
E così anche per quest’anno siamo tornati al venti luglio, un giorno dell’anno per me estremamente carico di significato: il giorno in cui si rinnova il mio sentimento d’appartenenza ad una comunità umanistica e ad un colloquio antico e fondativo.

Nasce Francesco Petrarca, il 20 di luglio, ad Arezzo da genitori fiorentini “in exilio … die lune ad auroram”, come ci ricorda nella splendida epistola Posteritati, una lettera ad un immaginario lettore del futuro al quale il poeta disegna la propria autobiografia ideale: la prima in assoluto della letteratura italiana. Un autore per me estremamente importante, direi fondativo, che ho iniziato ad amare sin dai bambini del liceo e che ho ritrovato all’università appassionandomi al mirabile commento di Mario Santagata.
Fondativo per tante ragioni. Primo, per la mia medesima ossessione nei confronti di Laura – laurea – alloro e del tempo che fugge divorando le illusioni e le ambizioni terrene nella scrittura. Secondo, per la straordinaria bellezza della sua poesia e della sua parola, vertice di perfezione e musicalità che non ha eguali mai. Terzo, per l’amicizia fraterna con Boccaccio, che ospitò più volte nelle sue diverse dimore, in primis a Milano. Quarto, proprio per il suo essere il più profondamente milanese dei nostri poeti fondativi. Quinto, ma forse dovrei anticipare al primo posto, rovesciando la classifica – che poi non vuole assolutamente esser tale – il suo riconoscersi così umanamente frammentario, il suo ritrovarsi solo raccogliendo coscientemente la propria anima dai frammenti sparsi durante il faticoso cammino parallelo della vita e dell’attività intellettuale e scrittoria.

Io sono una penna – nonché un’anima – che procede a frammenti.
Non ho una visione olistica dell’attività letteraria: tutt’altro.
Non è un caso se mi è tanto congeniale il lavoro “a pezzi”. Ecco perché ho coltivato il grande sogno del giornalismo sino ad ora: perché è un sogno terribilmente petrarchesco, dove ci si illude di fermare il tempo che fugge mettendolo nero su bianco in pagina, pezzo dopo pezzo, raccogliendolo per la via. Un paio d’anni fa avevo fatto un colloquio in un giornale locale, l’ultimo in Varese, proprio il 20 di luglio: m’illusero che m’avrebbero presa a settembre, poi non se ne fece più niente. Ci rimasi molto male, anche perché mi voltarono le spalle persone che pensavo sincere, fra cui l’allora mia amica del cuore. Non mi persi però d’animo: avevo un piano B e lo stavo perseguendo da qualche tempo, sostenuta dagli affetti più cari fra cui qualche amico che quotidianamente mi incoraggia. Difatti, pochi mesi dopo, a dicembre, mi presentai a sostener un esame di letteratura italiana che da ragazza non avevo mai voluto affrontare, a non troppa distanza dalla laurea e con una carriera di esami brillante, perché ad un appello non mi sentivo pronta e avevo preferito non rispondere: da lì mi si bloccò tutto e non ripresi più.
Insomma, per tornare al dicembre di due anni or sono, decisi di affrontare un colloquio ben più impegnativo che con qualsiasi direttore di giornale: un colloquio con i classici per farmi giudicare direttamente da loro. Lo scritto andò a gonfie vele, e ovviamente, me l’ero sentito, mi ritrovai in un’aula in Santa Sofia a scrivere vorticosamente di Petrarca; l’orale, a gennaio, sul Decamerone ribadì il concetto: per la materia ero decisamente vocata e così da allora le mie giornate le sono consacrate ancora più di prima. Una confessione quasi agostiniana e non troppo umile, che faccio per la prima volta al mio lettore, quasi vergognandomi perché alla mia età, si sa, dovrei esser impegnata a scrivere delle sorti del mondo, non di come vinsi il dispiacere di non esser ritenuta degna nella città che per tanti anni avevo raccontato con la passione in corpo e forse con qualche merito, disconosciuto all’indomani immediato della chiusura del mio povero giornale, forse solo perché avevo già superato i quarant’anni, forse perché con sei figli (ormai grandi) che metto sempre orgogliosamente in testa al curriculum, non per vantarmi ma perché sono la mia forza e non certo il mio ostacolo; forse perché nell’immaginario collettivo, diciamocela tutta, non ho bisogno di lavorare. Già: bisogno materiale magari no, sinceramente parlando, ma a livello spirituale quanto mi è stato d’aiuto essere parte viva e operativa d’un giornale, non lo dimenticherò né rinnegherò mai.

Dimenticavo. Sei, il numero di Laura, il numero venerabile del Canzoniere.
Non l’ho mai scritto: mio marito si chiama Francesco.
Il mio primo figlio è nato il 6 di aprile, come il giorno fatale in cui Petrarca vide Laura per la prima volta ad Avignone; come il giorno in cui ricevette la laurea romana; come il giorno in cui Laura morì; come il risultato della somma di 366, il numero dei componimenti del Canzoniere, ossia 15 le cui cifre sommate danno ancora 6. Come la sestina ossessiva (per loro natura le sestine, d’ispirazione provenzale, lo sono) che adoro, la trenta dei Fragmenta, in cui per la prima volta nel liber compare – ossessivamente – il tema del tempo che vola e del lauro perduto.
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Il venti di luglio è anche il giorno natale di Giorgio Morandi, un grande pittore che nell’ultimo anno sto imparando ad amare assieme al mio compagno di viaggi numerosi e d’avventure, mio marito. Lo abbiamo ammirato variamente dapprima a Villa Magnani a Mamiano, la scorsa primavera; poi a Milano al Museo del Novecento; infine a villa Bardini a Firenze pochi giorni fa. Morandi, coetaneo di Roberto Longhi, fu suo grande amico. Settimana prossima saremo di nuovo a Bologna dopo il viaggio di inizio giugno ed ho già messo in preventivo una visita alla sua casa natale e alla fondazione che ce ne restituisce molta opera.
Morandi è il pittore delle piccole cose, delle nature morte nella semplicità domestica; e sommamente, per me, dei fiori. E così, dalla prospettiva umile dei suoi fiori mi congedo anche questa sera e vi do appuntamento alla prossima storia, sempre che vi faccia piacere seguirmi ancora, così come a me fa piacere il raccontare.
(Post scriptum. Oggi, 20 luglio si conclude anche la mostra fiorentina di Villa Bardini)