
Ha chiuso oggi, 19 gennaio 2025, l’allestimento “Virtuose relazioni” curato da Serena Contini nelle sale al piano inferiore del Castello di Masnago: un percorso intorno al colloquio prezioso fra tre protagonisti del Novecento pittorico che hanno impregnato di sé un’importante stagione culturale varesino: Enrico Baj (1924-2003), Vittorio Tavernari (1919-1987) e Renato Guttuso (1911-1987), il “fratello maggiore” del trio.

Avevo già visitato la mostra in ottobre, e già allora l’avevo trovata interessante, sotto alcuni aspetti decisamente curiosa dal momento che l’arte moderna mi è meno familiare di quella classica. Senza nulla togliere agli altri autori, ho preferito di gran lunga le opere di Guttuso, che conoscevo dal precedente allestimento precovidiano di Villa Mirabello. (Se devo essere sincera fino in fondo, il mio Tavernari prediletto rimane il Totem, ma non quello ligneo che si trova all’ingresso del museo di Masnago: il suo gemello bronzeo di via Albuzzi, del quale già avevo scritto su questi lidi nel giugno del ’22 1).

Questa mattina, però, ho avvertito il desiderio di tornare a salutare Guttuso. Intendiamoci: non siamo mai andati troppo d’accordo, benché abbia sentito parlare sin da bambina quando in casa giravano pittori e cataloghi d’arte, essendo mia madre pittrice e figlia a sua volta di un pittore. Di lui particolarmente non mi è mai piaciuta la trasposizione della Fuga in Egitto alla terza cappella, forse perché la storia del Nuvolone cancellato tout court, per me che ho un animo sostanzialmente filologico, mi rattrista; ma deve aver pesato anche, e fortemente, sul giudizio personale il fatto di aver scoperto che mio nonno, restauratore di Madonne in quel di Pagazzano nel Trevigliese, era stato a bottega da quel Poloni che per primo mise mano all’affresco un centinaio d’anni fa.
In ogni caso, non sono il tipo da giudicare un artista per una sola sua opera, o impresa che dir si voglia. Negli anni recenti, ammetto di aver avuto in un ritorno di fiamma una sorta di attrazione fatale per Guttuso, che – se lo ricordano in pochi – fra parentesi era stato chiamato anche ad istoriare una Commedia. E così, per passare alla pars construens del racconto, questa mattina volevo rivedere l’ultima volta le opere che più mi avevano emozionato, in primis la Natura Morta con barattoli del Sessantasei, una sorta di biglietto da visita del pittore di origine siciliana che visse a lungo a Velate (dove è sepolta per inciso nel mausoleo di famiglia la moglie Mimise, a poca distanza dalla scrittrice Liala e dalla mia nonna materna).
Ben lungi dall’essere una natura morta qualsiasi, la tela raffigura una sorta di allegorica scatola degli attrezzi: Guttuso ci fa insomma entrare nella sua officina personale, fatta di lavoro pesante, di caffè, di colori, di acqua, olii e trementina.
Non manca una bottiglia di vino: ci mancherebbe altro, da un gaudente come lui.

