
Antefatto.
Ci sono giornate che, sarà il tempo, sarà che cadono di lunedì, sarà quel che sarà ma sono decisamente malinconiche. Per fortuna la malinconia dà anche occasione di scrivere qualcosa di bello, e scrivere e riflettere di bellezza riapre il cuore e lo proietta verso nuove mete. Guardandomi indietro di qualche mese, infatti, mi rivedo una domenica di primavera al Castello Sforzesco a festeggiare i primi suoi cento gloriosi anni della mia Università, la Statale di Milano: quel giorno, che cadeva esattamente il 19 maggio, avevo volentieri seguito la dotta dissertazione del professor Guglielmo Barucci sulla sala di Griselda riaperta da poco: Griselda, la novella sposa sottoposta alle prove più crudeli dal marchese Gualtieri, la donna innamorata maltrattata e umiliata, o – secondo la chiave di lettura che preferisco, quella che legge il Decamerone oltre le righe – la scrittura che subisce violenze e angherie, o anche la materia che si fa duttile nelle mani dello scrittore (e novella è sinonimo di notizia, non dimentichiamolo).
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LA BELLA STORIA DI OGGI: UN’AMICIZIA MULIEBRE IPOTETICA E AFFASCINANTE.
Terminato l’incontro mi ero spostata nelle varie sale della Pinacoteca per ammirarla, e mi ero prontamente imbattuta in un’opera nostrana, ceduta al Castello Sforzesco nel 1972: il celeberrimo Polittico di Francesco de’ Tatti, datato 1517 e proveniente dalla castellanza di Bosto (in sant’Imerio si può ammirarne tuttora una riproduzione).

Il polittico risulta così formato:
nel registro superiore: Crocifissione, santi Caterina e Girolamo, Santi Francesco ed Antonio; nel registro inferiore: Madonna con il Bambino, santi Giovanni Battista e Michele, santi Cristoforo e Rocco; nella predella: sant’Imerio, la Flagellazione, san Pietro, l’Andata al Calvario, san Paolo, la Deposizione, sant’Antonino.

Su tutti, dal momento che conosco bene l’iconografia di Imerio (e ci ho anche lavorato), l’attenzione si era posata su santa Caterina, che risulta essere fra le più “interpretate” dalle nobildonne italiane del Rinascimento.

Era costume, infatti, da parte delle dame dell’epoca (e ne abbiamo parlato anche qui a proposito di Maria Lampugnani), farsi ritrarre non solamente nelle proprie vesti ma anche nei panni di questa o quella santa, di una esponente muliebre della mitologia, che fosse dea o musa o Grazia o Sibilla, oltre che naturalmente prestare il volto a Maria. Era uno status symbol dell’epoca collezionare interpretazioni e posare per i pittori più affermati: Lucrezia Borgia e Simonetta Vespucci erano un po’ le punte di diamante di questa prassi, a cui si affiancava la citazione della dama di turno in un’opera letteraria, o la dedica alla medesima.
Veniamo però alla santa Caterina del Tatti. Questa rappresentazione ha qualcosa di unico, o comunque raro: la figura ritratta non è bionda come da attribuzione consueta nell’iconografia classica della santa che subisce il martirio della ruota nell’anno 304 e in generale come ci si immagina la donna dal crin d’oro crespo prediletta dai poeti (non citiamo a caso il Bembo, ovviamente): questa enigmatica nobildonna varesina che posò per il pittore bostese era mora e, me lo si consenta, dalle fattezze straordinariamente moderne: quasi una Gioconda locale (si sa del resto che il Tatti fu profondamente influenzato dalla scuola di Leonardo).

