• Il cimitero campestre

    2 novembre 2025 Domenica

    Non sento particolarmente mia la ricorrenza dedicata ai defunti. Ciononostante ho deciso di riservarle qualche riga, riaprendo dopo alcune settimane di vuoto queste pagine su cui forse il lettore avrà già recitato frettolosamente un requiem. E invece, sorpresa, stiamo rinascendo dalle nostre ceneri, anche se occorrerà pazientare ancora un poco per la versione 2.0 della Voce: ma ne varrà la pena. Fidatevi.

    Intendiamoci: credo sia sacrosanto che chi ci ha preceduto nel pellegrinare lasciandoci il fardello oneroso del testimone nell’esilio riceva omaggio alla sua povera croce terrena: sono a modo mio cattolica e praticante, vale a dire con un certo timore reverenziale per alcune questioni che qui non sto a discutere perché non è il caso e per le feste comandate che sento come vincolanti ad un mio sentimento personalissimo del tempo e del calendario. Siamo evidentemente croci in cammino, ovunque ci troviamo, in dolorosa cerca della patria eterna: e però sono stata programmata per aver coscienza quotidiana di questo dolore, sicché coi morti parlo più che coi vivi, da sempre; perciò non mi servirebbe, non fosse da calendario condiviso, appunto, consacrare loro un giorno all’anno, o un triduum – comprendendo anche il vespero delle lumere, una tantum, per prender consapevolezza della condizione umana. Ne ho sin troppa, di consapevolezza, che m’intride le ossa che lascerò, prima o poi, inevitabilmente come tutti, ad una croce finalmente radicata in terra.

    Complice una propensione di famiglia al lutto, purtroppo anche infantile, il mio colloquio con i defunti nasce sin da quando, piccolissima, persi un fratello vissuto poche ore, senza mai poterlo conoscere nemmeno per un minuto. Mio padre, che presto lo avrebbe raggiunto, mi portava spesso sulla sua tomba, a Musocco, dove avevamo un percorso di memoria settimanale da compiere: ma per me arrivare al sabato mattina in treno a Milano, e poi salire sul tram, e infine varcare la soglia di quell’enorme giardino fatto di viali e controviali, dove proseguiva la corsa l’autobus tanto era enorme, era quasi un gioco, anzi senza nemmeno il quasi. Andavamo così, passeggiando mano nella mano canticchiando, o raccontandoci storie, di tomba in tomba, spesso soffermandoci su qualche nome curioso nel tragitto, nome che esulava dal nostro orticello concluso parentale, e fantasticavamo sulle relazioni ipotetiche fra i defunti che forse mai si erano conosciuti in vita, ma che ora erano accomunati da condizioni di vicinato in un medesimo campo, in un medesimo corridoio.

    Chissà il mio fratellino chi aveva scelto come confidente fra tutti i suoi vicini di postazione, mi chiedevo e anzi gli chiedevo, quando parlavo a tu per tu con il piccolo angelo di bronzo che i miei genitori avevano scelto per ricordarlo: perché io credevo veramente che quella statuina fosse mio fratello, avendone assunto le sembianze umane. Mi chiedevo anzi il perché ci fossero tombe senza statue, giacché per me nelle sculture mortuarie erano intrappolate le anime dei trapassati: e se non c’era una statua, almeno doveva esserci un albero, in cui si erano in qualche modo metamorfizzati. Avrei capito molto più tardi che il segno terreno di quelle vite ormai avviate nell’altrove, il loro simulacro, era abbastanza contenuto nelle loro croci.

    Non la faccio lunga. Da anni, occupandomi ovviamente anche dell’oggi, scrivo storie intorno a personaggi che quest’oggi ha obliato: il più delle volte l’indagine cimiteriale si rende necessaria, sul posto e negli archivi. Per l’ultimo personaggio che ho consegnato alle stampe, la cui storia sarà fruibile dal prossimo dicembre, ho trascorso diversi mesi a studiare il suo spiccato amore per il tema funebre, alimentato da una costellazione di lutti occorsi in un tempo ancor giovanile della sua vita, lutti ai quali sublimò la sua vocazione di amministratore umile e visionario ad un tempo: basti pensare che a lui dobbiamo l’intuizione dell’opportunità della maggior necropoli varesina e della sua effettiva concretizzazione. Un personaggio straordinario, che mi è rimasto nelle viscere sin da quando ne ho intuito la bellezza, del quale mi è stato di enorme fatica riuscire a trovarne una fotografia, non dico una statua, benché fosse in contatto con i migliori scultori locali, a cui aveva affidato l’effige funeraria dei suoi affetti più cari.
    Ecco. In questo senso, umilmente, serenamente non ho bisogno di un solo giorno per dedicarmi al culto dei morti: perché ne ho fatto un culto scrittorio quotidiano, professionale e intimo ad un tempo, e non certo vuoto, o ipocrita o di circostanza, non nel senso che tutti i giorni scrivo di morti o di lapidi ma perché scrivere per me è ritrovare ogni volta il colloquio con quel mio fratellino perduto, con le ragioni che mi legano a ciò che manca, riportandomi in armonia con la mia parte oscura, che mi trascina verso l’abisso, in equilibrio precario ma ripetutamente sincero, nella dimensione dell’anima che qualcuno – sempre stupenda la voce di Migliorini a riguardo, consiglio di intercettarla ai lettori di queste righe – osa ancora, letterariamente, definire con il termine di nostalgia. Sembrerà surreale ma scrivere, per me, è un po’ come camminare ancora mano nella mano con mio padre per quei viali e vialetti di Musocco parlando con le statue, con gli alberi, i fiori marcescenti nei vasi e perfino con i sassi, che dovevano pur aver la capacità di intendere anche loro, e custodire una scintilla vitale, o il segreto stesso della vita e della morte. Chissà.

