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La Madonna e la luna. Nel chiostrino di Sant’Antonino, una delle più belle e misteriose immagini sacre di Varese

Alla vigilia della partenza per Firenze, viaggio che desideravo fare da tempo per diversi motivi che vi spiegherò – una sorta di pellegrinaggio culturale e spirituale per me, che in questi anni sono rinata attraverso l’arte e la letteratura – , oggi pomeriggio ho deciso di congedarmi dalla mia città con una delle mie famigerate flâneries. Le passeggiate scioperate alla ricerca del bello e della serenità fanno parte ormai della mia terapia d’urto quotidiana, che è fatta di colloqui ritrovati con ciò che mi circonda e vive e pulsa oltre la mia piccola stanza personale: una stanza tutta per me, certamente, la mia confort zone fatta di libri, studio e scrittura, ma anche, detto sinceramente, parecchio claustrofobica nel suo circuito autoreferenziale.
I piedi, questo pomeriggio, dopo una seconda intensa mattinata di studi d’archivio per la nuova causa che vado inseguendo, mi hanno portata in vicolo San Martino, dove pulsa il cuore “bottegaio” della mia città. E non sia pensato in tono negativo: tutt’altro, giacché se Varese sopravvive lo deve proprio alla grande generosità delle botteghe che durante le giornate clou del Risorgimento tennero testa agli austriaci mentre i più cercavano la via della fuga nelle campagne fuori dal borgo. Ecco: se c’è una cosa che mi sento di dire è che l’anima commerciale di Varese si lega davvero con il suo genius loci, e nobilmente.

Con Cristina di Bonton2 in Vicolo San Martino Premessa doverosa, e parzialmente atta a giustificare anche per questa volta la mia insana passione per lo shopping d’abbigliamento. Cosa volete che vi dica: ho passato tanti anni a sentirmi come il brutto anatroccolo in una città di bellissime donne; ora cerco di valorizzare quella che definisco… la mia seconda e tardiva fioritura, costi quel che costi (è proprio il caso di dirlo).

Con Cleo di Nosecrets, via Broggi Detto fra noi, tanto non ci legge nessuno (o quasi): ho fatto qualche spesuccia per presentarmi a Fiorenza in maniera condecente. E però, uscendo da una delle più belle botteghe a mio avviso di Varese, che dà direttamente sul chiostro di sant’Antonino, dove ti provi gli abiti sotto archi affrescati di scene angeliche, non ho potuto esimermi dal salutare l’Immacolata dolcissima che io chiamo della Luna, poiché si sostiene appunto sull’astro, suo attributo classico. E proprio nelle ore in cui la luna d’estate si dipinge piena e fiera al nostro umile sguardo.

La raffigurazione dell’Immacolata nel chiostrino di Sant’Antonino, al limitare di corso Matteotti 
Una delle Sibille di Sala Veratti, opera di Pietro Antonio Magatti (1691-1767) 
Un’altra Sibilla, sempre Sala Veratti, sempre di mano del Magatti. Qui la somiglianza con l’Immacolata è più forte 
La terza Sibilla di Sala Veratti Ne discutevo poco fa con mio marito – medico con una seconda laurea in estetica, che conferma l’iconografia dell’Immacolata – e con il mio amico Matteo Bollini, storico dell’arte, il quale mi ricorda una pubblicazione del grande Silvano Colombo che l’attribuirebbe a Federico Bianchi.
Io non sono nessuno, sono solo una cronista flâneuse prestata al giornalismo culturale; ma a me par di scorgere in quel volto, in quei colori, in quella delicatezza delle vesti cerulee i tratti tipici del periodo delle Sibille di Sala Veratti, vale a dire dell’antico refettorio che fu tutt’uno con il chiostro delle benedettine estinto da Napoleone, poi acquisito dalla famiglia Veratti e parcellizzato in abitazione padronale, botteghe e opifici.
In buona sostanza, sarà che io lo vedo ovunque, persino nei sogni, ma per quanto mi riguarda questa Immacolata esce dalla scuola, se non dalla mano diretta del Magatti. E’ un bel mistero che lascio volentieri in sospeso per una prossima, futura discussione intorno all’arte varesina.
L’ingresso dell’ex chiostrino -
Buon compleanno Artemisia!

