricordare il sodalizio con il Gran Lombardo Gianni Brera e la passione per il pallone; a lui, così profondo e semplice ad un tempo, figlio dello stile humilis di Agostino (non a caso gloria pavese), erano consoni tutti gli argomenti legati alle piccole cose della quotidianità: a lui ad esempio va attribuito il merito di aver avviato un Archivio delle voci e delle memorie per un Museo dell’Oralità, fra cui campeggiano anche le testimonianze delle mondine; al filone comico realistico va ricondotta la sua fenomenale scoperta in due testimoni della Trivulziana del canzoniere del maudit Fabio Varese, l’apripista della letteratura lombarda, condotta negli anni Settanta. Ma non si debbono certo dimenticare gli studi sul Castiglione e in particolare sulla prima redazione perduta del Cortegiano e sull’epistolario dello scrittore e uomo d’arme mantovano di origini, e formatosi nella Milano del Moro; con “el” Professore possiamo finalmente dare un volto a quella lingua lombarda sovraregionale che lungamente si contese la palma di koiné ufficiale letteraria e diplomatica prima del diktat bembiano del 1525, che comunque non aveva fatto presa da subito a largo spettro, in particolare sulle scritture minori (ad esempio, la nostrana Cronaca del Tatto, benché posteriore di qualche decennio alle Prose della Volgar Lingua, non è certo scritta in italiano ma in questa koiné).

Non penso sia il caso di fare un report completo dell’evento. Certamente, voglio ricordare la passione di Angelo Stella per la linguistica in cucina (le sue “Povere cene di Lombardia” pubblicate per l’Università di Parma mi fecero innamorare di lui e della linguistica anni or sono, quando ero ancora una giovane apprendista redattrice gastronomica); l’amore per la pesca e il suo lago, testimoniati da una sua pubblicazione del tutto eccentrica sul coregone del lago di Monate di qualche lustro fa; l’interesse dichiarato – e dichiaratamente cristiano – per le voci degli emarginati, dei sofferenti, degli ultimi, a cominciare da quel Fermo Spolino il cui filo sarebbe approdato nel suo adorato Renzo Tramaglino, il personaggio in assoluto prediletto da Angelo. In questo, è stato ricordato, negli studi dialettali differiva dal collega e conterritoriale Isella: quest’ultimo dedito al Porta e al Parini, a personaggi e scritture più elitarie, lui invece a Delio Tessa e Fabio Varese, sulla cui strada immaginava, con l’immaginazione fervida formatasi nel segno visionario di Maria Corti, si fosse imbattuto il suo carissimo Renzo e – aggiungo e concludo io, sapendo che di Lassù ora finalmente ha sciolto l’enigma dei sonelli – forse anche il giovane Dante del sonetto della Garisenda.

La sede centrale dell’Università di Pavia in Strada Nuova, vista dopo la fine del convegno, che si è protratto ben oltre il tramonto.
Piccolo poscritto. Sono sicura che al Professore sarebbe piaciuta la mia piccola Maria Mazzacana, la cuntastori che ho ritrovato dalle carte d’archivio varesine e che domani, nel suo giorno, tornerà a rivivere con il Calandari do Ra Famiglia Bosina per or 2025. E ora mi perdonerete qualche scatto… autoreferenziale. Il giornalismo varesino, benché maudit, c’era 🙂



- I relatori della giornata sono stati, dopo i saluti di Giorgio Panizza, Presidente della Fondazione Maria Corti, nell’ordine Marzio Porro, Mirko Volpi, Umberto Morando, Roberto Vetrugno, Giuseppe Polimeni (assente per concomitanti impegni alla Fondazione Verga in Catania, il suo intervento riguardante uno studio giovanile di Stella sul Pascoli, pubblicato su Paragone di Roberto Longhi e Anna Banti, è stato letto da un collega), Silvia Isella, Sara Pacaccio, Pietro Gibellini e Fabio Pusterla. A presiedere le due sessioni, mattutina e pomeridiana, Maria Antonietta Grignani e Giuseppe Antonelli. ↩︎
- In realtà i 150 dell’AGI cadevano nel 2023. ↩︎