    Doppio poscritto.
    Il titolo è volutamente fuorviante, o meglio pensavo davvero che avrei scritto de Il cimitero campestre di Felicita Morandi, poetessa, scrittrice ed educatrice varesina celeberrima per la fondazione delle milanesi Stelline, ma poi la testa mi ha portato altrove. In ogni caso il carme è reperibile al link *Poesie educative – Google Books

    Circa la fotografia che ho scelto, è un piccolo omaggio ad una bambina vissuta il breve spazio di poche ore, a dispetto dell’epitaffio recato dalla lapide, che apparteneva al vecchio cimitero monumentale di Giubiano, quello dell’attuale piazzale Kennedy. Ad Emilia M., affettuosamente, che è legata alla storia che ho narrato, qui e altrove.

  • Sfuma la candidatura a Città dell’Arte contemporanea 2027 per Varese e Gallarate

    La Voce chiacchiera con Luce, meglio nota come La Bambina coi Fiori di Giacomo Balla

    Dopo aver appreso la notizia della candidatura sfumata per Varese e Gallarate, sono corsa a sentire il parere di Luce al Castello di Masnago.

    ‘Ci credevamo tanto, vero?’, le dico un po’ delusa.

    Alla fine, delle sei città che si erano candidate lo scorso giugno, rimangono a contendersi l’ambito titolo Alba, Chioggia, Pietrasanta (Lucca) e l’altra coppia in corsa, Foligno in rete con Spoleto.

    Lei mi sorride enigmatica e questa volta non dice nulla. Secondo me ha in serbo altre sorprese…

    In ogni caso, mia opinione personale, le potenzialità c’erano e ci saranno di più ancora in futuro.

    Certo che il premio di un milione di euro di stanziamenti per il comparto culturale ci avrebbe fatto sicuramente comodo.

    Speriamo abbiano ragione gli occhi scintillanti della mia piccola amica. La Voce, dal canto suo, di sorprese sicuramente ne ha in serbo, e non sarà un mancato traguardo che la farà smettere di sognare in grande per Varese, pur dal suo umile osservatorio, la prospettiva dei fiori.

    Leggi anche:

    https://cultura.gov.it/comunicato/28000

    Il Ma*Ga di Gallarate e la candidatura con Varese a Città Capitale dell’Arte Contemporanea 2027

    Luce, la Bambina coi Fiori, è tornata a casa al castello di Masnago per il compleanno di papà Giacomo Balla

  • Nel mezzo del cammin di nostra vita: l’Uomo nel bosco di Guttuso in dialogo con Fattori

    Mentre fervono i lavori per il nuovo corso che presenteremo fra qualche settimana, ho ricevuto l’ok per pubblicare ancora qualcosa sulla versione blog della Voce. Mi fa piacere allora ricordarvi che oggi ricorrono i duecento anni dalla nascita del grande pittore livornese Giovanni Fattori (6 settembre 1825-30 agosto 1908), il cosiddetto genio dei Macchiaioli, uno dei massimi pittori dell’Italia risorgimentale.

    Grande narratore della ruralità, sublime paesaggista ma anche ritrattista e intimista, schivo nell’opera come nella vita della modernità, ci ha lasciato opere iconiche e sospese, capaci di dialogare con il sentimento del tempo e della nostalgia. Ho avuto modo di ammirare molte sue opere esposte a Palazzo Pitti nel mio recente viaggio fiorentino, fra cui uno dei suoi celeberrimi Autoritratti.

    “L’uomo nel bosco” di Giovanni Fattori, dettaglio

    L’opera di cui vi voglio parlare oggi è “L’uomo nel bosco”, realizzata fra 1880 e 1885. Nella solitudine di un sentiero immerso nella natura autunnale un uomo vestito di scuro, protetto da un cappello a falda larga cammina, dando le spalle all’osservatore, immergendosi in un percorso di solitudine. I colori della selva non sono cupi ma accoglienti, caldi, in colloquio con la pensosità del personaggio che stranamente non possiede ombra propria, quasi fosse costituito di sola anima, come un novello Dante che attraversa la selva durante il rapimento del sogno: la genesi onirica, una delle ipotesi più affascinanti per l’interpretazione della Commedia, risalente ai suoi primissimi commentatori.

    Ebbene, questa intertestualità dantesca presente a mio avviso in filigrana in Fattori non poteva non essere raccolta nei tempi più recenti da qualche collega. E voi direte: ma sì, lo abbiamo riconosciuto! E’ in effetti, sorpresa, è proprio il nostro Renato Guttuso dai boschi di Velate – opera purtroppo non più presente dal 2023 su suolo italiano in seguito ad una triste vicenda di messa all’asta – che si inserisce nel cammino universale tracciato dall’Alighieri e interpretato da Fattori nella tela dalle tinte mature, riprese a piene mani dal genio originario di Bagheria. L’uomo, questa volta, è vestito di chiaro, è ancora privo di ombra, le mani incrociate dietro la schiena sono nella medesima posizione. La selva è più avvolgente, incombente, quasi umanizzata: i tronchi del colore dell’abito indossato dal personaggio, che evidentemente è come se stesse uscendo dall’intrico di fronde. La selva, allegoria cristiana del peccato e dell’errore, immagine incipitaria di tanta letteratura dalla classicità al romanzo medievale passando appunto per Dante, Ariosto, Tasso, è arrivata sino a noi sedimentando toni psicologici, parlandoci di dramma interiore, di luoghi incagliati della psiche, di fatica di vivere, di zone depresse e ammutinate, disorientate, buie. Bene, in questa dimensione della narrativa più alta e universale si inseriscono l’uomo di Fattori e quello di Guttuso, il quale – grande estimatore di Dante al punto da aver illustrato una Commedia per i tipi della Mondadori nel 1957 – porta anche la nostra Varese nel grande cammino universale dell’uomo, che nei boschi di Velate si smarrisce, si dispera e però ne esce creando le sue più grandi tele introspettive e morali.

    La targa di dedica del percorso nei giardini di Villa Mirabello, Varese, a Renato Guttuso.

    Post scriptum. Sempre scusandomi per la scarsissima fruibilità delle pagine, avverto che quella di Guttuso sopra descritta non è l’unica interpretazione del bosco velatese e purtroppo nemmeno l’unica ad essere finita all’asta. Riusciremo mai a riportare a Varese in una esposizione veramente completa l’arte di questo grande? La speranza, come ci insegna l’uomo in cammino, è l’ultima a dover morire.