Nei prossimi giorni sarò nei luoghi dove Anna Banti concepì il suo capolavoro narrativo, il romanzo Artemisia, terminato nella primavera del 1944, andato distrutto sotto i bombardamenti di Firenze tra il 3 e il 4 agosto del medesimo anno e riconsegnato alle stampe completamente ripensato nel 1947.
Quello che doveva essere un romanzo storico, la biografia della celeberrima pittrice secentesca che Lucia Lopresti – questo il vero nome di Anna – aveva riscoperto setacciando musei e collezioni private di tutt’Europa, nonché lavorando sugli atti del processo per stupro che la giovane pinctora subì nel 1612, era diventato un romanzo di ricostruzione autobiografica dopo il lutto di aver perso il suo lavoro più prezioso.«Non piangere». La vocina di Artemisia apre le pagine del libro con una potenza inimmaginabile, squarciando il pianto silenzioso della scrittrice accoccolata fra i singhiozzi sulla ghiaia di un vialetto dei giardini di Boboli, proprio all’alba dei bombardamenti. Da qui in poi si avvia un colloquio amicale fra “il personaggio forse troppo diletto” e la moglie del grande critico d’arte Roberto Longhi, un sodalizio oltre il tempo che dà vita ad una nuova modalità di raccontare artisticamente la storia, rinnovandone il genere attraverso l’intreccio delle macerie della propria anima e della vicenda narrata recuperata attraverso “la forma commemorativa del frammento“. Anna se la porta dietro “a minuzzoli, a poco a poco, con pazienza, a pezzettini“, e la voce dell’artista dall’avvenire segnato e solitario di reproba le si affida fedele, consegnandosi “in un patto stipulato in regola fra notaio e testante”.

Bologna pinacoteca nazionale, Susanna e i vecchioni – Artemisia Gentileschi, 1652 “(…) il dettato si legava, d’istinto, a una commozione personale troppo imperiosa per essere obliterata – tradita“
spiega la Banti nella prefazione al lettore. Un romanzo potente, una scrittura penetrante, colta e ad appassionata ad un tempo, da cui non riesco a staccarmi e che mi ha fatto germinare il desiderio di inserirmi nel suo solco.
Una madre letteraria che ho cercato per tanto, tanto tempo.Nel giorno natale di Artemisia – Roma, 8 luglio 1598 – Napoli, 1653 (anche se la critica recente tende a retrodatare di un lustro il genetliaco).

Dedicato a mia madre, la mia prima lettrice, che essendo pittrice tanto ama Artemisia e me l’ha fatta conoscere. Potete immaginarvi l’emozione di entrambe che ha provato quando le ho mandato questa fotografia dalla Pinacoteca di Bologna, dove mi trovavo a fine giugno scorso, e dove tornerò per per completare il percorso (sono state proprio in questi giorni riaperte le sale rinascimentali) all’indomani del viaggio fiorentino. Come spesso accade nei suoi lavori, Artemisia si autoritrae nei suoi personaggi femminili che sono, sotto il velo dell’allegoria storica o biblica, opere di forte denuncia e rivendicazione della dignità muliebre, professionale e personale. -
Negli archivi varesini, dove batte il cuore della mia città

Con la cara Antonella Veneziano, amica fidata e archivista preziosa Oggi avevo in progetto di scrivere tutt’altro; ma come spesso mi accade, in maniera del tutto imprevedibile, riesco a scombinare le carte all’ultimo minuto, in specie sotto l’influsso del plenilunio in arrivo.
Questa mattina avevo preso un appuntamento per studiare nell’archivio comunale di via XXV Aprile, che dal 1939 è ospitato nei locali sotto la palestra del Cairoli. Per la verità l’ho preso doppio, non solo per oggi ma anche per giovedì mattina, il giorno appunto della luna piena: ho il vezzo di considerarla mia amica oltre che delle cose perdute, e più d’una volta mi sono ritrovata ad aver intuizioni incredibili sotto i suoi influssi, a scoprire storie meravigliose, a sentir la voce dimenticata di questo o quel personaggio che desiderava riaffiorare dalla polvere… com’è successo anche oggi, come succederà ancora, ne sono certa.Va detto subito: il mio metodo d’indagine non è mai lineare. Quando approdo in archivio, quando mi faccio portare un faldone, so che aprendolo paradossalmente troverò tutt’altro da quello che cerco. Sai da dove parti, non sai dove arriverai, è il monito del mio magister Renzo Talamona, il Poggio Bracciolini di Varese. E così anche in quest’occasione, mentre puntavo a trovare certe carte di inizio secolo scorso di una scuola, i cosiddetti fogli di famiglia – che annotano dati e presenza di tutti i componenti di una abitazione, pubblica o privata – con l’elenco di tutti gli studenti, del corpo insegnante e di servizio – , mi sono perduta dietro a storie parallele incrociate sulla via, fino ad indietreggiare di un secolo ancora e ad arrivare alle elezioni amministrative, ebbene sì, dell’anno 1813.
Dipartimento del Lario – Lista tripla per la nomina del Podestà di Varese. Siamo in piena epoca napoleonica, nel Regno d’Italia proclamato otto anni prima.