Durante il viaggio, uno scatto lacustre dal finestrino del passeggero.
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A Santa Lucia la piccola “Luce di Masnago” diventa “testimonial” di Varese
Qualche tempo fa vi avevo promesso che avrei proseguito con le voci femminili dal Castello di Masnago, voci inaugurate dalla sublime armonia di Maria Lampugnani. La quale, se ben vi ricordate, nel ciclo di affrreschi della Sala degli Svaghi si era fatta raffigurare non solamente al cembalo ma anche in un “vasel”, in una navicella con due altri personaggi femminili, e ad una di loro porgeva una rosa bianca e rossa. Se volete ritrovare quella storia e quella voce, per come io le ho interpretate nell’ideale colloquio che abbiamo avuto… potete leggerle qui.
Nel Castello di Masnago i fiori sono di casa, come giustamente dovrebbero essere a Varese, sia nelle sale, sia negli allestimenti, sia nel magnifico parco. E proprio oggi, vigilia di santa Lucia, arriva una notizia deliziosa da segnalare1, che riguarda proprio un dipinto floreale conservato a Masnago, e che in primavera andrà a testimoniare il verbo varesino dei fiori: si tratta della “Bambina coi Fiori”2, un olio su tela del celebre pittore futurista Giacomo Balla (Torino 1871-Roma 1958), che partirà a metà marzo e rimarrà alla FONDAZIONE MAGNANI-ROCCA di Mamiano di Traversetolo (Parma) per tutta la durata della mostra “Fiori e giardini nell’arte italiana del Novecento”, ossia dal 15 marzo al 29 giugno 2025, salvo proroghe3.
Si tratta di un dipinto di inizio Novecento, giunto ai Musei Civici dalla collezione Bolchini sessant’anni più tardi: per lungo tempo si era pensato che ritraesse la figlia di Balla, la piccola Luce. Recentemente, essendo stato il quadro attribuito per ragioni stilistiche al periodo romano, la critica tende a non ritenere opportuna l’identificazione con la piccina.
Io, che amo entrare in colloquio con i personaggi del passato, che affiorano da un documento, da una tela, dalla pagina di un libro, penso invece che il piccolo volto serio con i capelli ramati composti sotto il largo e vezzoso cappellino di paglia, e quel vestitino azzurro e le scarpette rosse fossero proprio di una bambina felice di donare al suo papà quel mazzo di fiori, dopo una bella passeggiata nel bosco.
Per me, come per l’immaginario collettivo degli affezionati alle sale masnaghesi e alle loro piccole storie, quella radiosa testolina non può essere che di Luce, che questa sera appunto si prepara a viaggiare in Italia con il suo bellissimo omaggio floreale da Varese, omonima della piccola Luce dell’anno del Giubileo.(Chiedo scusa al lettore per l’impaginazione sommaria delle note ma questa sera ho difficoltà con il server)

(Un bellissimo particolare all’interno delle sale del Castello, raffigurante lo stemma medesimo di Masnago).
Nota 1 – La notizia è stata pubblicata in albo pretorio oggi, 12 dicembre 2024.
Nota 2 – La concessione del prestito è stata firmata durante la delibera di giunta del 3 dicembre scorso, come si evince dal documento pubblicato all’albo pretorio.
Nota 3- Vedi l’esaustiva voce Bambina con fiori, Balla, Giacomo – Opere e oggetti d’arte – Lombardia Beni Culturali, da cui è tratta anche la foto del presente articolo.
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Buona, Santa Immacolata con Magatti e il Nuvolone.