    Autoritratto, Giovanni Fattori, Palazzo Pitti – Firenze

  • La Madonna dimenticata del Castello di Belforte è in restauro

    Vi ricordate quando, solo un mese fa, pensando alle battaglie per la memoria locale intraprese da Maud Ceriotti, scrivevo da queste pagine al Sindaco di Varese per chiedergli risposte sul Castello?
    Ebbene, non pensavo di dover dare una notizia tanto importante, fondamentale direi per i miei lettori e per me che la sto scrivendo, commossa e abbastanza incredula, in modalità… di restauro.
    E invece, per quella singolare dimensione che riguarda la mia scrittura, che si nutre di segni, lampi e illuminazioni, mi ritrovo a comunicare l’inizio dei lavori di restauro all’affresco quattrocentesco della Madonna del Castello di Belforte proprio in questa veste dimessa e provvisoria, di cantiere, esattamente come un cantiere in queste ore è tornato il maniero medievale che sorge sull’altura varesina che venne scelta dai Biumi, i governatori di Milano, per farne il loro quartier generale.

    (Il Castello di Belforte nella sua porzione secentesca, ossia quella che i marchesi Biumi restaurarono da un precedente fabbricato in cui era presente il dipinto, scegliendola per magione. La Madonna si trova al pianoterra, all’ingresso)

    Una notizia che mi è stata comunicata pochi minuti fa per telefono dal primo cittadino di Varese, Davide Galimberti, con la medesima commozione – lo posso scrivere? Lo scrivo! – con cui la sto riferendo io ora.

    Da quanto tempo la aspetto? Da quanto avevo promesso ai belfortesi, ai varesini, a me stessa che sarebbe successo?
    Era la fine del 2006 quando l’ultimo, precedente cantiere svelò dagli intonaci il misterioso dipinto, raffigurante una Vergine in trono con il Bambino, fra due santi: a destra Sebastiano trafitto nella classica iconografia, a sinistra una figura talmente ammalorata da non intuirne quasi più i tratti, ipotizzata come Rocco, che in coppia con il primo era considerato il protettore dalle epidemie in tempi passati. E il Castello di epidemie nel Quattrocento, datazione cui venne subito fatto risalire l’affresco, ne aveva vissute, e ne avrebbe attraversate, e purtroppo, anche successivamente.
    Nelle prossime ore potrò raccontarvi qualcosa di più preciso, forse, sulle dinamiche del restauro, e sulle interpretazioni che si sedimenteranno sicuramente assieme ai lavori. Per quanto mi riguarda, un’ipotesi affascinante per il santo “nascosto” è quella che lo identifica con Materno, andando così a ritrovare la titolazione originaria della chiesa originaria del Castello, registrata dal Bussero; ma, anche, almeno per quanto mi riguarda, l’idea che possa trattarsi nientemeno che di Agostino.

    Per ora mi sento di chiamare in causa coloro assieme alle quali avevo, dieci anni fa esatti, ribattezzato il dipinto “Madonna Dimenticata”, promettendo loro che non lo sarebbe più stata: le mie amiche Mariuccia e Valeria Caccia, le ultime castellane.

    Sono mancate entrambe, in questi ultimi anni. Vissero il Castello, che dopo la peste manzoniana era stato convertito dapprima in convento provvisorio e successivamente in cascinale, sin da bambine, e di questa Madonna avevano sentito accennare in favole antiche che ormai ricordavano solo loro. Di fatto, la sorpresa della riscoperta per loro era stata una conferma di ciò che credevano aver conosciuto solo nella dimensione del sogno.

    Questa è una foto cara che mi ritrae con Valeria e Mariuccia all’Oratorio del Lazzaretto, durante un Torneo Rosalba di dieci anni or sono.

    Mariuccia da giovane. Per me, il volto della Madonna è il suo, mentre quello di Valeria è l’Angiola Bella. Ma di questa storia parleremo una prossima volta.

    Grazie, Davide! La foto è uno scatto che ci siamo fatti al volo lo scorso febbraio. Diciamo che ho aspettato un po’ a pubblicarla :).

    Leggi anche:
    Il bel tempo è arrivato: è ora di salvare il Castello – La Voce di Varese
    Quando Maud voleva impacchettare Belforte – La Voce di Varese
    «Io, il quartiere nascosto e il mio amico Badoglio» – La Provincia Di Varese


  • Un omaggio a Gaetano Previati, maestro di luce. Ci rivediamo presto!

    Gaetano Previati, Funerali di una vergine, 1895, Palazzo Citterio, Milano.

    Al grandissimo Maestro del Divisionismo ferrarese di cui ricorre oggi l’anniversario della nascita (31 agosto 1852- 21 giugno 1920) affido il compito di… seppellire degnamente queste pagine divenute per obsolescenza ormai difficili da scorrere e ancor più macchinose da compilare, in attesa che il nuovo prodotto online, nelle mani di un ottimo webmaster, prenda forma fruibile e compiuta.
    Scommetto che vi piacerà, come piace a me l’idea, finalmente, di dare un volto nuovo a questa Voce che da tempo aveva bisogno di un serio restyling e di una nuova veste editoriale.

    Gaetano Previati, autoritratto, 1920, Galleria degli Uffizi (foto mia scattata il 12 luglio scorso)

    Vi stupiremo con effetti speciali. Abbiate pazienza qualche settimana. Le cose belle si fanno sempre attendere un poco.
    Affettuosamente,
    Laura

  • Pinacoteca di Bologna al femminile. Fra i Carracci e Lavinia Fontana alla scoperta della viaggiatrice Orsola, nella sacralità del quotidiano manierismo di Vasari e nel seducente barocco di Guido Reni

    La Voce in colloquio con Lavinia Fontana, Apparizione della Vergine fra le sante Caterina d’Alessandria, Margherita, Agnese, Orsola e Barbara

    Ha fatto notizia ad inizio luglio la riapertura, dopo alcuni mesi di riallestimento finanziato in larga parte dai fondi PNNR, della Galleria Carracci alla Pinacoteca di Bologna.

