
2 novembre 2025 Domenica
Non sento particolarmente mia la ricorrenza dedicata ai defunti. Ciononostante ho deciso di riservarle qualche riga, riaprendo dopo alcune settimane di vuoto queste pagine su cui forse il lettore avrà già recitato frettolosamente un requiem. E invece, sorpresa, stiamo rinascendo dalle nostre ceneri, anche se occorrerà pazientare ancora un poco per la versione 2.0 della Voce: ma ne varrà la pena. Fidatevi.
Intendiamoci: credo sia sacrosanto che chi ci ha preceduto nel pellegrinare lasciandoci il fardello oneroso del testimone nell’esilio riceva omaggio alla sua povera croce terrena: sono a modo mio cattolica e praticante, vale a dire con un certo timore reverenziale per alcune questioni che qui non sto a discutere perché non è il caso e per le feste comandate che sento come vincolanti ad un mio sentimento personalissimo del tempo e del calendario. Siamo evidentemente croci in cammino, ovunque ci troviamo, in dolorosa cerca della patria eterna: e però sono stata programmata per aver coscienza quotidiana di questo dolore, sicché coi morti parlo più che coi vivi, da sempre; perciò non mi servirebbe, non fosse da calendario condiviso, appunto, consacrare loro un giorno all’anno, o un triduum – comprendendo anche il vespero delle lumere, una tantum, per prender consapevolezza della condizione umana. Ne ho sin troppa, di consapevolezza, che m’intride le ossa che lascerò, prima o poi, inevitabilmente come tutti, ad una croce finalmente radicata in terra.
Complice una propensione di famiglia al lutto, purtroppo anche infantile, il mio colloquio con i defunti nasce sin da quando, piccolissima, persi un fratello vissuto poche ore, senza mai poterlo conoscere nemmeno per un minuto. Mio padre, che presto lo avrebbe raggiunto, mi portava spesso sulla sua tomba, a Musocco, dove avevamo un percorso di memoria settimanale da compiere: ma per me arrivare al sabato mattina in treno a Milano, e poi salire sul tram, e infine varcare la soglia di quell’enorme giardino fatto di viali e controviali, dove proseguiva la corsa l’autobus tanto era enorme, era quasi un gioco, anzi senza nemmeno il quasi. Andavamo così, passeggiando mano nella mano canticchiando, o raccontandoci storie, di tomba in tomba, spesso soffermandoci su qualche nome curioso nel tragitto, nome che esulava dal nostro orticello concluso parentale, e fantasticavamo sulle relazioni ipotetiche fra i defunti che forse mai si erano conosciuti in vita, ma che ora erano accomunati da condizioni di vicinato in un medesimo campo, in un medesimo corridoio.
Chissà il mio fratellino chi aveva scelto come confidente fra tutti i suoi vicini di postazione, mi chiedevo e anzi gli chiedevo, quando parlavo a tu per tu con il piccolo angelo di bronzo che i miei genitori avevano scelto per ricordarlo: perché io credevo veramente che quella statuina fosse mio fratello, avendone assunto le sembianze umane. Mi chiedevo anzi il perché ci fossero tombe senza statue, giacché per me nelle sculture mortuarie erano intrappolate le anime dei trapassati: e se non c’era una statua, almeno doveva esserci un albero, in cui si erano in qualche modo metamorfizzati. Avrei capito molto più tardi che il segno terreno di quelle vite ormai avviate nell’altrove, il loro simulacro, era abbastanza contenuto nelle loro croci.
Non la faccio lunga. Da anni, occupandomi ovviamente anche dell’oggi, scrivo storie intorno a personaggi che quest’oggi ha obliato: il più delle volte l’indagine cimiteriale si rende necessaria, sul posto e negli archivi. Per l’ultimo personaggio che ho consegnato alle stampe, la cui storia sarà fruibile dal prossimo dicembre, ho trascorso diversi mesi a studiare il suo spiccato amore per il tema funebre, alimentato da una costellazione di lutti occorsi in un tempo ancor giovanile della sua vita, lutti ai quali sublimò la sua vocazione di amministratore umile e visionario ad un tempo: basti pensare che a lui dobbiamo l’intuizione dell’opportunità della maggior necropoli varesina e della sua effettiva concretizzazione. Un personaggio straordinario, che mi è rimasto nelle viscere sin da quando ne ho intuito la bellezza, del quale mi è stato di enorme fatica riuscire a trovarne una fotografia, non dico una statua, benché fosse in contatto con i migliori scultori locali, a cui aveva affidato l’effige funeraria dei suoi affetti più cari.
Ecco. In questo senso, umilmente, serenamente non ho bisogno di un solo giorno per dedicarmi al culto dei morti: perché ne ho fatto un culto scrittorio quotidiano, professionale e intimo ad un tempo, e non certo vuoto, o ipocrita o di circostanza, non nel senso che tutti i giorni scrivo di morti o di lapidi ma perché scrivere per me è ritrovare ogni volta il colloquio con quel mio fratellino perduto, con le ragioni che mi legano a ciò che manca, riportandomi in armonia con la mia parte oscura, che mi trascina verso l’abisso, in equilibrio precario ma ripetutamente sincero, nella dimensione dell’anima che qualcuno – sempre stupenda la voce di Migliorini a riguardo, consiglio di intercettarla ai lettori di queste righe – osa ancora, letterariamente, definire con il termine di nostalgia. Sembrerà surreale ma scrivere, per me, è un po’ come camminare ancora mano nella mano con mio padre per quei viali e vialetti di Musocco parlando con le statue, con gli alberi, i fiori marcescenti nei vasi e perfino con i sassi, che dovevano pur aver la capacità di intendere anche loro, e custodire una scintilla vitale, o il segreto stesso della vita e della morte. Chissà.
Doppio poscritto.
Il titolo è volutamente fuorviante, o meglio pensavo davvero che avrei scritto de Il cimitero campestre di Felicita Morandi, poetessa, scrittrice ed educatrice varesina celeberrima per la fondazione delle milanesi Stelline, ma poi la testa mi ha portato altrove. In ogni caso il carme è reperibile al link *Poesie educative – Google Books
Circa la fotografia che ho scelto, è un piccolo omaggio ad una bambina vissuta il breve spazio di poche ore, a dispetto dell’epitaffio recato dalla lapide, che apparteneva al vecchio cimitero monumentale di Giubiano, quello dell’attuale piazzale Kennedy. Ad Emilia M., affettuosamente, che è legata alla storia che ho narrato, qui e altrove.