Spero si riesca a leggere il documento. Comunque si fronteggiano tre candidati: il settantenne Antonio Molina, già in carica dal 1808, nonché fratello del precedente podestà Vittore Molina, dimissionario per motivi di salute; il quarantaduenne avvocato e possidente Giuseppe Picinelli, di gloriosa casata nobiliare, al cui attivo vi sono persino santi in paradiso; infine il ricco proprietario terriero Giuseppe Pellegrini Robbioni, trentasei primavere, ancora scapolo (la dicitura “nubile” un tempo era da considerarsi unisex sui documenti).

La spunterà il podestà uscente, o sia il non più giovanissimo Antonio, rimanendo in carica altri due anni, vale a dire per sette anni totali (sino alla sua morte, avvenuta nel 1815); gli succederà prima il Robbioni, che a sua volta rimarrà in carica sino al ’21, lasciando il posto a Pompeo Comolli. D’altra parte Antonio e Vittore erano i proprietari delle Cartiere di Valle Olona, assieme ai fratelli Carlo e Luigi: una famiglia molto ben radicata nel tessuto economico e narrativo della città, e che avrebbe tenuto banco in politica e nelle istituzioni per lungo tempo.

Il cortile interno degli archivi, che dà sul blocco scolastico del Manzoni La cosa che non potevo sospettare è che, uscendo dall’archivio, mi sarei imbattuta nella notizia del Sole 24 Ore sul gradimento degli amministratori italiani, sindaci di provincia e governatori (ormai nota come governance poll) Ora, per un caso di quelli che forse capitano solo a me (che devo esser persona che davvero viene catapultata nelle storie del passato come una rodariana Alice Cascherina), nel documento che avevo considerato ne usciva proprio il gradimento sociale degli aspiranti podestà del 1808, vale a dire le “Opinioni al rapporto morale e politico” dei personaggi in questione. Una scheda di valutazione, naturalmente, giocata in casa duecento anni or sono, che però potrebbe essere considerata senz’ombra di dubbio l’antesignana dei sondaggi di gradimento attuali delle nostre governances.

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Una passeggiata in Varese parte seconda. Sala Veratti, Artisti Indipendenti e una corsa ai Giardini.

Sabato 5 luglio 2025. Con la mia amica Samantha Crespi, in Corso Matteotti. 
Giardini Estensi Un po’ di fretta, e me ne scuso, riassumo l’incursione in quel dell’arte varesina di sabato 5 luglio, après le déluge. Avevo proprio voglia di farmi una passeggiata rigenerante per le vie della città, a naso in su, respirando la frescura portata dalla tempesta: adoro la sensazione di tabula rasa che i temporali repentini regalano a mezza estate quando si è stanchi, assuefatti di tutto e tutti.

Sala Veratti, che fu l’antico refettorio del chiostro di Sant’Antonino, ha una storia fascinosa che ho anche studiato in archivio di recente, ma che in questo momento non ho testa o volontà di rievocare: solo, basti sapere che nel 1927 l’allora podestà Domenico Castelletti in qualità di vate del nascente Circolo degli Artisti l’affittava dalla famiglia Veratti per consacrarla alle esposizioni d’arte non ospitabili nel più solenne ed ufficiale Salone Estense. Ecco perché mi risulta tanto fascinosa ed azzeccata l’attuale mostra che perdurerà sino a tutto agosto ospitando opere dei cosiddetti Artisti Indipendenti varesini.







Operazione meritoria, lo dico da tempo, da parte dei volontari (in pratica gli artisti medesimi) il tenere aperto, seppur solo di sabato e domenica un ambiente tanto spettacolare: un delitto lasciarlo interdetto alla cittadinanza.
Qui le Sibille del Magatti, le scene ad un tempo profetiche e contadine del Ronchelli dialogano serene con le opere contemporanee come fossero care amiche che si incontrano per la via dopo un lungo inverno.
L’arte ha il potere di rinnovare il colloquio sui grandi temi dell’esistenza così come sulle piccole cose fondative della vita quotidiana.
(Dedicato a Samantha, amica e artista preziosa e gentile).








Sul sagrato di San Vittore -
Una passeggiata d’inizio luglio per Varese inseguendo la bellezza Parte prima: il Vittoria.

Sabato 5 luglio 2025 – Varese – Caldo ma sopportabile.
Oggi pomeriggio, sotto una Varese rinfrescata dal temporale mattutino, ho deciso di concedermi una delle mie note flâneries rigeneratrici. Per la verità dovevo ritirare in erboristeria alcuni prodotti che avevo ordinato giorni fa – sono una patita dell’aromaterapia – e così, di verde vestita, mi sono avventurata in centro puntando su via Bagaini, non sospettando che prima della mia meta avrei perso volentieri qualche minuto chiacchierando con alcuni gentili signori all’ex Cinema Vittoria: Giovanni dal Cin e Francesco Bruno dell’associazione Kiklos, che da un paio d’anni ha rigenerato il foyer della storica sala allestendo esposizioni d’arte contemporanea.