Andando per città e musei l’iconografia dell’Immacolata Concezione – dogma proclamato de facto nel 1854 ma tema molto vivo nell’immaginario collettivo e nelle dispute teologiche da secoli – mi è particolarmente familiare. Devo ammettere però che alcune raffigurazioni mi sono più care, perché legate a Varese e personaggi della mia intimità, di penna o domestica (diciamo pure della mia particolare… famiglia numerosa e pure allargata).
La prima è il dipinto conservato a Villa Litta, già Menafoglio, oggi più nota come Villa Panza, a Biumo Superiore: è un’Immacolata dolcissima, lunare direi, nei toni freddi del tenebrismo tipici del suo autore, Pietr’Antonio Magatti (Varese, 1691- Varese 1767), al quale il soggetto doveva esser particolarmente nelle corde, dal momento che ne dipinse altre due sempre in Varese (purtroppo per noi perdute, a meno di sperare nel miracolo come è avvenuto per l’Ultima Cena ritrovata nell’antico refettorio) nel convento dell’Annunciata, un’altra per il convento delle benedettine di Santa Margherita, attualmente custodita nella chiesa di san Carlo a Gorla Maggiore1 e l’ultima, nel 1738, nel convento delle Colombine a Pavia2. Essendo attivo verso il 1725 il Magatti in san Giorgio a Biumo Superiore, potremmo riferire anche l’Immacolata biumensina a questo periodo, quindi festeggiare con lei in queste pagine i suoi primi tre secoli.3
Questo dipinto si lega in particolare ad una Duchessa che mi chiamò gentilmente ed inaspettatamente l’anno passato – proprio in occasione del bicentenario dalla sua nascita – dagli archivi varesini e che ogni mattina, al risveglio di una vita segnata da pesanti lutti e tanta solitudine, colloquiava dolcemente con questa Vergine, affidando le sue giornate a quel dolce sguardo. Di Alina Prior (1823-1901), moglie e presto vedova (nel 1866) di Antonio Litta, non sono ancora riuscita a trovare il volto: così mi piace pensarla rispecchiata in tutte le figure femminili dei dipinti che le appartennero. La immagino proprio così, castana, dagli occhi grandi e malinconici, giovanissima quando incontra il suo futuro sposo, forse nello studio di un pittore per cui posava nella natia Ginevra. Chissà.
Questa Immacolata si trovava in origine nella cappelletta votiva affiancata alla stanza da letto dei coniugi Litta. Quando il conte Panza rimaneggiò l’edificio, la cappelletta fu adibita a stanza da bagno padronale, e il ritratto della Vergine spostato in anticamera. Come si può notare, pur nel trasloco la Madonnina dal volto di fanciulla locale serba il suo fascino discreto ed è perfettamente intonata al nuovo ambiente che le rende omaggio, in situazione luminosa e serena.
Mi piace accostare questa prima raffigurazione dell’Immacolata (che mi è vicina non solo nel cuore ma anche spazialmente), in dialogo e contrasto singolari giacché la posa è la medesima, a quella sortita dalla mano radiosa di Carlo Francesco Nuvolone4 (1609-1662), appartenuta alla collezione del nobile milanese Camillo Tanzi, poi donata alle collezioni milanesi nel 1881. Si tratta dello stesso artista convocato a metà del XVII secolo ad affrescare la III e la V cappella del viale del Sacro Monte di Varese: con queste sembianze è probabile avesse dipinto la Vergine della Fuga in Egitto, poi recuperata dal Poloni, infine definitivamente oscurata da Guttuso. In questo caso la suggestione è personale, giacché la memoria del mio nonno paterno, pittore di Madonne discepolo del Poloni, nativo di Pagazzano nella bassa bergamasca, riposa (essendo lui disperso in Russia) al cimitero di Velate, sotto la carezza del suo Maestro e del volto di Madonna che lui per ultimo vide, e che ora possono mirare entrambi.

(Dedicato a mio padre).
- Vedi la voce Magatti, Pietro Antonio a firma Valerio Da Gai dal Dizionario Biografico della Treccani. ↩︎
- Oggi in Santa Maria delle Grazie o di Santa Teresa. ↩︎
- O forse pensarla legata al periodo della piena maturità, secondo uno studio di Silvano Colombo (1981) che riferisce al 1755 circa il medaglione affrescato sulla volta del salone d’onore della medesima villa, allora di proprietà della famiglia Menafoglio, che proprio in quegli anni ospitava il duca Francesco III, giunto a Varese in visita dall’amico per la prima volta. ↩︎
- Vedi la voce NUVOLONE, Carlo Francesco – Enciclopedia – Treccani di F. Frangi. ↩︎
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Buon sant’Ambrogio!

