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Ileana e i suoi muralisti

Oggi pomeriggio, mentre da buona e scioperata flaneuse mi concedevo due passi in centro a Varese dopo almeno un mese d’assenza per varie ragioni (ho un rapporto complicato con la mia città, questo si sarà capito sin troppo…), passando per via Como mi sono imbattuta in qualcosa di molto luminoso, che mi ha portata indietro di anni: esattamente nel 2016, quando assieme ad una scuola di quartiere (la Salvemini) orchestravo i murales nel Parchetto del Cagnolino in quel di Belforte.
Il flashback mi serve giusto per complimentarmi sinceramente con l’ennesima, bella iniziativa di Ileana Moretti, presidentessa di WG Art (Writing e Graffiti Art), che ha al suo attivo molte operazioni di questo tipo disseminate in tutta Varese e provincia. Lei le chiama professionalmente workshop, mentre io da narratrice preferisco definirle laboratori a cielo aperto; in ogni caso so cosa significa mettere l’anima in un progetto di recupero artistico di luoghi degradati, coinvolgendo i giovani in questo genere particolarissimo di narrazione.

Commuove vedere all’opera tanti ragazzi che, sfidando il caldo afoso delle idi di giugno, sanno regalare ancora colore e poesia al cemento. Mi diceva Ileana di essere stata anche la mente dei dipinti murali all’interno della poco distante Sala Studio Forzinetti: è, quindi, un discorso in fieri, un progetto mirato a rinfrescare il volto di una città spesso spenta, grigia, immusonita. Mi ha detto tante altre cose, spiegandomi ad esempio di quale bando sia vincitore il progetto, che è patrocinato dal Comune, ma siccome oggi non giravo come è mio solito fare ormai altrove con taccuino e matita, purtroppo la mia mente, che spesso divaga per i fatti suoi, non le ha registrate. Spero però di render giustizia al loro impegno, perché se lo meritano sia lei, sia i molti ragazzi che per tutta l’estate lavoreranno ad abbellire Varese con le loro storie floreali e non, ma anche e soprattutto il fantasioso progettista Sea Creative, i cui lavori sono noti anche fuori Varese, per esempio a Milano (in Foro Bonaparte li ho visti personalmente).
Post scriptum: oggi Varese per me era tornata davvero una città da assaporare lentamente camminando. Quanto l’ho camminata, scrivendo di lei. Quando non ho più potuto scriverne, mi si sono bloccate la voce e anche le gambe, e così ho deciso di camminare in una maniera alternativa, attraverso la letteratura.
Ora che forse sono guarita, o forse ho accettato il mio male oscuro, a volte ripenso a quante suole ho consumato per Varese, e mi chiedo se chi pretende di lavorare per il bene di una città, che sia scrivendo o facendo politica, possa davvero evitare di fare altrettanto.
Io non credo.
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Centuria di Manganelli: un libro visionario, decameroniano.

In questi giorni sono un po’ triste perché la mia gattina Isotta è molto malata. Essendo già di mio molto poco incline ad uscire di casa nei periodi malinconici, che cadono in particolare per me in primavera ed in autunno, sto divorando libri standole accanto, ancor più di quanto io legga già molto nei periodi normali.
Oggi in particolare ho iniziato la lettura di “Centuria” di Giorgio Manganelli (15 novembre 1922 – 28 maggio 1990), un autore di cui ho sentito parlare negli ambienti accademici e un po’ elitari, forse perché davvero si tratta di autore particolarmente impegnativo, non per tutti insomma. Quando una sera alla fine dello scorso marzo ero entrata nella libreria antiquaria di Federico in via del Saraceno a Ferrara, di ritorno dal mio caro appuntamento mensile con Schifanoia per propiziarmi il mese entrante, un po’ triste perché il Sognalibro della mia amica Serenella a pochi passi nel quartiere ebraico aveva chiuso ormai da un anno, ero rimasta folgorata veramente da questo titolo e da questa edizione pregiata, la prima nella BUR dopo la vittoria al Viareggio: e me l’ero aggiudicata assieme ad un commento critico degli anni Sessanta su Boldini di cui forse vi parlerò.Non sapevo, allora, che quest’anno sarebbero stati i trentacinque dalla scomparsa dell’Autore. Cadono per l’appunto oggi: così, complice Isotta, mi sono messa a leggerlo. E siccome sono reduce da un convegno sui 650 anni dalla morte di un altro grande, anzi del più grande in assoluto a mio parere, vale a dire il Boccaccio, ho immediatamente collegato i due lavori.
Di questo visionario e stralunato capolavoro ho divorato i primi cinque microromanzi.
Ma cos’è un piccolo romanzo fiume, se non una novella assai breve? Mi piace pensarlo giacché una traccia di interpretazione ce la fornisce lo stesso Autore in premessa: “Libriccino sterminato, insomma; a leggere il quale il lettore dovrà porre in opera le astuzie che già conosce, e forse altre apprenderne”. In ogni piccola storia si rimane letteralmente impaniati, come catapultati nelle stravaganti situazioni narrate, e ci si dibatte come una muta naufraga Alatiel fra le braccia dei suoi ripetuti rapitori, acquistando man mano la propria consapevolezza di lettore/auctor, che non è affatto scontata avvicinandosi alle prime pagine di un’opera così strana, moderna e antica ad un tempo, certamente rifondatrice di un genere straordinario come quello novellistico.
La mia dolce Isotta, 14 anni, che porta questo nome gentile come la protagonista dell’Isotteo dannunziano: altra opera stupenda espressamente ispirata non solo al Boccaccio della ballata antica ma anche alla poesia fiorentina del Quattrocento.
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Buon compleanno, Maestro Parino!