Così, se da un paio di mesi quello che fu a partire dal 1917 il fulcro del salotto buono di Varese è stato messo ufficialmente in vendita1, i tre intraprendenti soci santambrogini del Kiklos – hanno sede in via Sacromonte – hanno iniziato a riaprirne le porte alla città dando voce al suo biglietto da visita caro alla memoria di chi lo frequentò sino alla chiusura, avvenuta nel 2006.
Ho voluto cogliere negli scatti qualche particolare di questo allestimento che cala il sipario proprio questo fine settimana. Le opere esposte sono degli stessi soci; le splendide fotografie di Giovanni Dal Cin interpretano le trame del legno come fossero piccole storie, intercettando nelle nervature idee di alberi, o di riflessi di pleniluni. Coup de maître oserei dire boccacciano, sono incorniciate nelle locandine d’epoca, stabilendo una connessione fra la storia del luogo e la storia della città che agli alberi e ai giardini deve la sua fama.
Preziosità aggiunta, a ricordare i fasti del secolo scorso, le creazioni della terza socia, Veronica Casnati, gioielli finissimi che rievocano le toilettes delle serate di gala dei bei tempi in cui Varese era una delle città più eleganti d’Italia.Grazie a loro per avermi fatta catapultare indietro nella storia della città che più di tutte mi fa struggere di nostalgia. (Continua domani)
- L’auspicio è che possa acquisirlo il Comune agganciando qualche bando ad hoc. Il prezzo dell’immobile, come si apprende dalle agenzie immobiliari, è di un milione duecentomila euro. Sarebbe un bel colpo legato alla questione della promozione dell’arte e della cultura varesine. ↩︎
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Cartoline da Ferrara

Settimana scorsa ero a Ferrara, la mia città del cuore, e come di consueto ho spedito un nutrito drappello di cartoline ad altrettanti amici, aggiungendone in corsa qualcuno.
Inizialmente ne spedivo poche, giusto alle persone a cui sapevo faceva ancora piacere riceverne: mia madre, mia suocera, il mio caro professor Renzo Talamona che considero di famiglia, un paio di amici strettissimi che sento ogni giorno o quasi. Col passar del tempo ho ampliato il ventaglio di amicizie a cui scrivere un pensiero di penna da un luogo dove il cuore si sente libero dai soliti gioghi, libero di esprimere con la genuinità della calligrafia a mano le emozioni del momento.
Mando ora dai vari viaggi una dozzina di cartoline che parlano d’arte, soprattutto, e di come mi sento disposta in un determinato momento: si tratta di anime affini, che ricevono un saluto ‘viaggiato’, e che sempre ringraziano di cuore. Mi fa piacere che abbiano di me qualcosa di concreto mentre sono altrove, ma non col pensiero: in quel momento ero a scrivere proprio per loro, e chi sa cosa sia per me la scrittura, un impegno fisico oltre che di cuore e di mente, può immaginare il significato che io attribuisco ad una, tutto sommato, banale cartolina mentre la sto firmando.
Firmare una cartolina per una persona cara è un gesto tutt’altro che scontato. Passato sicuramente di moda, soprattutto fra gli italiani – mentre gli stranieri, mi confermano da diverse città, ne acquistano e spediscono ancora molte -, reca il segno della nostra presenza in un luogo fisico che abbiamo voluto condividere con l’altro non in maniera astratta, come uno scatto inviato per WhatsApp, che potremmo spedire da un luogo qualsiasi, diverso da quello della fotografia, agganciando il destinatario ovunque egli si trovi, ma che è stata reale – fa fede il timbro postale – e che vuol tornare a riattualizzarsi nelle mani di chi riceve, ogni volta che tornerà a rileggerla.
Nella cartolina non ci sono selfie e l’immagine di per sé non è personalizzata, ma è sicuramente scelta con criterio, così come le parole pesate che la accompagnano, che in un breve spazio acquistano un sapore di resistenza al tempo.
La cartolina è il sonetto della corrispondenza: in poche, misurate righe condensa un ragionamento che mira a farsi colloquio intimo e prezioso.
P.s. ad oggi la palma della velocità nella ricezione di cartoline è da assegnarsi al tragitto Ferrara- Malnate, che ieri ha recapitato a mia sorella e a mia madre le prime cartoline spedite sabato pomeriggio dalle Poste Centrali ferraresi: dato che la domenica le poste sono chiuse, da lunedì a giovedì ci hanno impiegato solo quattro giorni ad arrivare. Idem valga per Binago. Nella giornata di oggi, venerdì, sono giunte a destinazione le prime cartoline a Varese.
E voi scrivete ancora cartoline?
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La Madonna delle Grazie e il Duca Francesco