Come non soffermarsi poi ancora una volta di fronte al Gineceo? Ho sempre amato quest’opera straordinaria, provocante, trasgressiva, boccaccesca, in cui i colori accesi fanno da contrasto ai volti estenuati, quasi inespressivi delle donne raffigurate. Non credo alla comune, e un po’ bigotta, idea di un Guttuso che volesse rappresentare la donna oggetto tout court in una scena di promiscuità erotica. Suggerita dalla frutta sul tavolino in primo piano, torna nel capolavoro guttusiano l’idea di natura morta alla maniera del dipinto poco più sopra citato, come se la donna facesse parte di diritto della sua personale officina, come se avesse voluto affastellare in un’opera la quintessenza dell’elemento muliebre, che per l’auctor rappresenta la gioia, il sesso, la bellezza nella disarmonia di corpi dalla bellezza quotidiana ma non scontata. Al freddo delle calze e delle vesti delle due figure predominanti si contrappone il calore che scende dalle figure in alto, in cui spicca per ben tre volte la sua musa Marta Marzotto, replicata in bianco più sotto: il nero ventilatore posto accanto alle frutte pare voler raffreddare i vari strati della scena, senza del tutto riuscirci, e di fatto è quanto di più letterario Guttuso potesse introdurre, sotto forma simbolica, in un suo lavoro: la donna allegoricamente rappresentata in tutte le sue dimensioni, dalla più ingenuamente erotica a quella più consapevolmente sensuale, attraverso un filtro voyeuristico quasi sacralizzante, che la espone ai vari venti della passione, come una Alatiel boccacciana. Ebbene sì, caro Lettore: Tu giudichi Guttuso dalla sua tessera politica (innegabile l’avesse, ci mancherebbe), io dalla sua cultura, dal suo colloquio con i classici, con chi lo ha preceduto nella sua arte e nell’arte in generale. Non sto a farti la lezioncina, ma prova a leggere cosa scrive per difendersi Boccaccio dalle accuse di sconcezza2 nella Conclusione del Decameròn, e poi probabilmente mi darai ragione.

Ma arriviamo a lei, a Marta, in colloquio con sé stessa o meglio le sue molteplici anime ritratte nel Gineceo, cui è posta accanto. Il ritratto della celeberrima nobildonna (di natali umili) e mecenate è disarmante: stupenda nella sua nudità sfrontata e serafica, di una serenità che la attualizza oltre il tempo: sono passati quarant’anni da quando posò l’ultima volta per il suo Renato, e ancora ci parla, ci racconta di quell’amore, anzi dell’amore. Di più: dell’eterno femminino. Da quest’opera non mi separerei davvero mai.

Concludo il percorso con il Chiaro di luna del 1986, dove ritorna il motivo della donna inespressiva: ma il foglio che la figura superiore sta leggendo alla compagna racchiude un colloquio muliebre che al pittore è evidentemente sconosciuto. E’ il tema dell’ineffabilità dell’animo femminile interpretato mirabilmente dal Maestro di Bagheria nell’ultimo scorcio della sua intensa vita.
Ma il segno preannunciato dal titolo, ti starai chiedendo, Lettore, dove sta?
Non so se è il caso di dirtelo, ma probabilmente devo. Allora, devi sapere che l’allestimento è contiguo alla Sala dei Vizi e delle Virtù, nella quale sono passata a salutare la mia cara Amica Maria Lampugnani nelle vesti dell’Accidia. Bene, uscita dalla sala, ripercorrendo quelle di Guttuso per salire in Pinacoteca, improvvisamente mi trovo per terra lunga e distesa come un salame, dopo aver inciampato in un gradino: mi salva essermi girata prima dell’atterraggio sulla, eh, chiappa destra, attutendo decisamente il colpo.
Mio marito, che è con me, mi aiuta a rialzarmi e sorride sotto i baffi. “Sai – mi dice ammiccante – ho fatto i conti: la Marzotto in quel ritratto aveva la tua età”.
Tornata a casa e ripensando al fatto, ancora un poco dolorante, mi pare che il segno di Guttuso sia stato abbastanza inequivocabile.
Morale della favola: a cinquantaquattro anni, lungi dall’esser sul viale del tramonto (si sa che ad una certa le donne entrano un po’ in crisi…), non solo posso finalmente permettermi di chiacchierare con la sua opera, ma addirittura di essere ammessa nel suo ideale gineceo. In buona sostanza, con una bella pacca sul sedere, e una sonora risata, la scrivente e Guttuso hanno fatto definitivamente pace, anzi di più: sodalizio intellettuale.
(Post scriptum. Avrò fatto arricciare il pelo a qualche spigolistra donna, ma, come dire: io può).
(la storia prosegue).
Castello di Masnago, Varese.
Per info: http://www.museivarese.it
- Per la storia dei due Totem, vedi la pagina ufficiale Rinasce il Totem di Tavernari – Musei Civici di Varese ↩︎
- “troppa licenzia usata”, nel Decameron ↩︎