    Le sale, poste nel cuore pulsante della nutrita pinacoteca, sistemate ed efficientate, sono un grandioso giardino narrativo in cui trascorrere del tempo a disposizione per l’arte e per la cura del proprio sentimento estetico. Ci sono stata la scorsa settimana, complice un novello viaggio bolognese assieme al mio gentile consorte, impegnato nei suoi affari. A me, come sempre, il compito di celebrare le sacre devozioni culturali e di scriverne. Essendoci stata già all’inizio di giugno, in una visita abbastanza approfondita, ho disatteso i convenevoli col resto della collezione (pur tornando a chiacchierare con l’Artemisia un po’ al volo per riferirle del viaggio fiorentino) e mi sono concentrata proprio sulla sezione riaperta da una manciata di giorni.


    Non me ne sono pentita, amando particolarmente anche in letteratura il periodo: la Scuola dal programmatico nome degli Incamminati (che non poteva non affascinarmi!), dei Carracci – i cugini Ludovico, Agostino e Annibale fondata nel 1582 è considerata l’apripista del Seicento bolognese, artefice del rinnovamento pittorico del nuovo secolo.

    Detta anche Bottega o Scuola dei Desiderosi, l’accademia dei Carracci sforna opere grandiose, parecchie delle quali pale d’altare sotto augusta committenza, e rappresenta storie sacre attraverso le immagini, suddivise in porzioni narrative nette e facilmente fruibili dal popolo del clima della Controriforma.

    Martirio della vergine Orsola, Ludovico Carracci, 1592

    Fra le opere dei Carracci esposte mi è entrata nel cuore il magnifico Martirio della vergine Orsola, di Ludovico Carracci, il caposcuola, particolarmente efficace nel contrasto di luci ed ombre (che preannunciano i modi secenteschi) e denso di pathos. La leggenda narra che la principessa cristiana Orsola, di ritorno da un pellegrinaggio a Roma intrapreso dopo esser stata chiesta in moglie dal principe inglese Conan, di religione celtica, subì il martirio intorno all’anno 385 con undicimila vergini nei pressi della città di Colonia ad opera degli Unni. Se il martirologio cristiano la celebra il 21 ottobre, la sua presenza al contrario non è registrata nel calendario romano, a causa delle controverse interpretazioni sulla vicenda che riguarda la santa, il cui culto è comunque autorizzato dalla Chiesa, e che rimandano all’archetipo della viaggiatrice. Una storia stupenda, quella di Orsola, narrata a più riprese dalla Passio del X secolo e da fonti anche molto contrastanti fra di loro, a partire dall’Historia Regum Britanniae, il primo scritto in assoluto ove si menzioni il personaggio di Re Artù: in pratica la prima eroina letteraria cristiana legata alla quête, all’inchiesta, ossia la recherche dei romanzi cavallereschi. Una santa moderna e veneratissima, non a caso iconica protettrice delle figure educative, cui fanno riferimento anche le Orsoline, congregazione fondata da Angela Merici, dall’Ottocento confluite nell’ordine francescano ma inizialmente sciolte dal voto, nonostante la professione virginale.

    Torna sant’Orsola nella piccola ma splendida pala di Lavinia Fontana che rappresenta l’Apparizione della Vergine fra le sante Caterina d’Alessandria, Margherita, Agnese, Orsola e Barbara, firmata e datata 1601. In essa, forse proprio in sant’Orsola – seconda a destra dopo Barbara – si celerebbe l’autoritratto della pittrice bolognese (1552-1614), cui è dedicata la sezione che troneggia nella sala: omaggio doveroso alla caposcuola del Manierismo pittorico femminile di cui si conserva un minuscolo autoritratto, un olio su rame, datato 1579 anche nella galleria dedicata ai progenitori dei “selfie” d’artista agli Uffizi: l’ho fotografato nel mio recente viaggio fiorentino per voi. Vi assicuro che è proprio piccolo: misura infatti 15,7 x 15, 7 cm!

    Apparizione della Vergine fra le Sante, Lavinia Fontana
    Il piccolo tondo esposto agli Uffizi con l’autoritratto di Lavinia Fontana
    La firma di Lavinia Fontana
    La Voce fra le opere della sala dei Carracci. Sì, sono vanitosissima, lo confermo!

    Visto che scrivo nel giorno natale di Giorgio Vasari (Arezzo, 30 luglio 1511- Firenze, 27 giugno 1574) non potrei dimenticarmi di omaggiare il padre della storia e della critica d’arte molto ben rappresentato in Galleria. Giustamente, di fronte alle sue imponenti tavole – Gesù in casa di Marta e Maria e Cena di San Gregorio Magno – si è disposto un comodo divano pouf (e ve ne sono diversi altri lungo il percorso, così come in pinacoteca) dove potersi fermare il tempo desiderato. Trovo questa strategia d’allestimento rispettosa dei tempi personali della contemplazione e molto intelligente. Le due opere facevano parte di un ciclo pittorico più ampio commissionato nel 1539 e destinato al monastero degli Olivetani dedicato a san Michele in Bosco, dove Vasari è attivo nel biennio 1539/40, a partire dai quali si fa partire il rinnovamento manierista bolognese.

    Concludono, per noi, ma in realtà aprono il vasto percorso all’ingresso della galleria le opere monumentali di Guido Reni (1575-1642), fra i maggiori artefici del Barocco emiliano e nazionale. Scelgo volutamente fra le meraviglie del secentista bolognese due tele che mi affascinano in maniera particolare. Commissionata dal cardinal Barberini quale dono per Enrichetta di Borbone, moglie del sovrano inglese Carlo I Stuart, la tela di Arianna (1639), allusiva della leggenda classica della fanciulla abbandonata da Teseo sull’isola di Nasso, è opera tarda del Reni, in realtà un frammento facente parte di un ciclo più vasto legato all’iniziazione di Arianna al culto di Bacco. Come giustamente spiega il pannello di corredo, l’opera fu recapitata alla regina ormai in esilio in Francia dopo lo scoppio della guerra civile inglese: ma presto la corona la vendette per sanare i debiti di guerra, pare con grande dispiacere di Enrichetta.