Giuseppe Parini (1729/1799) ritratto nel 1753, nel fiore della gioventù, a 24 anni, ossia l’anno prima di farsi prete (per costrizione).
E’ risaputo il sacro culto che ho del Sommo Maestro Parini, avendolo intervistato (e nemmeno troppo fittiziamente) per qualche giornale in tempi passati… e non solo: avendolo inseguito in tempi proibitissimi – leggi covidiani – nei luoghi della sepoltura milanese che non più esiste, ove sorse il cimitero della Mojazza, oggi rimpiazzato da piazzale Famagosta, ma con la copia della lapide a ricordo all’interno di una proprietà privata.

in pseudo libera uscita a giugno 2020: si nota dallo sguardo allucinato… In tempi decisamente migliori, in Brera, davanti alla vera lapide, traslata dopo la chiusura della Mojazza…

… e al monumento sempre sulla scalinata braidense speculare a quello del Beccaria.

Ma ecco la mia “compilation” di studi pariniani, dove non potevano certamente mancare il Giorno (1969) e le Odi (1975) per la curatela del suo più insigne studioso, il varesino Dante Isella (altro mio faro personale, tant’è vero che cerco di parlargli persino rispolverando le carte dei consigli comunali di sessant’anni or sono. Cfr Votiamo!, aprile 2025).

A me il Parini piace tutto, come si suol dire dalla testa ai piedi, che poverino si trascinava un po’ per via di un incidente occorsogli per le vie di Milano trafficate da carrozze invadenti e ben poco attente ai pedoni. Perciò mi scuserete se di lui riporto i versi forse più… fumini che ebbe mai a scrivere da ventenne, giacché poi col tempo mitigò “il carattere impetuoso: corresse la sua splendida bile, trasformandola nella socratica ironia, che mescolata coll’ingenuità, col garbo e col decoro non offende gli uomini, mentre li riprende gentilmente, con un contrasto di modi che li sorprendono” (Francesco Rejna, Vita di Giuseppe Parini).
Li riporto perché sto leggendo appunto le prime sue poesie date alle stampe a 23 anni attraverso uno pseudonimo, “Alcune poesie di Ripano Eupilino” (dove Ripano è anagramma di Parino, Eupilino aggettivo che si riferisce al nome latino del lago di Pusiano che gli diede i natali, Eupili) e mi piacciono molto e mi fanno tenerezza, a dispetto di quello che è sempre stato raccontato, e cioè che sono bazzeccole di poco conto. Pensate che aveva anche inserito ben tre egloge piscatorie, un genere figlio dell’egloga arcade, riferito però ad un’ambientazione lacustre o fluviale.
Questa quartina che vi riporto è tratta da uno dei numerosi sonetti (un’ottantina) della raccolta. La grafia, come potete immaginare, non è autografa del Parini… ma di una sua ammiratrice umilissima.
Per concludere, ma anche questo è risaputo, direi molto di più della mia insana passione per Lui, Parini amava molto Varese e più di un segno vistoso nella sua produzione poetica lo dimostra. In particolare, era grande amico della duchessa Paola Castiglioni Litta, alla quale aveva dedicato un paio d’odi, e forse quella sulla dignità della poesia (“La recita dei versi”, 1753) venne proprio, se non pensata, quantomeno composta durante un banchetto al Castello di Masnago, del quale ella era proprietaria. Dal momento che domani vi si terrà un banchetto prestigioso che raduna le Confraternite italiane sotto l’egida degli amici della Trattoria Maran, ideatori della Confraternita del Pesce Persico, vanto gastronomico locale, mi piace dedicare questo scritto idealmente a quel felice convivio, che rinnova fasti perduti in un luogo a me molto caro per diverse ragioni.
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VARESE, LA PRIMA CITTÀ A DEDICARE UNA VIA AD ALESSANDRO MANZONI (con reprimenda finale).
Oggi ricorre l’anniversario della morte di Alessandro Manzoni, al quale sono particolarmente devota: perciò mi fa piacere raccontarvi una storia che pochi conoscono e che riguarda la città di Varese, la quale giustamente si fregia di essere stata la prima ad intitolare una via al grande scrittore padre della lingua italiana.
Manzoni era spirato dopo lunga malattia nel tardo pomeriggio del giorno 22 maggio 1873, un giovedì proprio come oggi. Il giorno dopo era previsto a Varese il consiglio comunale, che ancora si teneva nell’atrio delle scuole urbane maschili, nell’edificio originario che oggi ospita il Tribunale, perché il vecchio palazzo municipale di piazza del Garibaldino era di spazi troppo angusti per contenere non tanto la giunta e i consiglieri ma il popolo varesino che accorreva a seguire le sedute. Sì, perché dovete sapere che il consiglio comunale di Varese godeva di grande prestigio in epoca risorgimentale, essendo il primo in assoluto in Italia ad aver consentito la partecipazione dei cittadini che avessero voluto presenziare rispettosamente ai lavori.