Lo splendido Sant’Ambrogio a protezione degli studenti dell’Insubria, collocato all’ingresso della sede rettorale di via Ravasi 2 a Bosto, oggi Varese ma – come mi insegna il mio caro magister Renzo Talamona, esperto di studi storici locali e in particolare di Ambrogio – per parecchio tempo realtà amministrativa a sé stante. Chissà se è veramente firmato dalla tavolozza di Carlo Cocquio come ricordo, il quale potrebbe aver omaggiato in un sol colpo il Santo e il suo maestro Ambrogio Alciati.
Non so quanti oggi a Varese ricordino questo dipinto, che se ne sta un po’ nascosto dagli sguardi dei più. Lo fa un’ambrosiana nata e formatasi a Milano, varesina d’adozione, ma non per questo meno varesina d’altri, nel cuore e nelle intenzioni, benché sovente mi trovi a pensare di non esser troppo gradita in patria, forse perché non possiedo tessere di partito, non frequento circoli né salotti o perché navigo decisamente fuori dagli schemi precostituiti. Pazienza, il mondo è grande, nonostante tutto.
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Luisetta Tola D’Oria e la devozione alla Madonna della medaglia miracolosa

Donna Luisetta Molina, per gentile concessione della signora Mariuccia Pigionatti.
Il giorno sedici di Aprile del 1936, in una Roma malinconica dove gli imponenti palazzi e le vestigia antiche si specchiavano nel manto acquoso di una giornata di intensa pioggia, eco delle loro molte lacrime d’entrambi avite versate nel tempo, si univano in matrimonio Luisetta Tola d’Oria, rampolla di antica stirpe sabauda, figlia del fu Gavino e di donna Angelica, e Luigi Molina, figlio del fu Paolo e della fu Alessina Rossi.
Non voglio dilungarmi sulle loro storie, che ho già raccontato sul Calandari do Ra Famiglia Bosina qualche anno fa; dirò solo che papà Gavino era morto presto, nel 1907, quando Luisetta aveva solo quattordici anni; mamma Angelica era mancata da sei anni; gli altri fratelli si erano accasati e per Luisetta, rimasta nella casa paterna ad accudirla con l’ultima sorella anch’essa nubile, Nina, non c’erano più doveri filiali da assolvere, se non appunto pensare a questa povera anima che sarebbe rimasta sola: ma sola non rimase, perché Luisetta la portò con sé a Varese. Anche Luigi, avvocato di brillanti studi pavesi e di trascorsi nel foro romano, non aveva più da accudire lo zio celibe Tito, che dopo il fallimento della banca di Varese del 1913 e la morte per il dispiacere del fratello Paolo, padre di Luigi, si era legato a lui in maniera viscerale.
Luisetta sarebbe stata la prima donna Molina in Varese dopo tanti anni, essendo mancata la suocera Alessina, torinese come lei, proprio in quel 1893 in cui era nata; Camilla Ballabio, sposa di Luigi Molina senior, era morta addirittura nel 1860 il giorno prima della proclamazione del Regno d’Italia.
Oggi mi preme ricordare che Luisetta, molto devota alla Madonna della Medaglia Miracolosa, aveva scelto di celebrare le nozze in Sant’Andrea delle Fratte, divenuto santuario mariano dopo l’apparizione della Madonna della Medaglia miracolosa nel 1842.

Foto della Madonna della Medaglia Miracolosa in Santa Maria delle Fratte. Sono di oggi 27 novembre 2024, tratte dalla pagina facebook del santuario, che seguo con affetto da anni.
Luisetta e Luigi non ebbero figli; però donna Molina si prodigò sempre peri poveri e in particolare i bambini meno fortunati e fu sotto la sua volontà che venne costruita sui suoi terreni ceduti al Comune di Varese, in via Brunico, la scuola Sacco, che avrebbe ufficialmente aperto agli scolari belfortesi sempre in un piovoso aprile, ma nel 1963.

La scuola elementare intitolata a Luigi Sacco, in via Brunico 57.
Alla nobile bontà di Luisetta e Luigi sono personalmente molto legata.
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Le due Caterine clarisse: Caterina Piccinelli e Lucrezia Borgia. Da Varese a Ferrara, due nobildonne in colloquio oltre il tempo.