    Prima di congedarmi invitandovi a visitare la Pinacoteca nazionale di Bologna, ormai divenuto uno dei miei luoghi del cuore, vi lascio con un’opera altrettanto celebre di Guido Reni, più o meno coeva dell’Arianna: la Sibilla, dipinta fra 1635 e 1636. In questa piccola tela esposta nel corridoio che io chiamo delle pittrici (Artemisia, Lavinia Fontana, Elisabetta Sirani) la Sibilla, il cui capo è protetto dal tipico turbante pagano attribuitole nell’iconorafia classica, volge gli occhi al cielo in attesa della profezia che preannuncia la venuta di Cristo: un tema molto caro alla committenza privata dell’epoca. Lo abbiamo ritrovato anche a Varese nella sala settecentesca delle Sibille o Sala Veratti, il refettorio del Convento di Sant’Antonino, e in un certo qual senso anche in Guttushttps://lavocedivarese.blog/2025/07/16/se-un-viaggio-a-firenze-restituisce-frammenti-di-varese-a-villa-bardini-un-guttuso-inaspettato-evoca-estati-velatesi/o. A questo proposito, in extremis, vi svelo un segreto personale: ho ricevuto i complimenti della Fondazione Longhi per aver intuito in maniera prioritaria il probabile soggetto della Sibilla esposta nella recente mostra Villa Bardini. Ci sto lavorando.

    Guido Reni, Sibilla, 1635/36

    Leggi anche:

    La Madonna e la luna. Nel chiostrino di Sant’Antonino, una delle più belle e misteriose immagini sacre di Varese – La Voce di Varese

    Se un viaggio a Firenze restituisce frammenti di Varese. A Villa Bardini un Guttuso inaspettato evoca estati velatesi – La Voce di Varese

    La Voce di nero vestita sotto i portici delle Belle Arti in Bologna, nei pressi della Pinacoteca Nazionale.

  • Quando Maud voleva impacchettare Belforte

    Oggi, 26 luglio 2025, Varese piange la scomparsa di Maud Ceriotti (1938-2025), artista e intellettuale pioniera in quel della Città Giardino.

    Piange due volte, sia per la perdita della persona tanto gentile e creativa quanto riservata, sia per la notizia del lascito del suo archivio alla Biennale di Venezia, che sì, sarà una notizia importante per la valorizzazione della collezione Giaccari – nata dal sodalizio sponsale e culturale di Maud con il marito Luciano – ma vede nel concreto sfumare la possibilità di una permanenza della stessa in suolo nostrano in un periodo a dir poco cruciale per le sorti di Varese, da tanti punti di vista.

    Piango anch’io Maud, geniale icona di giornalismo culturale, modello e anima di tante battaglie, non ultima quella per il Castello di Belforte. Fui talmente folgorata della sua stravagante proposta, seguita al convegno della Società Storica Varesina, di impacchettare il maniero abbandonato a sé stesso in linea con le provocazioni dell’artista Christo che mi votai alla medesima causa. Ebbi infatti io l’onere – correva il maggio di dieci anni fa esatti, era il 2015 – e anche l’onore di ricamare sul comunicato stampa che aveva inviato alle redazioni: da quell’articolo per la Provincia non smisi più di occuparmi, prima come cronista, poi approfondendo sulle carte d’archivio in qualità di studiosa, dell’antico possedimento dei Biumi. Fui io nel novembre del 2017 ad organizzare il secondo convegno intorno alle sorti del castello.
    Forse per questo ci eravamo ritrovate, proprio in extremis, sebbene solo sui social. A febbraio ebbi una sua carezza in privato e le confidai la mia attuale indagine. Maud è stata una grande: rileggere quel messaggio oggi mi ha aperto nuove vie che non avevo inteso nell’immediato. E’ così che si riconoscono gli spiriti affini: in un colloquio che supera spazio e tempo. Ciao Maud. Grazie. Riguardo al Castello, vorrei dirti che farò di tutto per riaprire la causa, bloccata ormai dal febbraio 2022 quando i media locali – ma io fui avvisata direttamente dal primo cittadino – arrivarono i fondi ministeriali per il suo recupero: e vorrei, e questa è una richiesta che faccio direttamente al Sindaco Davide Galimberti, a cui indirizzo prioritariamente questa pagina, che in rispetto di coloro che ci avevano creduto, e ci credono ancora, si facesse quantomeno il punto della situazione da Palazzo.

    Io credo che a più di tre anni di distanza si abbia il diritto di sapere come stanno veramente le cose, in linea ufficiale, magari nel prossimo consiglio comunale utile dopo la pausa agostana.

  • Venti luglio. Confessioni un po’ petrarchesche, un po’ floreali

    Fiori, Giorgio Morandi, 1928

    E così anche per quest’anno siamo tornati al venti luglio, un giorno dell’anno per me estremamente carico di significato: il giorno in cui si rinnova il mio sentimento d’appartenenza ad una comunità umanistica e ad un colloquio antico e fondativo.

    Il Canzoniere nelle curatele di Alberto Chiari, che frequentò lungamente Varese e forse qui concepì il commento – a sinistra – e di Marco Santagata – a destra

    Nasce Francesco Petrarca, il 20 di luglio, ad Arezzo da genitori fiorentini “in exilio … die lune ad auroram”, come ci ricorda nella splendida epistola Posteritati, una lettera ad un immaginario lettore del futuro al quale il poeta disegna la propria autobiografia ideale: la prima in assoluto della letteratura italiana. Un autore per me estremamente importante, direi fondativo, che ho iniziato ad amare sin dai bambini del liceo e che ho ritrovato all’università appassionandomi al mirabile commento di Mario Santagata.
    Fondativo per tante ragioni. Primo, per la mia medesima ossessione nei confronti di Lauralaureaalloro e del tempo che fugge divorando le illusioni e le ambizioni terrene nella scrittura. Secondo, per la straordinaria bellezza della sua poesia e della sua parola, vertice di perfezione e musicalità che non ha eguali mai. Terzo, per l’amicizia fraterna con Boccaccio, che ospitò più volte nelle sue diverse dimore, in primis a Milano. Quarto, proprio per il suo essere il più profondamente milanese dei nostri poeti fondativi. Quinto, ma forse dovrei anticipare al primo posto, rovesciando la classifica – che poi non vuole assolutamente esser tale – il suo riconoscersi così umanamente frammentario, il suo ritrovarsi solo raccogliendo coscientemente la propria anima dai frammenti sparsi durante il faticoso cammino parallelo della vita e dell’attività intellettuale e scrittoria.

