
Ha fatto notizia ad inizio luglio la riapertura, dopo alcuni mesi di riallestimento finanziato in larga parte dai fondi PNNR, della Galleria Carracci alla Pinacoteca di Bologna.
Le sale, poste nel cuore pulsante della nutrita pinacoteca, sistemate ed efficientate, sono un grandioso giardino narrativo in cui trascorrere del tempo a disposizione per l’arte e per la cura del proprio sentimento estetico. Ci sono stata la scorsa settimana, complice un novello viaggio bolognese assieme al mio gentile consorte, impegnato nei suoi affari. A me, come sempre, il compito di celebrare le sacre devozioni culturali e di scriverne. Essendoci stata già all’inizio di giugno, in una visita abbastanza approfondita, ho disatteso i convenevoli col resto della collezione (pur tornando a chiacchierare con l’Artemisia un po’ al volo per riferirle del viaggio fiorentino) e mi sono concentrata proprio sulla sezione riaperta da una manciata di giorni.

Non me ne sono pentita, amando particolarmente anche in letteratura il periodo: la Scuola dal programmatico nome degli Incamminati (che non poteva non affascinarmi!), dei Carracci – i cugini Ludovico, Agostino e Annibale – fondata nel 1582 è considerata l’apripista del Seicento bolognese, artefice del rinnovamento pittorico del nuovo secolo.
Detta anche Bottega o Scuola dei Desiderosi, l’accademia dei Carracci sforna opere grandiose, parecchie delle quali pale d’altare sotto augusta committenza, e rappresenta storie sacre attraverso le immagini, suddivise in porzioni narrative nette e facilmente fruibili dal popolo del clima della Controriforma.

Fra le opere dei Carracci esposte mi è entrata nel cuore il magnifico Martirio della vergine Orsola, di Ludovico Carracci, il caposcuola, particolarmente efficace nel contrasto di luci ed ombre (che preannunciano i modi secenteschi) e denso di pathos. La leggenda narra che la principessa cristiana Orsola, di ritorno da un pellegrinaggio a Roma intrapreso dopo esser stata chiesta in moglie dal principe inglese Conan, di religione celtica, subì il martirio intorno all’anno 385 con undicimila vergini nei pressi della città di Colonia ad opera degli Unni. Se il martirologio cristiano la celebra il 21 ottobre, la sua presenza al contrario non è registrata nel calendario romano, a causa delle controverse interpretazioni sulla vicenda che riguarda la santa, il cui culto è comunque autorizzato dalla Chiesa, e che rimandano all’archetipo della viaggiatrice. Una storia stupenda, quella di Orsola, narrata a più riprese dalla Passio del X secolo e da fonti anche molto contrastanti fra di loro, a partire dall’Historia Regum Britanniae, il primo scritto in assoluto ove si menzioni il personaggio di Re Artù: in pratica la prima eroina letteraria cristiana legata alla quête, all’inchiesta, ossia la recherche dei romanzi cavallereschi. Una santa moderna e veneratissima, non a caso iconica protettrice delle figure educative, cui fanno riferimento anche le Orsoline, congregazione fondata da Angela Merici, dall’Ottocento confluite nell’ordine francescano ma inizialmente sciolte dal voto, nonostante la professione virginale.
Torna sant’Orsola nella piccola ma splendida pala di Lavinia Fontana che rappresenta l’Apparizione della Vergine fra le sante Caterina d’Alessandria, Margherita, Agnese, Orsola e Barbara, firmata e datata 1601. In essa, forse proprio in sant’Orsola – seconda a destra dopo Barbara – si celerebbe l’autoritratto della pittrice bolognese (1552-1614), cui è dedicata la sezione che troneggia nella sala: omaggio doveroso alla caposcuola del Manierismo pittorico femminile di cui si conserva un minuscolo autoritratto, un olio su rame, datato 1579 anche nella galleria dedicata ai progenitori dei “selfie” d’artista agli Uffizi: l’ho fotografato nel mio recente viaggio fiorentino per voi. Vi assicuro che è proprio piccolo: misura infatti 15,7 x 15, 7 cm!




Visto che scrivo nel giorno natale di Giorgio Vasari (Arezzo, 30 luglio 1511- Firenze, 27 giugno 1574) non potrei dimenticarmi di omaggiare il padre della storia e della critica d’arte molto ben rappresentato in Galleria. Giustamente, di fronte alle sue imponenti tavole – Gesù in casa di Marta e Maria e Cena di San Gregorio Magno – si è disposto un comodo divano pouf (e ve ne sono diversi altri lungo il percorso, così come in pinacoteca) dove potersi fermare il tempo desiderato. Trovo questa strategia d’allestimento rispettosa dei tempi personali della contemplazione e molto intelligente. Le due opere facevano parte di un ciclo pittorico più ampio commissionato nel 1539 e destinato al monastero degli Olivetani dedicato a san Michele in Bosco, dove Vasari è attivo nel biennio 1539/40, a partire dai quali si fa partire il rinnovamento manierista bolognese.

Concludono, per noi, ma in realtà aprono il vasto percorso all’ingresso della galleria le opere monumentali di Guido Reni (1575-1642), fra i maggiori artefici del Barocco emiliano e nazionale. Scelgo volutamente fra le meraviglie del secentista bolognese due tele che mi affascinano in maniera particolare. Commissionata dal cardinal Barberini quale dono per Enrichetta di Borbone, moglie del sovrano inglese Carlo I Stuart, la tela di Arianna (1639), allusiva della leggenda classica della fanciulla abbandonata da Teseo sull’isola di Nasso, è opera tarda del Reni, in realtà un frammento facente parte di un ciclo più vasto legato all’iniziazione di Arianna al culto di Bacco. Come giustamente spiega il pannello di corredo, l’opera fu recapitata alla regina ormai in esilio in Francia dopo lo scoppio della guerra civile inglese: ma presto la corona la vendette per sanare i debiti di guerra, pare con grande dispiacere di Enrichetta.

Prima di congedarmi invitandovi a visitare la Pinacoteca nazionale di Bologna, ormai divenuto uno dei miei luoghi del cuore, vi lascio con un’opera altrettanto celebre di Guido Reni, più o meno coeva dell’Arianna: la Sibilla, dipinta fra 1635 e 1636. In questa piccola tela esposta nel corridoio che io chiamo delle pittrici (Artemisia, Lavinia Fontana, Elisabetta Sirani) la Sibilla, il cui capo è protetto dal tipico turbante pagano attribuitole nell’iconorafia classica, volge gli occhi al cielo in attesa della profezia che preannuncia la venuta di Cristo: un tema molto caro alla committenza privata dell’epoca. Lo abbiamo ritrovato anche a Varese nella sala settecentesca delle Sibille o Sala Veratti, il refettorio del Convento di Sant’Antonino, e in un certo qual senso anche in Guttushttps://lavocedivarese.blog/2025/07/16/se-un-viaggio-a-firenze-restituisce-frammenti-di-varese-a-villa-bardini-un-guttuso-inaspettato-evoca-estati-velatesi/o. A questo proposito, in extremis, vi svelo un segreto personale: ho ricevuto i complimenti della Fondazione Longhi per aver intuito in maniera prioritaria il probabile soggetto della Sibilla esposta nella recente mostra Villa Bardini. Ci sto lavorando.

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