Antefatto.
Ci sono giornate che, sarà il tempo, sarà che cadono di lunedì, sarà quel che sarà ma sono decisamente malinconiche. Per fortuna la malinconia dà anche occasione di scrivere qualcosa di bello, e scrivere e riflettere di bellezza riapre il cuore e lo proietta verso nuove mete. Guardandomi indietro di qualche mese, infatti, mi rivedo una domenica di primavera al Castello Sforzesco a festeggiare i primi suoi cento gloriosi anni della mia Università, la Statale di Milano: quel giorno, che cadeva esattamente il 19 maggio, avevo volentieri seguito la dotta dissertazione del professor Guglielmo Barucci sulla sala di Griselda riaperta da poco: Griselda, la novella sposa sottoposta alle prove più crudeli dal marchese Gualtieri, la donna innamorata maltrattata e umiliata, o – secondo la chiave di lettura che preferisco, quella che legge il Decamerone oltre le righe – la scrittura che subisce violenze e angherie, o anche la materia che si fa duttile nelle mani dello scrittore (e novella è sinonimo di notizia, non dimentichiamolo).
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LA BELLA STORIA DI OGGI: UN’AMICIZIA MULIEBRE IPOTETICA E AFFASCINANTE.
Terminato l’incontro mi ero spostata nelle varie sale della Pinacoteca per ammirarla, e mi ero prontamente imbattuta in un’opera nostrana, ceduta al Castello Sforzesco nel 1972: il celeberrimo Polittico di Francesco de’ Tatti, datato 1517 e proveniente dalla castellanza di Bosto (in sant’Imerio si può ammirarne tuttora una riproduzione).
Il polittico risulta così formato:nel registro superiore: Crocifissione, santi Caterina e Girolamo, Santi Francesco ed Antonio; nel registro inferiore: Madonna con il Bambino, santi Giovanni Battista e Michele, santi Cristoforo e Rocco; nella predella: sant’Imerio, la Flagellazione, san Pietro, l’Andata al Calvario, san Paolo, la Deposizione, sant’Antonino.

Su tutti, dal momento che conosco bene l’iconografia di Imerio (e ci ho anche lavorato), l’attenzione si era posata su santa Caterina, che risulta essere fra le più “interpretate” dalle nobildonne italiane del Rinascimento.

Era costume, infatti, da parte delle dame dell’epoca (e ne abbiamo parlato anche qui a proposito di Maria Lampugnani), farsi ritrarre non solamente nelle proprie vesti ma anche nei panni di questa o quella santa, di una esponente muliebre della mitologia, che fosse dea o musa o Grazia o Sibilla, oltre che naturalmente prestare il volto a Maria. Era uno status symbol dell’epoca collezionare interpretazioni e posare per i pittori più affermati: Lucrezia Borgia e Simonetta Vespucci erano un po’ le punte di diamante di questa prassi, a cui si affiancava la citazione della dama di turno in un’opera letteraria, o la dedica alla medesima.
Veniamo però alla santa Caterina del Tatti. Questa rappresentazione ha qualcosa di unico, o comunque raro: la figura ritratta non è bionda come da attribuzione consueta nell’iconografia classica della santa che subisce il martirio della ruota nell’anno 304 e in generale come ci si immagina la donna dal crin d’oro crespo prediletta dai poeti (non citiamo a caso il Bembo, ovviamente): questa enigmatica nobildonna varesina che posò per il pittore bostese era mora e, me lo si consenta, dalle fattezze straordinariamente moderne: quasi una Gioconda locale (si sa del resto che il Tatti fu profondamente influenzato dalla scuola di Leonardo).
In una delle recenti sessioni di studio negli archivi di via XXV aprile stavo consultando un numero della bella pubblicazione “Tracce” (esattamente il diciannovesimo quaderno, datato marzo 1998) ormai da anni purtroppo non più in stampa (usciva mensilmente per i tipi della Lativa) e mi sono imbattuta nello splendido saggio di Armanda Dallaj “Una vigna per il polittico di Bosto”. La studiosa traccia la storia rocambolesca del polittico, conservato fino al 1858 nell’odierna sant’Imerio (ai tempi ancora titolata a san Michele) e poi, acquisito da un rigattiere, passato in mano antiquaria sino a giungere (fortunatamente) alle Civiche Raccolte del Castello Sforzesco, dove effettivamente viene esposto nel 1975: nel 2025 saranno quindi i cinquant’anni dalla luce ritrovata per il polittico tutto, il sant’Imerio nelle fattezze che ci sono note e appunto per la nostra Caterina bostese.
Il meticoloso lavoro della Dallaj, condotto negli archivi milanesi, ha portato invece in luce la committenza, confermando l’ipotesi della famiglia Piccinelli, così da ritenere giustamente che i personaggi raffigurati fossero un omaggio riverente ai medesimi (i quali alla fine saldano il debito donando una vigna al pittore). Scrive Dallaj: “A quei tempi quando una comunità dotava la propria chiesa di dipinti importanti si premurava di definire con una certa precisione i soggetti da raffigurare”. I santi raffigurati – spiega la studiosa – godevano di ampia venerazione nel borgo “ma è interessante osservare che i nomi ricorrono puntualmente nell’onomastica dei nobili Piccinelli”, i signori locali di cui si ha testimonianza dei possedimenti in Bosto sino a tutto il XVIII secolo. La chiesa di san Michele (ribadiamo: l’odierna sant’Imerio) era il fulcro della religiosità bostese e quindi massimamente rappresentativa della casata dei Piccinelli: in particolare “Caterina era l’appellativo spirituale di una delle Piccinelli ricordata tra le Clarisse di Bosto in un documento del 1502”: in buona sostanza era pratica comune chiamare i bambini e le bambine con un nome che gli avrebbe garantito la protezione del santo corrispondente.
Abbiamo sciolto quindi, grazie ai preziosi studi di Armanda Dellaj che mi auguro vengano presto riscoperti, un enigma che ci stava particolarmente a cuore: la bellissima santa Caterina dai ricci scuri del Tatti altri non sarebbe che la giovane Caterina Piccinelli, ritratta probabilmente novizia, la quale andava a quel tempo in sposa al Signore. La famiglia Piccinelli dell’epoca, d’altra parte, conclude l’autrice, si era fatta ritrarre al completo sulle pareti del palazzo nobiliare in un dipinto oggi completamente consunto raffigurante lo sposalizio mistico di santa Caterina.