Sedeva allora in questo consesso di elevati spiriti – mi perdonerete, ma per me la Varese del passato è qualcosa di nobile ed insuperato, e magari in poscritto capirete l’allusione – fra gli altri, Ezechiele Zanzi, straordinaria figura eclettica di notaio, cronista del Gazzettino di Varese per il Corriere del Lario mentre ancora era studente di legge, maestro, uomo di cultura e patriota, che ho avuto l’onore di conoscere tramite quella figura altrettanto luminosa, magistrale e paterna che è per me Renzo Talamona alcuni anni or sono, e che poi ho desiderato approfondire nei lunghi mesi di studi d’archivio che mi hanno consolata durante il periodo covidiano. Ezechiele era stato segretario cittadino all’epoca della seconda guerra d’indipendenza, e al mese di maggio aveva consacrato l’amore per la sua Varese, consegnandola personalmente al Diavolo Rosso, suo grande amico, e liberandola dal giogo straniero, comportandosi da vero e proprio capitano municipale ben oltre le sue mansioni, surclassando il sindaco in carica Carcano. Smessi i panni di segretario cittadino e consacratosi all’attività notarile di famiglia – gli Zanzi sono ancor oggi la memoria storica di vicolo San Martino – e al Museo Varesino Patrio di Studi Storici che lui stesso aveva fondato, aveva però continuato l’attività politica da semplice consigliere, sempre con la medesima passione in corpo che gli veniva probabilmente da quel falò che ardeva in piazza della Motta proprio nel giorno delle doglie con cui sua madre, che dopo di lui avrebbe avuto altri nove figli, lo aveva partorito nel lontano 1833.

Ezechiele Zanzi (1833-1884) ritratto da Francesco Fidanza Era, insomma, piuttosto titolato, il Nostro, a imprimere variamente il segno su Varese, sebbene portasse sulle spalle lo spazio di sole quaranta primavere. Fu così che in quel consiglio comunale tenutosi all’indomani della dipartita di don Lisander, Ezechiele, che era corso a Milano appena ricevuta la notizia al telegrafo, ed aveva pianto commosso assieme al popolo milanese, formulò immediatamente la proposta di intitolargli una nuova via fra quelle che Varese stava assestando in quel periodo, memore anche del legame che Manzoni aveva con il nostro territorio, e in particolare con Casciago e la villa della seconda moglie Teresa Borri. La proposta venne ribadita in un lungo e accorato discorso nella seduta del martedì successivo, discorso che vi riporto per intero così come lo trovo sulla Cronaca Varesina dell’epoca (che era diretta da suo fratello Luigi Zanzi) e accolta all’unanimità dalla Giunta e dai consiglieri presenti: a far cadere la scelta di rinominare la porzione dell’antica e cruciale via Pozzovaghetto che andava rinnovandosi in quel periodo (un altro tratto, quello che dava su piazza Porcari, era stato precedentemente intitolato ad Alessandro Volta) fu concretamente Pompeo Cambiasi, altro grande campione della politica del tempo nonché direttore del Teatro alla Scala, al quale dobbiamo la prima rappresentazione della Messa da Requiem di Verdi in onore dell’amico Manzoni, avvenuta cento e cinquantun anni fa esatti, il 22 maggio del 1874. E fu così che la Varese di Ezechiele, allora sotto l’egida del sindaco Francesco Magatti, in onore di don Lisander compiva un doppio, generosissimo omaggio al grande romanziere, testimoni i cittadini in consiglio: quelle genti meccaniche e di piccol affare che l’Historia scritta dai grandi campioni ignora, ma che lui aveva voluto imprimere per sempre nella memoria degli italiani con il suo capolavoro, i Promessi Sposi.
A questo punto una prece, anzi due.
Sono stata personalmente con Renzo Talamona, che tanto l’ha studiato e me lo ha fatto conoscere, a ritrovare la sepoltura di Ezechiele, che riposa in un anonimo ossario di Giubiano. Desidero con tutto il cuore che possa avere l’onore che merita assieme al fratello Leopoldo, ingegnere ferroviario, morto un anno dopo di lui, nel 1885, nel Famedio che prenderà vita, per quanto è dato di sapere a noi poveri studiosi senza sponsorizzazione alcuna, presto nelle intenzioni della novella commissione cimiteriale varesina.
Post scriptum impietoso ma doveroso.
Qualcuno si sarà accorto, passando da via Carrobbio, che in prima pagina sul periodico Votiamo! esposto in vetrina dall’editore Il Cavedio compare un mio pamphlet che ringrazia alcuni consiglieri per aver preso carico di alcune questioni lanciate dal giornale e votate dai lettori.
Ad oggi, ossia dopo due consigli comunali dall’andata in stampa, la promessa non è stata mantenuta.
La giornalista scrivente, che come da lezione manzoniana ha sempre onorato il vero nella parola, riportando esclusivamente nei suoi scritti ciò che le veniva assicurato appunto per vero, si ritiene indignata per questa grave mancanza che, oltre a danneggiarla nell’immagine, prima di tutto danneggia la credibilità del consiglio comunale stesso, evidentemente preda di beghe intestine fra partiti della medesima coalizione che il giornalista, appunto, non è tenuto a conoscere mentre riporta ciò che le viene riferito da un capogruppo.
In ultimo, ci tiene a precisare, detto consesso comunale non è un palcoscenico ad uso di chi possiede uno scranno, qualsiasi esso sia, ma un luogo di riferimento per la democrazia cittadina e come tale deve essere utilizzato. -
Il Ma*Ga di Gallarate e la candidatura con Varese a Città Capitale dell’Arte Contemporanea 2027

Ieri pomeriggio, all’indomani della candidatura congiunta di Varese e Gallarate a Città Capitali dell’Arte Contemporanea, sono stata a visitare la Civica Galleria d’Arte di Gallarate, meglio nota come Ma*Ga.
Ci pensavo, per la verità, da tempo; ma continuavo a rimandare: d’altra parte, convinta come sono che un luogo, un libro, un museo mi chiami a sé quando ho bisogno proprio di entrare in colloquio con lui e con nessun altro, sono certa che il mio passaggio nelle scorse ore alla Fondazione Zanella non sia stato per nulla casuale.
Uscivo da una settimana un poco pesante, di disorientamento intellettuale, nella consapevolezza che più dai, meno ti viene riconosciuto: ma non voglio angosciare il lettore, anzi, vorrei fargli capire proprio il contrario, e cioè che l’arte è come un balsamo che cura: e già il solo arrivare davanti al maestoso edificio che ospita il museo gallaratese è un sollievo dell’anima. Immaginate di trovarvi di fronte alla piazza in cui va conducendosi il mercato cittadino del sabato, fra odori, voci, colori locali; accanto, svetta il padiglione dove si celebra la cultura della medesima città; di fianco, dall’altra parte della strada, lo sguardo s’addentra nelle antiche lapidi nei grandiosi mausolei del camposanto cittadino. Ecco, questo è il contesto magnifico in cui sorge, in via Egidio De Magri, a Gallarate, nei pressi di un comodo e ampio parcheggio gratuito, in posizione comunque defilata e tranquilla rispetto al centro cittadino e al brulicar del traffico veicolare.