Ieri cadeva la ricorrenza della Madonna delle Grazie, che popolarmente viene anche detta Madonna dei Miracoli. A Varese una splendida sua immagine, di autore ignoto, effigiata in San Vittore, è posta sull’altare della cappella del Rosario ed è contornata da quindici tondi dipinti dal Morazzone fra il 1615 e il 1617.
La storia della devozione a questa Vergine è stata raccontata da Chiara Zangarini in una monografia edita da Macchione (per la verità in tandem con l’Addolorata, sempre in Duomo) che mi riprometto di leggere presto.
Di mio aggiungo solo che il Duca Francesco III d’Este (1698-1780), festeggiando il suo genetliaco proprio il 2 luglio, le era particolarmente devoto e ne aveva fatto la sua personale, segreta protettrice nel dorato buen retiro varesino.
Del resto la patrona degli Estensi era sempre stata a furore di popolo la Madonna delle Grazie della Cattedrale di Ferrara; e lui, che nell’esilio modenese della devoluzione era nato e cresciuto, eleggendo Varese come patria esiziale aveva ritrovato in quest’immagine sacra il rifugio del suo cuore ramingo. Cuore che mai aveva potuto legarsi né al nume tutelare della madrepatria estense sottratta alla sua casata un secolo prima della sua nascita, né tantomeno alla propria madre terrena, mancata troppo presto per lui bambino.
Quanto gli ricordava la sua mamma, Carlotta Felicita di Hannover, questa Madonna bruna dal manto rosso? Forse il segreto del cuore perduto e mai ritrovato di Francesco è proprio da cercarsi in qualche misura in questo trauma antico.

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Metti una sera a Villa Panza, fra collezioni “agostiniane” e… colazioni tempestose.

P.M Tayou, Colorful stones. E’ l’opera che più mi rappresenta, un’opera di denuncia e di ricostruzione. Lo confesso: aspettavo questo momento da anni, e all’ufficializzazione della candidatura di Varese e Gallarate a Capitali dell’Arte Contemporanea ho subito sperato che l’apertura serale delle collezioni di Villa Panza divenisse realtà. Cosa che si è avverata e che mi ha inorgoglita felicemente, dal momento non ho mai nascosto di considerare questo luogo un tesoro inestimabile sotto molteplici angolature: per la valenza naturalistica del suo parco, per l’impianto architettonico della villa e del giardino, per la storia secolare parte della quale mi si è rivelata come dono prezioso in carte d’archivio e a cui presto restituirò voce.

Dal percorso di luce, la vista sulla meridiana delle scuderie, o sia l’ingresso alla villa dal parcheggio interno Ieri sera, perciò, non potevo assolutamente mancare al primo esperimento di apertura serale delle sale museali, sale che conosco bene perché vi torno spesso come fossi di casa, ospite di memorie amiche. L’esperimento, così mi piace chiamarlo ma spero diventi presto la prassi, durerà per tutto il mese di luglio, per ogni martedì sera, dalle 18 alle 22: in pratica, anziché chiudere, la villa e il suo magnifico parco si apriranno ai visitatori nelle ore, a mio avviso, più belle dell’estate.

Villa Panza nel cielo e nelle fioriture d’aprile Nota mi è da tempo la collezione permanente1, che poi è il percorso che s’incontra nell’ala più antica della villa, appartenuta nel Settecento ai Menafoglio, quindi nel secolo successivo ai Litta, infine acquisita dalla famiglia Panza2 negli anni Trenta del Novecento: così, sul preannunciarsi minaccioso di un fortunale – il primo di una certa severità su Varese, di questa stagione – ho pensato di concentrarmi sull’esposizione temporanea, che pur avevo già visitato un paio di volte, in apertura e in occasione della festa della Mamma3.

Giuseppe (1923-2010) e Giovanna Panza Magnifico nel giorno del loro matrimonio, 1955 Il filo conduttore che sempre mi piace riagganciare ogni volta che torno in questo luogo dell’anima è il dialogo che Giuseppe Panza, appassionato cultore d’arte e collezionista, instaurò fra gli ambienti e le opere astratte, i celeberrimi quadrati monocromatici che caratterizzano ogni singola stanza di tutta la magione, e che a prima vista paiono distrarre l’osservatore dalla narrazione circostante, quasi annullando quest’ultima in una spazialità nuova, fatta esclusivamente di luce e di colore.