La santa Caterina conservata a Casa Romei, di ignoto artista ferrarese, tratta dalla soppressa chiesa di sant’Andrea in Ferrara. Gli attributi sono la palma e il libro, con a fianco la ruota dentata simbolo del martirio avvenuto ad Alessandria d’Egitto nel 304.
Nei medesimi anni la sua probabilmente coetanea Lucrezia Borgia andava in sposa al duca Alfonso I e si faceva ritrarre anch’ella nei panni di una bionda Caterina alla ruota, non una ma in diverse occasioni. Quella a me in assoluto più cara è associata sempre alle Clarisse, di cui Lucrezia si era fatta terziaria, e si trova attualmente esposta in Casa Romei a Ferrara, un tempo un unico complesso col vicino monastero del Corpus Domini dove si trovano le sepolture degli Este, su cui spesso mi trovo a pregare, e dove riposa anche Lucrezia.

E voi direte: c’è un filo conduttore in tutto ciò, che lega le due donne al di là del suggestivo accostamento di idee nato in queste povere pagine? Suggestione per suggestione, non manco di ravvisare anche un parallelismo nei colori degli abiti delle due sante, benché chiaramente le differenze siano molteplici, a partire dall’assenza del libro nelle mani della Caterina bostese e dalla posa, per entrambe eretta e dignitosa: ma – consentitemelo – se le accostassimo sembrerebbero quasi in dialogo fra di loro, rivolte l’una verso l’altra, in deliziosa muliebre confidenza.
Incredibilmente – mi direte – il filo conduttore potrebbe veramente esserci, perché entrambe avevano seguito – quantomeno è certo per Lucrezia, per Caterina lo si ipotizza ma è assai probabile – la predicazione del medico varesino Raffaele Griffi, divenuto francescano e trasferitosi alla corte estense nei primi anni del Cinquecento.Quanta bellezza in quest’amicizia femminile del tutto letteraria, del tutto arbitrariamente immaginata da chi scrive… eppure così consolatoria in una giornata dedicata da un lato alla santa della ruota, dall’altro alle donne vittime di violenza. La bellezza sola ci salverà.
Post scriptum.
Dovrei pensare di dedicare questo scritto ad una donna, certamente.
Invece lo dedico a mio marito, che è un uomo meraviglioso, e che mi ha donato la possibilità di vivere una vita dedicata alla cultura, ai viaggi e agli studi, oltre che alla nostra famiglia meravigliosa. -
Santa Cecilia e l’Apollo musico di Laura Dianti