Il cimitero e l’ombra della cancellata del Maga 





Si rimane letteralmente incantati dal contesto: l’ubicazione e la denominazione odierne risalgono al 2010, ma la vicenda del Ma*Ga ha origini ben più remote, dal momento che si collegano a quella del Premio di Pittura Città di Gallarate, nato nel 1950, e alla fondazione del primo nucleo della Galleria d’Arte cittadina nell’anno 1966, costituito intorno alle opere premiate ed acquistate dal Premio stesso in tutte le sue edizioni svoltesi. Ed è proprio la storia di questo premio che compie nel 2025 il suo settantacinquesimo anno di vita ad essere in questi mesi, dal 13 aprile sino al 5 ottobre prossimo, protagonista degli spazi espositivi del Ma*Ga, accanto all’esposizione permanente della Sala degli Arazzi donazione Missoni.
Vi dico: qualcosa di sublime, entrambi i percorsi. Vietato, per conto, mio, dirsi estimatori d’arte e non averli visitati ed amati.
La Sala degli Arazzi intitolata a Ottavio Missoni 



Claudio Verna, A. 158, 1971 
Bruno Munari, Struttura Continua, 1975 
Renato Birolli, Leggenda di mare, 1951 
Purtroppo non ricordo l’autore… mi è piaciuta moltissimo quest’opera. 
Chiara Dynys, Tutto o niente, 2004 Per quanto mi riguarda ci tornerò spesso, anche perché il museo possiede una ricca biblioteca e diverse sale di lettura e di studio estremamente tranquille e uno spazio bar sia al chiuso sia all’aperto dove ristorarsi e magari prendere un aperitivo meditando d’arte con un amico o un amore… in carne d’ossa o in spirito. Sì, perché è sempre stato il mio sogno proibito, inserire idealmente i cimiteri in un ideale percorso narrativo museale: chissà mai che a Gallarate, città che mi pare particolarmente all’avanguardia sul fronte culturale, e altamente meritevole della candidatura a capitale dell’arte contemporanea, si raccolga la sfida già peraltro molto ben abbozzata nelle premesse.


I nomi di tutti i benemeriti del Premio Gallarate Questo articolo è dedicato alla memoria di un grande amico che ci ha lasciati troppo presto: il giornalista e filosofo Lorenzo Scandroglio. Lorì, non ti dimenticheremo mai. Ave.

MUSEO MA*GA
Fondazione Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Silvio Zanella”
Direttrice Emma ZanellaVia Egidio De Magri 1 21013 Gallarate (Va) Tel 0331 706011

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Una preghiera ad una Madonna antica, alla cappellina di via Postumia.

Siamo giunti a calendimaggio: o, come canterebbe il mio conterraneo Branduardi nelle vesti di Rambaldo di Vaqueiras, Kalenda Maya.