Il salone da pranzo 
La luce è il grande tema delle collezioni di Villa Panza da sempre. Luce che nasce dall’armonia di fasci discordi, luce che rigenera nella divisione di altrettante fonti cromatiche. La collezione temporanea, prestito di Gemma De Angelis Testa, moglie del pubblicitario Armando Testa (1917-1992), si pone in colloquio fecondo con la filosofia metafisica di Panza dispiegandosi in un percorso di undici tappe, allestito al piano nobile dell’ala che fu occupata dalle stanze personali dei proprietari, con un esordio programmatico: No number twice, +216, After the Augustine’s Confessions, 1991, del concettualista americano Joseph Kosuth.

No number twice, Joseph Kosuth 
Red!, Joseph Kosuth, neon art 
Oscar Murrillo, Scarred Spirits, Anime ferite, 2023. Un altro sguardo, inaugurato il 10 aprile scorso, rimarrà fruibile sino al 12 ottobre. Nell’allestimento un’opera su tutte mi riempie il cuore, ed è esposta nella stanza che ne conclude, con felice premonizione artistica sulla svolta incombente di Santa Romana Chiesa4, il percorso agostiniano.

E’ la stanza che ospita Segno, opera del 1990, di Armando Testa (che sarebbe mancato solo due anni più tardi), o sia la croce di legno bianca dal capo reclinato, speculare alla composizione Colourful stones dell’artista camerounense Pascale Martine Tayou. In quest’ultima, le pietre divelte dall’ideale selciato sono il simbolo della rivolta contro il potere dispotico di un paese martoriato dalla guerra civile che, nella rappresentazione artistica, diventano eco di tutte le ribellioni all’oppressore, reale o ideale che sia.
Notiamo come il ciottolato multicolore evochi la moltitudine dispersa delle opere monocromatiche del conte Panza. Così, la strada lastricata di sampietrini colorati diventa in un batter d’occhio il cammino che andiamo percorrendo nella villa ma anche il nostro cammino personale, nei cui frammenti la nostra anima si specchia raccogliendoli passo dopo passo; un cammino di forte matrice petrarchesca, che cristianamente è una croce assunta sulle spalle.
Croce che nel suo candore riassume e sublima tutti quei frammenti sparsi, tutti quei colori, dando loro un senso rinnovato ed univoco. 5.
Come vorrei che quest’opera straordinaria diventasse parte integrante della collezione perpetua di Villa Panza. La mia visita si conclude in maniera del tutto conforme a com’era iniziata: mi immergo nella luce, ora rappresentata dalle affascinanti installazioni che Giuseppe Panza commissionò all’amico Dan Flavin (1933-1986) negli anni Settanta.

Per perdersi definitivamente e ritrovarsi a riveder le stelle, da oggi più che mai con le aperture serali di questo tempio dell’arte contemporanea che è gestito, va detto, in maniera degnissima dai tanti volontari del FAI.
Post scriptum. Le aperture serali di luglio saranno allietate dal ristorante eponimo della narrazione – non poteva essere altrimenti!, ossia il Luce. Per quanto mi riguarda, l’aperitivo sontuoso di ieri sera ha ripagato saporosamente nei locali interni il dispiacere di esser fuggiti Campari in mano dalla tempesta abbattutasi nel déhors. Qui proprio nulla è lasciato al caso, tantomeno l’esperienza del gusto. Un unico monito: siateci.
Nel dehors del Luce, poco prima della tempesta… 
Apericena con ogni bendidio di fingerfood e pure una versione intrigante di paella bosino style, con costine e salamini! 
- Villa Panza è una magione stupenda dove gli ambienti sono memoria viva di fasti antichi, di pranzi e cene familiari ma anche di riunioni politiche, di balli e ricevimenti, di scene risorgimentali e prima ancora di conviti barocchi. La posizione della maestosa villa ducale caduta in disgrazia in seguito alla morte dell’intellettuale David Henry Prior, ultimo erede di casa Litta, e riportata agli antichi fasti da Giuseppe e Giovanna Panza per poi essere acquisita dal FAI nel 1996, domina il colle di Biumo Superiore, è contrastata solo dal vicino complesso più recente delle Ville Ponti; merita una visita approfondita che consenta di immergersi, fra stucchi e camini, fregi, arredi, affreschi e vetrate, in maniera condecente nei tempi dei loro protagonisti. ↩︎
- Ernesto Panza, commerciante vinicolo di origini monferrine, milanese d’adozione, acquista nel 1935 la proprietà già Litta dagli eredi Prior; nel 1940 diventa conte di Biumo per nomina regia. Fra i vari meriti, quello di aver ridato luce al Broletto milanese, o Loggia dei Mercanti. ↩︎
- E ci avevo portato la mia, Nina, la mia prima lettrice, a cui dedico questo scritto. ↩︎
- Com’è noto, un mese più tardi, la sera dell’8 maggio, giorno di san Vittore, il patrono di Varese, sarebbe stato eletto papa l’agostiniano Leone XIV ↩︎
- Chi abbia in mente il dialogo petrarchesco del Secretum ha compreso di cosa parlo. Sparsa fragmenta recolligam, promette Franciscus ad Augustinus, che lo invita a tornare a sé, a dimenticarsi delle lusinghe del mondo. Ma ho così tanto ancora da fare, risponde Petrarca al suo interlocutore: devo raccogliere i frammenti sparsi della mia anima, e per rimetterli insieme ho da vivere ancora un pezzo nel mondo. Devo camminare, scrivere, vivere. ↩︎