    Fiori, Giorgio Morandi, 1940

    Io sono una penna – nonché un’anima – che procede a frammenti.
    Non ho una visione olistica dell’attività letteraria: tutt’altro.
    Non è un caso se mi è tanto congeniale il lavoro “a pezzi”. Ecco perché ho coltivato il grande sogno del giornalismo sino ad ora: perché è un sogno terribilmente petrarchesco, dove ci si illude di fermare il tempo che fugge mettendolo nero su bianco in pagina, pezzo dopo pezzo, raccogliendolo per la via. Un paio d’anni fa avevo fatto un colloquio in un giornale locale, l’ultimo in Varese, proprio il 20 di luglio: m’illusero che m’avrebbero presa a settembre, poi non se ne fece più niente. Ci rimasi molto male, anche perché mi voltarono le spalle persone che pensavo sincere, fra cui l’allora mia amica del cuore. Non mi persi però d’animo: avevo un piano B e lo stavo perseguendo da qualche tempo, sostenuta dagli affetti più cari fra cui qualche amico che quotidianamente mi incoraggia. Difatti, pochi mesi dopo, a dicembre, mi presentai a sostener un esame di letteratura italiana che da ragazza non avevo mai voluto affrontare, a non troppa distanza dalla laurea e con una carriera di esami brillante, perché ad un appello non mi sentivo pronta e avevo preferito non rispondere: da lì mi si bloccò tutto e non ripresi più.
    Insomma, per tornare al dicembre di due anni or sono, decisi di affrontare un colloquio ben più impegnativo che con qualsiasi direttore di giornale: un colloquio con i classici per farmi giudicare direttamente da loro. Lo scritto andò a gonfie vele, e ovviamente, me l’ero sentito, mi ritrovai in un’aula in Santa Sofia a scrivere vorticosamente di Petrarca; l’orale, a gennaio, sul Decamerone ribadì il concetto: per la materia ero decisamente vocata e così da allora le mie giornate le sono consacrate ancora più di prima. Una confessione quasi agostiniana e non troppo umile, che faccio per la prima volta al mio lettore, quasi vergognandomi perché alla mia età, si sa, dovrei esser impegnata a scrivere delle sorti del mondo, non di come vinsi il dispiacere di non esser ritenuta degna nella città che per tanti anni avevo raccontato con la passione in corpo e forse con qualche merito, disconosciuto all’indomani immediato della chiusura del mio povero giornale, forse solo perché avevo già superato i quarant’anni, forse perché con sei figli (ormai grandi) che metto sempre orgogliosamente in testa al curriculum, non per vantarmi ma perché sono la mia forza e non certo il mio ostacolo; forse perché nell’immaginario collettivo, diciamocela tutta, non ho bisogno di lavorare. Già: bisogno materiale magari no, sinceramente parlando, ma a livello spirituale quanto mi è stato d’aiuto essere parte viva e operativa d’un giornale, non lo dimenticherò né rinnegherò mai.

    La sestina XXX dei Rerum Vulgarium Fragmenta

    Dimenticavo. Sei, il numero di Laura, il numero venerabile del Canzoniere.
    Non l’ho mai scritto: mio marito si chiama Francesco.
    Il mio primo figlio è nato il 6 di aprile, come il giorno fatale in cui Petrarca vide Laura per la prima volta ad Avignone; come il giorno in cui ricevette la laurea romana; come il giorno in cui Laura morì; come il risultato della somma di 366, il numero dei componimenti del Canzoniere, ossia 15 le cui cifre sommate danno ancora 6. Come la sestina ossessiva (per loro natura le sestine, d’ispirazione provenzale, lo sono) che adoro, la trenta dei Fragmenta, in cui per la prima volta nel liber compare – ossessivamente – il tema del tempo che vola e del lauro perduto.

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    Fiori, Giorgio Morandi, 1943, Olio su tela

    Il venti di luglio è anche il giorno natale di Giorgio Morandi, un grande pittore che nell’ultimo anno sto imparando ad amare assieme al mio compagno di viaggi numerosi e d’avventure, mio marito. Lo abbiamo ammirato variamente dapprima a Villa Magnani a Mamiano, la scorsa primavera; poi a Milano al Museo del Novecento; infine a villa Bardini a Firenze pochi giorni fa. Morandi, coetaneo di Roberto Longhi, fu suo grande amico. Settimana prossima saremo di nuovo a Bologna dopo il viaggio di inizio giugno ed ho già messo in preventivo una visita alla sua casa natale e alla fondazione che ce ne restituisce molta opera.
    Morandi è il pittore delle piccole cose, delle nature morte nella semplicità domestica; e sommamente, per me, dei fiori. E così, dalla prospettiva umile dei suoi fiori mi congedo anche questa sera e vi do appuntamento alla prossima storia, sempre che vi faccia piacere seguirmi ancora, così come a me fa piacere il raccontare.

    (Post scriptum. Oggi, 20 luglio si conclude anche la mostra fiorentina di Villa Bardini)

    Leggi anche: Luce, la Bambina coi Fiori, è tornata a casa al castello di Masnago per il compleanno di papà Giacomo Balla – La Voce di Varese

    Se un viaggio a Firenze restituisce frammenti di Varese. A Villa Bardini un Guttuso inaspettato evoca estati velatesi – La Voce di Varese






  • Luce, la Bambina coi Fiori, è tornata a casa al castello di Masnago per il compleanno di papà Giacomo Balla

    La Voce con la Bambina coi Fiori in versione smart, il 6 di luglio,al Museo di Masnago. quando al suo posto, mentre era ancora in partenza da Flora, c’era una riproduzione

    Varese, 18 luglio 2025, venerdì mattina. Calda, non troppo, un po’ malinconica. Troppo.

    Pronto, Laura? Ciao, come stai? Volevo dirti che sono tornata a casa!

    La vocina infantile al cellulare è inconfondibile.

    E’ lei, la Bambina coi Fiori. E’ davvero una gioia sentirla, così cristallina, festosa… luminosa. Uno squarcio di luce in una giornata che si preannunciava, se non di nubi all’orizzonte, quantomeno di fermo del cuore.