Sono scesa con il mio bambino, nel tardo pomeriggio, dopo una giornata domestica di serenità e di studio di poesia e di poeti, sino alla cappellina sotto casa. Mi è molto cara: con lei e solo con lei volevo inaugurare il mese mariano, particolarmente impegnativo anche per i miei figlioli che si approssimano alla conclusione del periodo scolastico, qualcuno agli esami. Questa cappellina, uno degli edifici più antichi di Varese, si trova all’incrocio di via Postumia con via Pola, e attraverso una breve scalinata conduce in Valle. Porta impressa nella lapide commemorativa la data del 1441: un anno forse di pestilenze, che meritava di essere immortalato con un piccolo edificio votivo a ricordo, uno dei tanti peraltro che si trovano lungo le vie di campagna, che oltre a serbare memoria di un qualche evento prodigioso o tragico offrivano riparo ai contadini quando all’improvviso scoppiava una tempesta, ed erano meta di preghiere individuali quanto di processioni (ancor oggi si ricorda la presenza di un antico monastero lungo la via, ristrutturato da tempo a casa privata).
Mi dedicai a cercar di comprendere la storia di questo tempietto arcade nei tristi anni covidiani, quasi colloquiando con chi prima di me aveva dovuto pregare esule dalle chiese interdette al culto, se mai davvero sia esistito nella storia un tempo precedente in cui lo erano davvero state. Di certo quelle povere e ricche genti del luogo che l’avevano fatta costruire avevano già sentito parlare di Giovanna d’Arco e della pastorella Giannetta di Caravaggio: due vicende miracolose, riflettevo e rifletto ancor oggi, che si erano compiute nel decennio precedente, rispettivamente nel 1430 e nel 1432, sempre di maggio.
Nel conteggio delle poche centinaia di metri concesse in libertà vigilata dalle orribili chiusure remote ormai di un lustro io sgattaiolavo giù per la discesa del parco adiacente alla mia abitazione e respiravo a pieni polmoni quel soffio di libertà del breve bosco che conduce all’Addolorata biumensina: in linea d’aria ero stata assolutamente rispettosa, potendola guardare dalla mia finestra; nei fatti, col giro largo appunto fra salici, betulle, noccioli, querce e acacie, un po’ meno. Parlavo con i soli elementi concessi al mio cammino: oltre agli alberi, che mi parevano tristi fratelli antichi, i fiori, e mi imbattevo nelle timide viole che in questa esile proda selvosa crescono di un colore strano, quasi purpureo, e nelle primule anch’esse viranti sul rosa, come volti di bambine che stanno combinando una marachella, come me; quando arrivavo all’indaco delle pervinche e al giallo dei bottoni d’oro il cuore presagiva di aver raggiunto le tinte benigne della Madonna. Mi inginocchiavo, pregavo, mi affidavo a Lei, come ho fatto oggi, reduce da molti giorni di autosegregazione per questioni più d’umore forse che di studio, che poi sarebbe il mio lavoro, assieme alla scrittura, e non lo distinguo da essa, perché sono connaturati e interdipendenti.
Ho trovato nel percorso odierno fiori diversi, consoni alla primavera inoltrata: tappeti di bugole e margheritine, eppure anch’essi intonati con i colori di un manto di Madonna. Chissà se chi ha voluto questo edificio sei secoli or sono vedeva gli stessi fiori che vedo io oggi, e magari in qualche memoria perduta ne ha scritto, e noi non lo sappiamo ancora. -
San Giorgio, dal Decamerone a Biumo Superiore passando per Achille Funi e Ferrara.
Oggi, giorno di San Giorgio, è anche la Giornata Internazionale dedicata al libro e alla lettura.
Mi piace fare mie le riflessioni di Giovanni Boccaccio nella Conclusione dell’Autore del Decameron, che cita appunto il santo in un passo fondamentale della propria autodifesa poetica:“Alla mia penna deve essere concessa la stessa libertà data al pennello di un pittore, che, senza alcun rimprovero, dipinge liberamente San Michele che ferisce il serpente con la spada e San Giorgio il dragone, ma dipinge anche Cristo maschio ed Eva femmina e lo stesso Cristo, quando volle morire sulla croce per salvare il genere umano, mentre gli venivano conficcati nei piedi uno o due chiodi”.
Luogo che mi è particolarmente caro, dal momento che associa letteratura e pittura. Fra i tanti dipinti di San Giorgio che ho raccolto nel cuore dalle mie frequenti incursioni nell’arte, ve ne sono almeno tre che amo sugli altri.
I primi due sono legati alla mia voce varesina e si trovano in San Giorgio, a Biumo Superiore. Sono stati affrescati da Pietro Antonio Magatti esattamente trecento anni or sono, nel 1725. In bianco e nero, tratto dal sito dei Beni Culturali, la Gloria di San Giorgio fra figure allegoriche, nel presbiterio; in colore, mia foto di qualche anno fa, San Giorgio uccide il drago, nella navata laterale di sinistra, accanto all’organo.

Idealmente li associo all’altra mia città adorata, dove riposo spesso il mio cuore pellegrino, Ferrara. Oggi era festa patronale, certo in tono dimesso per la recente scomparsa del Santo Padre: il Duomo è intitolato proprio a San Giorgio. Ovviamente in questa città dove l’arte spadroneggia, le raffigurazioni del Santo sono moltissime: così, per non far torto a nessun pittore dell’officina ferrarese classica, ho deciso di scegliere un dipinto di Achille Funi, che idealmente nella modernità novecentesca le si collega, e che mi ha letteralmente incantata, esposto alla monografica dei Diamanti fra ottobre 2023 e febbraio 2024. Io lo vidi la prima volta il 26 gennaio 2024, reduce da un appuntamento importante legato proprio al Decamerone: mi folgorò. Si tratta di un pastello su carta, risalente al 1936, in collezione privata.

Post scriptum. Mi piacerebbe molto, e non piacerebbe, immagino, solo a me, che San Giorgio biumensina fosse aperta sempre, non solamente in occasione della Messa domenicale. Speriamo che questo desiderio diventi presto realtà. -
Benritrovata, Emiliana: a Palazzo Citterio un Boldini iconico dialoga con i Diamanti

Ieri pomeriggio sono stata finalmente a Milano a conoscere la Grande Brera.
Se ne è ampiamente parlato ovunque e devo ammettere che la fama che dallo scorso dicembre accompagna l’ampliamento della pinacoteca è del tutto meritata.

Modello del Collegio gesuitico di Brera con la facciata del Richini, 1651 Dal momento che il blog è in procinto di restauri1 non mi dilungherò troppo in argomentazioni generali e andrò subito al sodo. Di certo il piano superiore – consiglio di partire da qui – è per certi versi il più affascinante dal punto di vista dello storico e tutta la documentazione sulle varie epoche di Brera è assolutamente imperdibile: mi dicono che sia un allestimento temporaneo, quindi vale davvero la pena di correre a visitarlo prima che venga smantellato (il progetto della Grande Brera è in fieri).

