Questa mattina è apparsa sul Sole 24 ore la notizia del Governance Poll, il sondaggio demoscopico sul gradimento dei sindaci dei capoluoghi italiani eseguito da Noto per conto del primo quotidiano finanziario italiano.
Secondo il report, Davide Galimberti, sindaco di Varese al suo secondo mandato, sarebbe risalito dalla centesima posizione del 2021 alla quarantatreesima a parimerito con Gianni Nuti sindaco di Aosta e Francesco Rucco di Vicenza, entrambi esponenti del centrodestra.
Davide, come è noto, raddoppiò il mandato avviato nel 2016 il 18 ottobre del 2021 con la tessera del PD in tasca, il sostegno dei 5Stelle (ancora tutte assieme) e una sequela di liste civiche a supporto, alcune al varo, altre rivestite a nuovo per l’occasione, e comunque con un 53% dei voti totali (il 53% rilevato dal Sole), 16741 preferenze per dirla tutta, con un’affluenza in calo rispetto al primo turno, pari al 47, 36% degli aventi diritto al voto, contro il 50, 93% strappato all’antagonista Matteo Bianchi il 4 di ottobre.

Se la matematica non è un’opinione, il nostro Davide governa Varese da 9 mesi con il consenso del 25,2% dei varesini: non proprio moltissimo, e questa vittoria rosicata (benché guadagnata sul campo) dovette fare fortemente i conti con il forte astensionismo di ottobre – motivato, come potete capire, anche dalla situazione covidiana in corso, o meglio dal rifiuto del cittadino per la valenza di un voto “libero” in cabina quando tutt’Italia – e le scuole non ne erano esenti – era sottoposta alla maglia del green pass. Non si ha davvero voglia né tempo di ricordare una così triste pagina della nostra storia politica che si spera sia definitivamente archiviata: io, civica purissima e gagliarda, mi recai in cabina ma davvero molto, molto combattuta, ma so di molti che desistettero dall’impresa.
Perché dico questo? Perché Davide era sempre stato sostenuto dalle forze civiche: proprio quelle che in questa nuova tornata elettorale col 16, 3 % dei voti totali gli avevano garantito al primo turno di passare al ballottagio, e poi, sommati ai 1048 voti non strappati di certo a Bianchi ma ai civici “non allineati” (le varie liste dei miei amici Caterina Cazzato, Daniele Zanzi, Francesco Tomasella e anche di Calenda/Azione), di stravincere su Bianchi. Per la cronaca, quel 1048 che va calcolato sul totale dei voti finali di Galimberti rappresenta di essi il 16%, ma per sommarli compiutamente a quelli dei civici della prima tornata occorre riferirli ai trentamila votanti totali del ballottaggio: viene fuori una percentuale dimezzata, circa 8%, che sommati appunto al 16,3% delle preferenze del primo turno più l’8 dà un 24,3 % che si parifica praticamente con il 26% del piddì, che non rinuncerebbe al voto nemmeno in barella o con l’estrem’unzione stile ser Ciappelletto.
Boccaccesca o no che sia stata questa elezione, prendiamola dal versante letterario serio, ossia quello della commedia umana: del resto l’humilitas avrebbe dovuto segnare pesantemente questa rielezione da quel 4 di ottobre dedicato a Francesco patrono d’Italia cui entrambi i candidati riaffidavano le proprie sorti all’elettorato. I segni sono segni.

Camminavo, una mattina di settimana scorsa, anzi correvo verso il centro cittadino, dalla mia Belforte, ammirando il Bernascone che con la torre civica faceva capolino su via Tonale. Faceva un caldo terribile: all’improvviso scorgo una figura accucciata sul marciapiede che delimita la tristemente nota area oggi degradata che da largo Comolli immette su via Trento, e che ai più è nota col nome dell’architetto che ha recentemente ripiastrellato una metà di via Del Cairo: fu, anche questo, un suo progetto di una quarantina di anni or sono. Progetto destinato all’inglorioso esaurirsi della sua vocazione commerciale e terziaria in generale: non più uffici ma spazi vuoti affidati al degrado da decenni, non più negozi tranne un paio di vetrine – un bazar e un pub – che resistono indefesse ma non certo premiate per il loro zelo.
Ora, questo luogo che volenti o nolenti è nell’immaginario comune l’area Morandini, che siate fan o detrattori del celeberrimo bizzozzerese, è diventata da tempo una sorta di Palazzo Estense rovesciato.
“Posso avvicinarmi?” chiedo all’uomo seduto che mi scruta da lontano dai suoi occhiali rettagolari, di intellettuale. “Ma certo” mi risponde. “Buongiorno Davide – lo saluto esitante – perché lei si chiama così, vero?” “Certo” è la replica decisa ma gentile. “Lei si chiama come il sindaco” gli dico, mentre penso che il primo cittadino con un quarto dei consensi popolari siede in un ufficio confortevole, l’appartamento che fu di Francesco III in persona e che raffigura sulle pareti cieli e prati fioriti, e che sul quel quarto aveva promesso solennemente un minuto dopo la rielezione: “Sarò il sindaco di tutti”.
Il Davide raggomitolato con le gambe incrociate in un ufficio a cielo aperto, lattine e cartoni per scartoffie, è – come dire – un sindaco al contrario: l’ultimo dei cittadini.
Mi dà udienza, solennemente, e lentamente mi racconta la sua storia.
Era stato, nella vita “borghese”, un rappresentante. Vive da vagabondo da un anno, o forse di più: i ricordi sfumano nella tristezza e forse anche in un goccio di alcool che tiene compagnia.
Ha una moglie e un figlio, che però non si curano più di lui da tempo.
Si procura cibo e sostegno con l’elemosina. Mi scuso di fargliela, perché devo correre a fare una visita agli occhi e non posso entrare nel supermercato per portargli qualcosa. “Che cosa hai?” mi chiede preoccupato. “Nulla, solo che non ci vedo molto bene ultimamente, sarà perché studio e scrivo tanto” e mentre mi commuovo alla sua sollecitudine, mi chiedo come una persona così umile possa interessarsi dei problemi altrui, lui che potrebbe rappresentare i problemi in toto dei varesini tutti, reali e riferiti.
“Il sindaco non è mai venuto a trovarla?” gli chiedo mentre lo saluto.
Non aspetto la risposta, che non arriverebbe.
Ci sorridiamo e prendo congedo, con il desiderio di scrivere questa storia il prima possibile. Perché è una storia urgente da scrivere.
Ora, se il mio voto vale davvero qualcosa, e voto significa affidarsi a qualcuno, io vorrei che il primo cittadino fosse ricevuto dall’ultimo, e che si trovasse una sistemazione dignitosa per il Davide che incarna la malinconica voce di una città che si sente sempre più abbandonata nelle piccole cose. Anche lui, come il cigno, il campanile e il totem. Una malinconica poesia.