Come di consueto, per concludere in bellezza, un’occhiata anche alla mise della giornalista ci sta: abito nero minimal chic by Montecervino (consulente di stile, la mia carissima Romina di Mara, Masnago City): nero, ovviamente, per non distrarre l’ambiente dalla filosofia di luce circostante. Unica concessione al colore, gli accessori rosa fluo in pendant con le installazioni (Cory Moda di Acqui Terme per la borsa, Dr Scholl per i sabot). C’est tout :). A la prochaine!
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Una domenica pomeriggio al museo del Novecento, fra sale chiuse (futuristi) e sale aperte (e temperature tropicali).

Lucio Fontana, Attese, 1959. La mia opera preferita: mi rappresenta.
Aniline and slashes of canvas, Inchiostro di anilina e tagli su tela.
Un omaggio d’apertura doveroso ad Arnaldo Pomodoro, 1926-2025. Sfera n.5, 1965 
Mario Sironi, paesaggio urbano, 1924 Se fosse stato ancora fra noi, probabilmente Dino Buzzati ci avrebbe fatto su un pensierino per un sequel di Paura alla Scala. Ieri pomeriggio chi come me si è arrischiato a fare un salto al Museo del Novecento per cercare refrigerio alla calura tropicale tutto s’aspettava tranne di dover rinunciare al suo obiettivo agognato, ossia concedersi un colloquio a tu per tu con Boccioni e i futuristi, e di sentirsi mancare dal caldo arrivato al quarto piano della struttura, il primo disponibile dopo una sequela di scale mobili che per simpatia con l’angoscia collettiva intonavano un lugubre concerto metallico e lamentoso.

Il mio adorato Achille Funi, “Il bel cadavere” (“Le villeggianti”), 1920. 1
Cinque euro, per carità, il prezzo standard della visita (non mi ero preventivamente accreditata) per un colosso narrativo intorno all’arte contemporanea sono veramente il minimo sindacale da richiedersi al visitatore: però, a meno che non si fosse motivati sino allo spasimo a raggiungere le vette incontrastate di Lucio Fontana, forse quella di ieri non era proprio la giornata ideale per presentarsi in quel del primo museo italiano del genere.
Giorgio De Chirico, la Sala di Apollo (Violino).2
Cosa fosse successo non ci è dato di sapere: smantellate letteralmente le sale interdette al pubblico, in grave penuria di refrigerazione le altre, ma anche d’aria nel momento di massima affluenza (e giravano gruppi con relative guide…), ieri per omaggiare De Chirico e Morandi, Carrà, Funi e Marini occorreva una buona dose di autocontrollo: buon per me che frequento ormai sistematicamente l’arte per superare le crisi di panico e la depressione delle stagioni “forti”, dal momento che la prova provata di alta resistenza mi ha davvero confortata sul potere, e sull’effetto terapeutico delle opere sulla mia persona (e sulla mia scrittura ritrovata di conseguenza).
Marino Marini, Pomona 1, 2 e 3 
Bruno Munari, Aconà Biconbì, 1964-67 Ed eccomi a confessare che sì, alla fin fine, non avrei potuto io scegliere occasione migliore di saggiare la mia vocazione estetica. In ogni caso, dato che ormai quello della domenica pomeriggio con Milano sta diventando un appuntamento fisso, tornerò presto (informandomi preventivamente sulla riapertura dei piani attualmente indisponibili!) sia per completare a livello sommario il lavoro, sia per occuparmi con più cura possibile di singole opere che mi hanno conquistata, e magari soffermarmi con meno fretta su altre: d’altra parte, definire immensi gli spazi espositivi in questione è render loro semplicemente giustizia. Ma all’ultimo piano, costi quel che costi, pure una rinnovata sauna senza preavviso, ci tornerò spesso, ad ammirare la poesia di Lucio Fontana, dalla splendida Signorina seduta (1934), non a caso considerata il vertice della produzione dell’artista argentino di origini varesine3 alle numerose altre opere che hanno reso immortale il genio delle laceranti Attese.