Filippo De Pisis, Vaso di Fiori con bicchiere e libro, 1945 Al fruitore d’arte il piano inferiore della pinacoteca permanente si presenta come una miniera di tesori: per me fresca di visita alla Fondazione Rocca-Magnani, ritrovare due sale dedicate rispettivamente a De Pisis e Morandi è stato come tornare a salutare dopo pochi giorni due amici ormai cari (e infatti in libreria poi mi sono comperata un buon saggio del mio nuovo idolo, Luigi Magnani). A due Modigliani enigmatici seguono, fra gli altri, stupendi, i dipinti di Carrà, autore che mi riprometto di studiare meglio, i paesaggi industriali di Sironi e i due autoritratti di Boccioni realizzati nel 1908 (sicuramente il primo) nel suo studio milanese di via Adige (di lui invece sono infatuata da tempo!) unitamente alla sua Fuga in Galleria: non me ne sarei più voluta staccare. Difatti, scherzando con la custode della sala, le ho proposto di cedermi sedia e lavoro…

Umberto Boccioni, Autoritratto 1, 1908 
Umberto Boccioni, Autoritratto 2 (sul retro di Autoritratto 1: forse precedente al 1908) Cose da migliorare: sicuramente la collocazione dell’inquietante Testa di Toro di Picasso, forse poco intercettabile in una sala meno coinvolgente di altre; le didascalie delle opere, a cui accluderei un QR code di spiegazione; il percorso a volte non di immediata intuizione fra innumerevoli stanze, ma ovviamente è solo una mia opinione di habituée al rigore direzionale nei musei, dato che per natura sono dispersiva e tendo a perdermi allegramente senza un orientamento stabilito a priori. (Di certo, perdersi in un museo come Brera è qualcosa di molto affascinante!)

Van Gogh, l’Arlesiana E poi viene il piatto forte dell’esposizione. L’opera ospite, in questi giorni l’Arlesiana di Van Gogh, è collocata nella sala principale alla sinistra (per chi guarda) della stupefacente Fiumana di Pellizza da Volpedo, che non ha certo bisogno di presentazioni.


Mi è piaciuto sostarle di fronte per qualche minuto, meditando sulle ragioni del costituendo Famedio varesino che schiererà “gl’Illustri Campioni” della storia (ieri mattina ho seguito con passione il consiglio comunale dedicato in streaming) mentre la storia letteraria di noi Italiani si regge sulle ragioni manzoniane di “genti meccaniche, e di piccol affare”: di fatto, fra le due materie – storia e poesia – ho scelto la seconda, così posso concedermi il lusso di salvare la voce di chi non ne ha e non avrebbe avuta forse mai, proprio come aveva fatto Pellizza nelle intenzioni di questo quadro.

Giovanni Boldini, Ritratto di Emiliana Concha de Ossa, 1888, donato dalla signora Emilia Cardona vedova Boldini nel 1933/34 alla pinacoteca di Brera Pellizza è un altro autore che spero di reincontrare presto, prossimamente, magari negli ultimi giorni dell’esposizione novarese (altro bellissimo dipinto esposto nella medesima sala di Fiumana, di dimensioni notevolmente minori, è Prato Fiorito). Di certo giovedì sarò ai Diamanti, dove questo fine settimana ha debuttato l’attesissimo duetto Mucha-Boldini. E per prepararmi convenientemente al convegno ho voluto farmi ricevere preventivamente da Emiliana, ricorderete, una “vecchia amica” della Voce, che incantevole nel suo Pastello Bianco (la tecnica di pittura su tela) è stata scelta come testimonial di un altro debutto, proprio quello della Grande Brera. Ora, non si tratta dello stesso quadro esposto a Barasso lo scorso ottobre ma della sua copia identica che Boldini fece per avere sempre con sé la signorina Concha, figlia di un diplomatico cileno, di cui si era innamorato: cosicché, per disposizione testamentaria, questo dipinto arrivò a Brera e l’altro, appartenente alla collezione privata legata alla famiglia della splendida modella, è divenuto ospite itinerante di numerose esposizioni, fra cui appunto quella della tappa “varesina” di Villa San Martino, grazie – va detto – alla felice intuizione del sindaco Lorenzo di Renzo che ne aveva presagito il potenziale immediato futuro.
Ai Diamanti credo mi attenderà la sorpresa del terzo dipinto in dialogo coi primi due: la Signora in nero che osserva Emiliana. Non vedo l’ora di vederlo. So solo che lo sguardo dolcissimo della giovane ritratta mi ha ringraziato commosso della visita: ho pianto lacrime di amicizia parlandole oltre il tempo. Così dovrebbe sempre essere l’arte: liberatoria e consolatrice. In una parola: amicale.Note.
- Restyling, mi direte: ma sapete che amo poco gli anglicismi inutili! In ogni caso sta per essere spedito dritto filato ad un webmaster che, si spera, sistemerà i non pochi problemi di fruizione e magari darà anche un aspetto più gentile e organizzato alle pagine. ↩︎
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La Bambina coi Fiori di Giacomo Balla ospite a Flora, Mamiano di Traversetolo

La Bambina coi Fiori di Giacomo Balla, 1902 circa
Care lettrici, cari lettori,
come saprete, l’equinozio di primavera si è verificato ieri mattina, 20 marzo, ma per tradizione siamo abituati a considerare il 21 come primo giorno di primavera. Di fatto, mi piace pensare – anche se oggi a Varese il tempo è incerto, e nelle prossime ore è prevista la pioggia – di essere ufficialmente nella stagione della rinascita, che si preannunciava già dalle prime viole di fine febbraio.
Mi sembra la giornata perfetta per raccontarvi della splendida mostra che ho visitato, sotto l’inaugurazione, nel fine settimana scorso. Ve l’avevo preannunciata addirittura in dicembre sulle pagine di questo blog, quando vi scrivevo di un delizioso “personaggio” – proprio quello che apre in immagine questo articolo assieme a me che scrivo – che sarebbe divenuto la testimonial viaggiante della primavera di Varese nel 2025… ma andiamo per gradi.