    La Bambina coi Fiori, 1902 circa, Giacomo Balla, Collezione dei Musei Civici di Varese, attualmente esposta al Museo di Masnago.

    Chiamo per conferma il Museo di Masnago: è tornata davvero, sorridono, ben conoscendo la mia bella amicizia con il capolavoro di Giacomo Balla (1871 – 1958): un’opera del periodo divisionista, che ritrae la figlia primogenita del grande artista torinese nato il 18 luglio del 1871 in una posa gentile mentre, con sguardo sgranato sull’osservatore, avvolta in una vestina celeste e protetta da un cappellino di paglia troppo grande per lei, serra al petto un bellissimo mazzo di fiori campestri, quasi nel timore che glieli si voglia portar via.

    Mi ha fatto una bellissima sorpresa, Luce – questo il nome della piccola, e anche il sottotitolo dell’opera con cui in ambito artistico affettuosamente le si allude. Qualche giorno fa, prima di partire per Firenze, ero stata a Masnago per salutarne il ritorno da Mamiano, ma non era ancora arrivata a destinazione e sinceramente mi ero preoccupata: che stia così bene sui colli verdiani da non voler più rincasare?

    La Bambina coi Fiori nell’esposizione parmigiana di Flora accanto a Mattino di Primavera di Umberto Moggioli, 1918, proveniente dal Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, e a Il pesco fiorito di Baldassarre Longoni, 1914, Musei Civici di Verona

    E invece per fortuna mi sbagliavo. Sì, hai visto anche tu quando sei venuta a trovarmi: alla Fondazione Magnani mi hanno trattato come una principessa nel suo regno di fiori e giardini. Mi sembrava un sogno poter viaggiare, dopo tanto tempo in cui ero stata rinchiusa nel mio bel castello. E però, come sai bene anche tu, si viaggia per ritrovar sé stessi, per andare alla ricerca di qualcosa che abbiamo perduto: ed è bello rientrare arricchiti di esperienze e di nuove narrazioni.

    La Voce con Luce il 16 marzo 2025 in apertura di Flora

    Sei stata in buona compagnia, con tante altre splendide opere – le rispondo. Certo, fa eco lei: e poi ero così felice di aver fatto amicizia con quella signora dai capelli ramati che ti somigliava tanto, che il mio papà aveva ritratta fra i due paesaggi… e poi correre con lei a perdifiato nei giardini incantati di Previati, Segantini, Boccioni, e raccontarci tante storie di fiori e di primavera!

    Luce sa sempre come catturarmi il cuore.

    Modella fra due paesaggi, Giacomo Balla, 1905, esposta a Flora in gentile colloquio con la Bambina coi Fiori

    Così, nel giorno del compleanno del suo papà, che cade proprio oggi, la piccola Luce è tornata a casa dopo tre mesi di lunga vacanza emiliana, rinnovata e felice del successo e dell’ammirazione raccolti alla rassegna espositiva “Flora. L’incanto dei fiori nell’arte”, apertasi il 15 marzo scorso e chiusasi il 29 di giugno: e la Bambina coi Fiori, che si riuniva a tante altre opere del primo motore del Futurismo1, era stata scelta proprio come testimonial dei fiori e della Primavera nell’arte di Varese.

    Giacomo Balla, Balfiori, 1915 circa, Collage di carte colorate, Monza, Galleria privata (recentemente esposto a Flora)
    Giacomo Balla, Fiore futurista, 1920, proveniente dal Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto (recentemente esposto a Flora)

    Molto bene, cara Luce! Salutami tanto il papà. Mi ha offerto un ottimo caffè alla Galleria degli Uffizi, pochi giorni or sono. Sì – risponde lei congedandosi con un trillo di voce: mi ha raccontato ed era contento che fossimo diventate amiche. E’ stato lui a riaccompagnarmi a Masnago: sai, ha tanti impegni, fra una mostra e l’altra, e così è già ripartito per la vostra, la nostra amata Milano… sta ripartendo la sala del Futurismo che avevi trovata chiusa qualche settimana fa.

    La tenera compagnia infantile di Luce al Castello di Masnago, fra cui spiccano opere di Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni
    Dianella o Rosazzurra, Gilda Pansiotti D’Amico, anni Trenta, sala dei Bambini, Castello di Masnago

    Ora ti lascio tranquilla a raccontare l’avventura ai tuoi piccoli amici della Sala masnaghese dove sei tornata, tesoro: a Margherita Villa, alla Signorina F e a tanti altri bambini il cui sorriso è stato immortalato dai pittori perché rimanesse eterno. E’ stato davvero un piacere seguirti, piccola messaggera di grazia e bellezza varesine. Chissà che non si possa organizzare una bella festa collettiva in vostro onore, prima o poi.

    Giacomo Balla, Autocaffè. Autoritratto, 1928 – Galleria degli uffizi, Firenze
    La Voce con Autocaffè di Giacomo Balla

    Per l’appuntamento al museo di Masnago con la Bambina coi Fiori la Voce indossa un magnifico abito floreale – ça va sans diredelle collezioni di Clarissa Indelicato – Indelicatissimo, via Garibaldi, Ferrara

    1. Giacomo Balla firma nel 1910 il Manifesto tecnico della pittura futurista, pur aderendo fattivamente al movimento solo due anni dopo. ↩︎

    Leggi anche:

    A Santa Lucia la piccola “Luce di Masnago” diventa “testimonial” di Varese – La Voce di Varese

    La Bambina coi Fiori di Giacomo Balla ospite a Flora, Mamiano di Traversetolo – La Voce di Varese

    Una domenica pomeriggio al museo del Novecento, fra sale chiuse (futuristi) e sale aperte (e temperature tropicali). – La Voce di Varese

  • Se un viaggio a Firenze restituisce frammenti di Varese. A Villa Bardini un Guttuso inaspettato evoca estati velatesi

    La Sibilla di Renato Guttuso (1960)

    Quando vi salutavo, qualche giorno fa, paragonando l’Immacolata del convento di Sant’Antonino alle Sibille magattiane di Sala Veratti, tutto mi sarei aspettata tranne che di imbattermi, nel mio viaggio fiorentino, di nuovo su di una Sibilla forse concepita in quel di Varese oltre due secoli dopo.