Signorina seduta, Lucio Fontana. Il bronzo dipinto a tempera rappresenta una fanciulla nell’atto di specchiarsi in un oggetto che non è realmente presente: potrebbe essere la geniale intuizione della realtà virtuale 
Alberto Burri, Rosso plastica, 1961 (Plastica, acrilico, combustione su cellotex) Post scriptum: sto seriamente meditando di gettarmi alle spalle il dispiacere reiterato delle pagine di cronaca e di consacrare la mia scrittura disimpegnata alla bellezza.



Massimo Kaufmann, Le regole del gioco, 2020. Lancio un ponte per il prossimo articolo che riguarderà Varese… estote parati. 
E per finire in bellezza… un Camparino in Galleria ci sta! - Achille Funi (1890 – 1972), ferrarese di nascita, studia sin da ragazzino all’Accademia di Brera, dove assumerà l’incarico di docente di pittura murale e affresco. Esponente del Realismo Magico, è uno dei grandi del Novecento italiano, riscopritore di forme classiche e interprete raffinato dell’arte sacra. ↩︎
- Forse il mio lettore non conosce la vicenda personale di De Chirico. Mi preme ricordargli che l’inventore della pittura metafisica soggiornò per tre lunghi anni, dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, a Ferrara: qui conobbe Carlo Carrà, Filippo De Pisis (altro grande ferrarese) e Giorgio Morandi, ma anche, ovviamente, si appassionò al classicismo estense. Chi frequenta con un certo affetto queste mie povere pagine si accorgerà subito che che quest’opera denominata Violino potrebbe essere in stretto colloquio con l’Apollo Musico di Dosso, di cui ho già scritto in occasione della Mostra sul Cinquecento ferrarese ai Diamanti, e che De Chirico aveva ammirato nel soggiorno romano (in cui conobbe il Roberto Longhi futuro promotore dell’Officina Ferrarese) alla Galleria Borghese. ↩︎
- Lucio Fontana (1899-1968), pittore, scultore, ceramista, mosaicista, fondatore nel primo dopoguerra dello Spazialismo, era nato a Rosario, in Argentina, da padre laghée, originario di Comabbio, dove l’artista ne ristrutturò la proprietà stabilendovi nell’età matura la propria residenza di affetti e di opera. Mi piace ricordare che il grande artista compì gli studi elementari all’Istituto Torquato Tasso di Biumo Inferiore, la Castellanza di Varese dove risiedo, prima di approdare all’Accademia di Brera e all’Accademia del Castello Sforzesco. Ma riparleremo di sicuro presto di lui in una prossima occasione. ↩︎

La Madonnina del Duomo, il simbolo di Milano In ultimo, vanitas vanitatum ma la bellezza richiede bellezza: per questo post ho indossato un abito della collezione di Indelicatissimo, via Garibaldi, Ferrara (ciao mitica Clarissa!).

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Varese, città (s)fiorita.

Giusto ieri scrivevo della bella iniziativa dei ragazzi di WG Art che stanno decorando le vie del centro cittadino con temi floreali.
Tutto ciò purtroppo stride con un colpo d’occhio che, impietosamente, mette a nudo la scomparsa pressoché totale della Varese fiorita di un tempo. Parlo di via Sacco, che dovrebbe al contrario omaggiare il grande medico e ricercatore varesino proprio con ciò che più amava, i suoi fiori. È risaputo infatti che nei suoi giardini milanesi selezionò diverse varietà di camelie, nonché altre specie vegetali.
I giardini Estensi non sono messi molto meglio. I tulipani, non sarà la loro stagione, ma sono spariti. Al loro posto giusto qualche sparuto fiorellino ad imitazione della lavanda e dei nontiscordardimé. Ma l’effetto non è propriamente quello di un parco ridondante di petali e corolle.
Eppure pochi mesi or sono giungeva nelle redazioni la notizia di parecchi denari impiegati per dotare le vie centrali di vasi ad uso floreale.
Non è un bel biglietto da visita per questi giorni di gare mondiali alla Schiranna.

Via Sacco inizio estate 2023 Comunque sia, sapete cosa mi piacerebbe poter realizzare, lo dico da anni, inascoltata?
Un grande evento culturale che abbia come tematica portante proprio i fiori, che erano il quid di Varese, un tempo.
Forse, per il ritorno di Luce, o sia ‘La Bambina coi fiori’ di Giacomo Balla, che dovrebbe riapprodare a Masnago entro la fine di giugno, se non vado errata, dalla Fondazione Magnani di Traversetolo (Pr) dove è attualmente esposta (ne ho scritto tanto recentemente), si potrebbe organizzare qualcosa in suo onore, per cominciare.