La mostra in questione è Flora, un’idea straordinaria concepita dallo staff della Fondazione Magnani-Rocca in quel di Mamiano di Traversetolo, in collaborazione con il Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto (Mart), da cui provengono molte opere dell’allestimento.
Prima di parlarvi della mostra, permettetemi però di ricordare brevemente la figura a cui la Fondazione deve i natali.
Figlio di un proprietario terriero e imprenditore agricolo-caseario reggiano, Giuseppe, e della nobildonna Eugenia Rocca di Chiavari, il critico d’arte, letterato e musicologo Luigi Magnani (Reggio Emilia 1906- Mamiano 1984) si trasferisce nella magione acquisita dai conti Zileri – Dal Verme con la famiglia a Mamiano a partire dal 1941 e qui, attorno ad un nucleo fondativo di opere acquisite grazie al sodalizio con l’artista bolognese Giorgio Morandi, ha inizio l’avventura della collezione. Magnani, fra i fondatori di Italia Nostra, insegna per lungo tempo alla Sapienza di Roma (Storia delle arti decorative del manoscritto e del libro); nel 1976 si ritira dall’insegnamento e torna a vivere stabilmente a Mamiano, dove l’anno successivo, dando avvio alla Fondazione, allestisce una pinacoteca con pezzi di straordinario valore, da Tiziano a Durer, da Goya a Canova. Al piano superiore della villa, un tempo occupata dalle camere personali di famiglia, oggi sono ospitate la raccolta delle opere di Cézanne (ad oggi unica in Italia per valore) e pezzi di enorme pregio di Renoir, Monet, Matisse, De Pisis, Guttuso, Severini, De Chirico, Manzù. Fidatevi: una meraviglia davvero rara da assaporare.
Ma ora torniamo a Flora: favolosa pensata è stata quella di allestire un percorso interamente dedicato ai fiori nell’arte italiana dal Novecento ad oggi. “Non c’è pittrice o pittore del Novecento che non abbia dipinto fiori, seguendo una vocazione intima e una personalissima interpretazione, una sfida rappresentativa. Il fiore è un soggetto semplice, ma è anche un universo di simboli complessi, di forme sofisticate e per questo irresistibile” spiega Daniela Ferrari, curatrice assieme a Stefano Roffi. La mostra si apre con un biglietto da visita effervescente, la riproduzione di Flora Magica di Fortunato Depero, scenografia del poema sinfonico “Le chant du Rossignol” di Igor Strawinskij (1917), per poi snodarsi attraverso nove sezioni: Nel segreto dei giardini, Simbolici, Futuristi, Regine di Fiori, Una rosa è una rosa è una rosa, Recisi, Silenziosi, Inquieti, Flora contemporanea. Più di 150 opere in dialogo fra di loro e con il meraviglioso parco recentemente restaurato, attraversano tutta l’arte del XIX secolo dalla prospettiva umile dei fiori, che nella trasfigurazione artistica e nella presentazione corale assume in contrasto retorico una potenza decisamente inaudita.

Fortunato Depero, scenografia di “Le chant du Rossignol” di Strawinskij La voce dei fiori, nella sua complessità semantica – un fiore può parlare di freschezza e di gioventù ma anche di fragilità e decadimento; può simboleggiare bene e male, libertà e prigionia, serenità e angoscia, dolore e gioia, amore e odio – coinvolge in prima battuta nell’allestimento della Villa dei Capolavori le firme dei grandi amici di Magnani De Pisis e Morandi per continuare con Boldini, Guttuso, Pellizza da Volpedo, Boccioni, Mafai, Balla e tanti altri, compresi poeti in versione inedita di pittori come Toti Scialoja e Pasolini (quest’ultimo con l’enigmatico autoritratto Uomo dal fiore in bocca). Enumerarli tutti sarebbe abbandonarsi allo sterile elenco mentre il proposito di questa pagina è un invito sincero a visitare la mostra e la Fondazione, non una ma più volte come farò probabilmente io che sto dedicandomi da qualche tempo alla tematica floreale in una artista obliata da riscoprire. A questo punto però devo portarvi a conoscere… la mia opera del cuore, come vi dicevo in esordio: la Bambina coi fiori di Giacomo Balla (1871-1958), che avevo salutato recentemente al Castello di Masnago1

Giacomo Balla, La Bambina coi Fiori, circa 1902, Museo Civico del Castello di Masnago Alla Fondazione Magnani la “mia” Bambina chiude la seconda sala, quella dedicata ai giardini, aperta proprio da un paesaggio romano di Giacomo Balla, Alberi e siepe a Villa Borghese: Balla, che era di origine torinese, aveva trasferito il suo genio creativo nella Capitale; la cosa affascina ancor di più giacché la “Bambina” potrebbe essere, quantomeno in una interpretazione tradizionale, il ritratto della sua prima figlia, Luce, che come sappiamo è anche il nome della testimonial del Giubileo di quest’anno. In ogni caso questo dipinto di una dolcezza ipnotica, attribuibile al periodo divisionista del pittore, è esposto con un’illuminazione e una strategia collocativa che rivelano tutta la complessità del tratteggio e la dinamicità della luce, appunto, che ne costituisce il messaggio: esposta accanto al Mattino di Primavera di Umberto Moggioli (1918) e in delicato colloquio con la Modella dai capelli rossi tra due paesaggi (1905 circa) sempre di Balla e la Donna in Giardino (1910) di Umberto Boccioni, è l’ultima opera della stanza dei Giardini che introduce alle successive sezioni dei Simbolisti e dei Futuristi.

La sala cosiddetta dei Giardini aperta da Giacomo Balla e chiusa con la Bambina coi Fiori Qui Balla, indiscusso protagonista della nuova estetica, torna a raccontare i fiori nell’audace e progressista visione geometrica del Bal-Fiore, del Fiore Futurista, di Espansione di primavera assieme ai colleghi del Manifesto Futurista.