    Eppure, fra le opere esposte a Villa Bardini nella mostra “Il Caravaggio – Anna Banti e Roberto Longhi” a cura della Fondazione Longhi (che si è promessa di sciogliermi presto il dubbio), vi è proprio una straordinaria Sibilla uscita dall’ardente tavolozza di Renato Guttuso, datata 1960.
    Un’opera magnifica e magnetica, dedicata forse a Sibilla Aleramo, mancata proprio quell’anno. Ripeto volutamente, ed enfaticamente
    l’avverbio prediletto da Leopardi, a sottolineare le infinite possibilità che quel forse ci apre: per quanto mi riguarda, per certo, di segni che costantemente rintraccio nel mio cammino e nei viaggi che, lungi dal condurmi in fuga da me stessa, mi riportano al contrario su strade che devo di volta in volta percorrere per ritrovarmi.

    Anna Banti, 1932, fotografata da Ghitta Carell

    Ci tenevo moltissimo ad inseguire il duplice mio mito personale di Anna Banti e Roberto Longhi nell’esposizione suddetta: si può dire che io sia salita per la ripida Costa san Giorgio – scortata dal mio gentile consorte, giacché come Anna e Longhi facciamo coppia fissa nella vita e nel pensiero -, di luglio e per giunta in una domenica di temporale, come se stessi volando con ali di libellula. Per la medesima via si incrocia l’antica caserma che fu ospizio degli allievi ufficiali di complemento dell’esercito italiano fino a pochi anni or sono, e anche per questo il mio buon marito, essendo stato in gioventù della partita, non si è certo sottratto all’appuntamento con la memoria e con l’arte, di cui del resto avevamo fatto ampia scorpacciata agli Uffizi la giornata precedente (ma di questo vi racconterò separatamente, e anche qui, lo preannuncio, qualcosa di varesino ci sarà).

    Costa San Giorgio; in alto la Fondazione Longhi, a destra la casa di Galileo
    Firenze vista da Villa Bardini

    Le sale espositive della splendida villa fiorentina sono prestate sino al prossimo 20 luglio, data che chiuderà la mostra, alle opere della Fondazione, intrecciate alla storia del sodalizio coniugale e professionale di Anna Banti (1895-1985) – pseudonimo di Lucia Lopresti, la sublime scrittrice di Artemisia (1947) e del Coraggio delle Donne – e del sommo critico d’arte Roberto Longhi – fondatori nel 1950 fra l’altro della longeva rivista culturale Paragone, che gode tutt’ora d’ottima salute.

    Ennio Morlotti, Estate, 1946

    Un sodalizio che si apre nel tempo ad un colloquio fecondissimo con numerose voci del panorama letterario, critico, artistico italiano del Novecento, molte delle quali presenti nell’itinerario di visita, dal già citato Guttuso a Giorgio Morandi, De Pisis, Carrà, Adriana Pincherle e tanti altri, avviandosi però sotto l’egida del grande colpo di genio giovanile di Longhi: la riscoperta di Caravaggio, di cui in mostra è esposto il celeberrimo Ragazzo morso dal ramarro (1597 circa), eco capriccioso del Bacco degli Uffizi e della Medusa (vi assicuro che ammirarli tutti dal vero nel giro di poche ore è esperienza umanamente devastante: una tabula rasa, una renovatio animae da cui ci si riprende a fatica, né io sono ancora riuscita completamente a farlo).

    Ragazzo morso da un ramarro, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, 1597 circa

    Un gentile percorso monotematico accarezza il visitatore nei numerosi quadri dedicati ai fiori di Morandi, fiori che percorrono la produzione intatti quasi a sfidare l’avidità del tempo.

    Giorgio Morandi, Fiori, 1951

    E in un solare tempo indefinito si fissano anche le tinte di diverse opere, fra cui appunto quelle dell’enigmatica Sibilla di Guttuso, e non solo.

    La Voce e la Sibilla di Guttuso

    Altro capolavoro del maestro di Bagheria esposto è, infatti, il crepuscolare Peperoni, giornali e case di notte, del 1961, che ci restituisce frammenti d’estate in notturna attraverso una natura morta decisamente non convenzionale. Detto fra noi, per me giornalista d’estrazione cultural gastronomica e adorante la divinità duplice dei peperoni e della tavolozza di Guttuso, quest’opera rappresenta l’archetipo estetico, in specie dopo aver appreso dalla mia cara Serena Contini che diverse opere preparatorie alla Vucciria o il mercato di Palermo, notoriamente dipinta a Velate, rappresentavano proprio… dei peperoni.

    Renato Guttuso, Peperoni, giornali e case di notte, 1961

    E’ o non è quest’opera che mi ha scosso il cuore, una veduta velatese del Maestro? Ad oggi non abbiamo ancora risolto l’arcano. Dalla Fondazione Longhi, da me contattata via mail subito dopo aver ricevuto la dritta di Serena (“Le opere velatesi recano una V maiuscola sul verso”), mi si promette di indagare. Anche la Sibilla meriterà qualche spiegazione ulteriore: di certo la collaborazione di Guttuso con Aleramo è nota quantomeno sin dalla raccolta Aiutatemi a dire che la poetessa pubblica nel ’48 proprio con illustrazioni dell’artista siciliano, non certo nuovo ad istoriare materiale narrativo e poetico (si ricordino almeno il Decamerone e la Commedia da lui illustrati).

    Leonetta Cecchi Pieraccini, Ritratto di Roberto Longhi, 1928

    Adriana Pincherle, Ritratto di Anna Banti, 1955

    Concludo con le parole ammirate di Gianfranco Contini intorno ad Anna Banti:

    Era stata molto bella e aveva mantenuto un portamento regale. Aveva avuto dei capelli rossi di un’attrazione, penso, straordinaria.


    Cara Anna, ti ho cercata per tanto tempo.

    (In questo viaggio fra le opere di Villa Bardini la Voce veste Maryan Mehlhorn, grazie alla consulenza della gentile Cristina di Bon Ton Due, Vicolo San Martino, Varese)