Quando io prometto di continuare a raccontare nel tempo le opere che vado ammirando nei musei, non lo dico pour parler ma perché per me è più naturale soffermarmi su un singolo quadro o filone e soprattutto più corretto, al di là di un discorso generale che comunque va fatto, per rispettare la dignità e la portata degli allestimenti.
Fra i quadri presentati nel superbo allestimento in fieri ai Diamanti ve n’è uno che forse non è il più celebrato ma che mi sono ripromessa di raccontarvi proprio oggi, giorno di santa Cecilia, patrona della musica e dei musicisti.
Si tratta di un Apollo proveniente dalla Galleria Borghese di Roma e dipinto esattamente cinquecento anni or sono dal grande Giovanni Luteri detto Dosso.
Dovete sapere che questo quadro appartenne a Laura Dianti, la terza moglie del duca Alfonso I, che era già stato sposato in prime nozze con Anna Sforza e in seconde con Lucrezia Borgia. Alfonso I commissionò probabilmente il dipinto a Dosso e ne fece dono nuziale alla Dianti, che era di modesti natali, essendo figlia di un cappellaio, ma che era una fine cultrice delle arti. Il duca artigliere, dal canto suo, non impugnava solamente armi da fuoco ma era anche un abile suonatore di lira da braccio, e si pensa che abbia voluto idealmente pensarsi in quell’Apollo che con la sua musica seduce Dafne, raffigurata a sinistra per chi osserva, mentre come dal mito ovidiano per sfuggirgli si trasforma in alloro (lauro).
Alla corte di Alfonso, grande mecenate, gravitavano non solo pittori, ma anche letterati come l’Ariosto e il Bembo, e anche musicisti.
Fu proprio Pietro Bembo, coinvolto al tempo da un innamoramento platonico nei confronti di Lucrezia Borgia, a presentare ad Alfonso Josquin Desprez e a portarlo a Ferrara. L’autore degli Asolani e dell’opera capitale fondativa della lingua italiana, le Prose della Volgar lingua, di cui celebreremo nel ’25 il mezzo millennio di pattuita esistenza, era infatti un convinto promotore della sorellanza delle due arti, musica e letteratura, che di fatto hanno un’unica genesi e a questo connubio la simbologia apollinea fortemente allude.
Quando andrete a visitare la mostra vi immergerete in un’esperienza di arte totale, venendo letteralmente travolti dal capolavoro dossiano e dalle armonie di Josquin che risuoneranno negli allestimenti.
(nella foto in alto: particolare dell’opera, in cui Dafne/Laura subisce la metamorfosi dell’alloro).
Poscritto. A me, madre di musicisti, nonché cultrice del profondo legame fra musica e poesia, piace pensare che una Laura abbia rifondato la dinastia estense portandola sino a Varese con Francesco III. Oggi è anche il genetliaco di Alfonso II, che non ebbe discendenza diretta e pertanto consegnò Ferrara alla devoluzione papale. Il ramo estense che sopravvive nel ducato di Modena, si coniuga alla casata asburgica ed è tuttora fecondo nella famiglia regnante del Belgio genera proprio da Laura e Alfonso I.
Non mi resta che augurarvi buona Santa Cecilia e, se vi fa piacere, rimandarvi anche a queste due letture a tema musicale che rispolvero per l’occasione.
Maria, marchesa di Masnago: una nobildonna colta d’altri tempi ci apre il suo castello. – Cronache giullaresche (ex Voce di Varese)
Francesca Lombardi è Angelica a Seoul – Cronache giullaresche (ex Voce di Varese) -
Cara Beatrice…
Nel settembre del 2021, in pieno covid e tamponata a dovere in sfida all’odioso regime del green pass, ebbi il piacere di approdare a Modena per studiare alcune carte del Duca Francesco III d’Este. Non sapevo ancora che mi avrebbe aspettata ed accudita con la consueta dolcezza che già conoscevo, ma solo sui documenti, Maria Beatrice Ricciarda, ossia la nipote prediletta del Principe di Varese, divenuta arciduchessa attraverso il matrimonio con Ferdinando, figlio di Maria Teresa d’Austria. Di lei oggi, 14 novembre, ricorre l’anniversario dell’augusta dipartita (1850-1829).
La mia cara Beatrice, come la chiamo io affettuosamente, era ritratta infatti proprio al di sopra della postazione di studio che mi era stata assegnata, in omaggio al fatto che venivo sin da Varese a lavorare.
Beatrice, sappi che ti voglio bene.