Giacomo Balla, Fiore Futurista, 1920 circa, tempera su legno, Mart 
Giacomo Balla, Balfiori, 1915 circa, collage di carte colorate su cartone, Monza, coll. priv. Insomma: la Bambina coi fiori, tornata a primavera dal suo papà, non poteva che essere coccolata più degnamente. Una messaggera gentile per la Città Giardino, di cui mi piacerà parlare ancora, giacché risale a pochi giorni fa – al 20 di febbraio -la firma del sindaco Davide Galimberti sulla delibera di prestito alla Pinacoteca Zust di Rancate, altra fondazione a me molto cara, che ospiterà il dipinto delle collezioni varesine durante la mostra “E non chiamateli accessori!” che vi si svolgerà dal 19/10/2025 al 22/02/2026.
FLORA, l’incanto dei fiori nell’arte italiana dal Novecento ad oggi.
Villa dei Capolavori, Fondazione Magnani – Rocca
Mamiano di Traversetolo (Parma)
15 marzo-29 giugno 2025
Curatori: Daniela Ferrari e Stefano Roffi
Per gli accrediti stampa: Studio Esseci di Stefano Campagnolo, Padova
Ingresso ridotto per gli Studenti Universitari di Lettere di tutte le università italiane.

La baronessa de Gunzburg, Giovanni Boldini, 1900-1905 circa 
Renato Guttuso, Vaso di fiori, 1938-39, olio su tela, Collezione Mazzoleni, Torino 
Renato Guttuso, Signora con la Rosa, 1945, Collezione Barilla di Arte Moderna, Parma - In occasione della splendida conferenza dell’8 marzo di Serena Contini sulle donne di Hayez ero andata a verificarne la partenza nella sala del piano superiore, accanto alla Tamar di Giuda, e in effetti era già partita!
Eccomi in foto… con lei in absentia.
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- In occasione della splendida conferenza dell’8 marzo di Serena Contini sulle donne di Hayez ero andata a verificarne la partenza nella sala del piano superiore, accanto alla Tamar di Giuda, e in effetti era già partita!
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DI VIOLE E DI PALLONCINI

La prima viola a Villa Mirabello Ieri mattina sono stata in Municipio. Non mi ero annunciata: sono sbucata all’improvviso dalla scalinata ducale, incontrando alcuni amici che non vedevo da tempo: ed è sempre bello ritrovare sia il Pin, il simbolo del nostro Carnevale Bosino, sia Francesca Strazzi, che mi fu compagna di lotte e ragionamenti sui quartieri ormai troppi anni fa, e poi anche Stefania Radman, la collega adorata di Varesenews (secondo me la migliore giornalista che abbiamo oggi in città, versatile, preparata e umana).

Sono sbucata dal nulla come le prime viole, che infatti mi aspettavano a villa Mirabello.
Lavorerò, anzi sto già lavorando per il nuovo giornale del Cavedio, una testata intrigante a cadenza periodica che risponde al nome di “Votiamo!” e che con l’originale approccio alle inchieste tramite sondaggi popolari, intende porsi dalla parte del cittadino.

Mi avevano chiamata già dal primo numero di novembre, ma per varie ragioni non mi sentivo pronta per tornare in pista su Varese. E invece il giorno della fiera di Sant’Antonio, avviandomi verso il lancio dei palloncini alla Motta, sono rimasta folgorata da un incrocio di segni: il loro giornale in versione cartacea esposto sulle vetrine della nuova sede di via Carrobbio, dove ebbe prima sede anche la mia compianta Provincia; i palloncini di Angelo Monti, che avevo lasciato come ultimo articolo firmato il 30 di dicembre sul mio vecchio quotidiano; infine la Motta, il luogo dove aveva preso avvio la storia della mia dolce Mazzacana, la voce perduta della Varese Risorgimentale di cui ho scritto sul Calandari di quest’anno.

Sant’Antonio alla Motta pochi secondi prima del lancio dei palloncini, 17 gennaio 2025 
Villa Mirabello Detto fatto, ho avvisato gli amici del Cavedio che mi sentivo pronta e li avrei aiutati: e così mi sono presa in carico alcune inchieste, fra cui in particolare una che avrà un cappello storico doveroso, perché io nasco come cronista ma poi mi affino nell’indagine storica, come sanno bene i lettori della Voce.

Gli Estensi visti dal basamento che fu dell’Italia Liberata La nascita di un giornale è sempre un evento storico, del resto; e quando un giornale nasce in una città come la Varese odierna (e di storia giornalistica ne abbiamo avuta parecchia, e invidiabile), assume addirittura i connotati del miracolo gentile.
Come il rinascere di una viola dai semi di un lungo, faticoso inverno. E io non potevo certo sottrarmi all’idea di stare dalla parte delle viole.

Post scriptum. Questo articolo è dedicato ad un caro amico… che non l’ha presa molto bene, forse perché il Cavedio sta invadendo Varese con le affissioni di Portale Corsi, leader nel settore, e che rammentano all’utenza la storia gloriosa dell’associazione che per tanti anni ebbe l’ufficialità municipale. Però gli vorrei ricordare con un sorriso che l’etichetta di Voce di Varese me l’aveva data lui: quindi prima o poi dovrà farsene una ragione. Allo stesso modo, lo dedico a colui che, sono certa, da lassù caldeggia il sodalizio: il mio caro Maniglio Botti, giornalista illustre, penna raffinata, indimenticabile cronista d’inchieste di attualità e anche di storia al cui colloquio oltre spazio e tempo mi affido nel nuovo cammino. Non sarà impresa facile ma ce la faremo: per aspera ad astra, come ben sai tu che hai guidato una firma siderale spesso, machiavellicamente, nel loto e nel fango).

Il mio caro cigno, simbolo della poesia in fuga, che – mirabile visione, ha anche un cucciolo, e due amiche anatre… di guardia. 
Il cigno pulcino, altrimenti detto volgarmente “brutto anatroccolo”: e invece è bellissimo.