In una delle recenti sessioni di studio negli archivi di via XXV aprile stavo consultando un numero della bella pubblicazione “Tracce” (esattamente il diciannovesimo quaderno, datato marzo 1998) ormai da anni purtroppo non più in stampa (usciva mensilmente per i tipi della Lativa) e mi sono imbattuta nello splendido saggio di Armanda Dallaj “Una vigna per il polittico di Bosto”. La studiosa traccia la storia rocambolesca del polittico, conservato fino al 1858 nell’odierna sant’Imerio (ai tempi ancora titolata a san Michele) e poi, acquisito da un rigattiere, passato in mano antiquaria sino a giungere (fortunatamente) alle Civiche Raccolte del Castello Sforzesco, dove effettivamente viene esposto nel 1975: nel 2025 saranno quindi i cinquant’anni dalla luce ritrovata per il polittico tutto, il sant’Imerio nelle fattezze che ci sono note e appunto per la nostra Caterina bostese.
Il meticoloso lavoro della Dallaj, condotto negli archivi milanesi, ha portato invece in luce la committenza, confermando l’ipotesi della famiglia Piccinelli, così da ritenere giustamente che i personaggi raffigurati fossero un omaggio riverente ai medesimi (i quali alla fine saldano il debito donando una vigna al pittore). Scrive Dallaj: “A quei tempi quando una comunità dotava la propria chiesa di dipinti importanti si premurava di definire con una certa precisione i soggetti da raffigurare”. I santi raffigurati – spiega la studiosa – godevano di ampia venerazione nel borgo “ma è interessante osservare che i nomi ricorrono puntualmente nell’onomastica dei nobili Piccinelli”, i signori locali di cui si ha testimonianza dei possedimenti in Bosto sino a tutto il XVIII secolo. La chiesa di san Michele (ribadiamo: l’odierna sant’Imerio) era il fulcro della religiosità bostese e quindi massimamente rappresentativa della casata dei Piccinelli: in particolare “Caterina era l’appellativo spirituale di una delle Piccinelli ricordata tra le Clarisse di Bosto in un documento del 1502”: in buona sostanza era pratica comune chiamare i bambini e le bambine con un nome che gli avrebbe garantito la protezione del santo corrispondente.
Abbiamo sciolto quindi, grazie ai preziosi studi di Armanda Dellaj che mi auguro vengano presto riscoperti, un enigma che ci stava particolarmente a cuore: la bellissima santa Caterina dai ricci scuri del Tatti altri non sarebbe che la giovane Caterina Piccinelli, ritratta probabilmente novizia, la quale andava a quel tempo in sposa al Signore. La famiglia Piccinelli dell’epoca, d’altra parte, conclude l’autrice, si era fatta ritrarre al completo sulle pareti del palazzo nobiliare in un dipinto oggi completamente consunto raffigurante lo sposalizio mistico di santa Caterina.

La santa Caterina conservata a Casa Romei, di ignoto artista ferrarese, tratta dalla soppressa chiesa di sant’Andrea in Ferrara. Gli attributi sono la palma e il libro, con a fianco la ruota dentata simbolo del martirio avvenuto ad Alessandria d’Egitto nel 304.
Nei medesimi anni la sua probabilmente coetanea Lucrezia Borgia andava in sposa al duca Alfonso I e si faceva ritrarre anch’ella nei panni di una bionda Caterina alla ruota, non una ma in diverse occasioni. Quella a me in assoluto più cara è associata sempre alle Clarisse, di cui Lucrezia si era fatta terziaria, e si trova attualmente esposta in Casa Romei a Ferrara, un tempo un unico complesso col vicino monastero del Corpus Domini dove si trovano le sepolture degli Este, su cui spesso mi trovo a pregare, e dove riposa anche Lucrezia.

E voi direte: c’è un filo conduttore in tutto ciò, che lega le due donne al di là del suggestivo accostamento di idee nato in queste povere pagine? Suggestione per suggestione, non manco di ravvisare anche un parallelismo nei colori degli abiti delle due sante, benché chiaramente le differenze siano molteplici, a partire dall’assenza del libro nelle mani della Caterina bostese e dalla posa, per entrambe eretta e dignitosa: ma – consentitemelo – se le accostassimo sembrerebbero quasi in dialogo fra di loro, rivolte l’una verso l’altra, in deliziosa muliebre confidenza.
Incredibilmente – mi direte – il filo conduttore potrebbe veramente esserci, perché entrambe avevano seguito – quantomeno è certo per Lucrezia, per Caterina lo si ipotizza ma è assai probabile – la predicazione del medico varesino Raffaele Griffi, divenuto francescano e trasferitosi alla corte estense nei primi anni del Cinquecento.
Quanta bellezza in quest’amicizia femminile del tutto letteraria, del tutto arbitrariamente immaginata da chi scrive… eppure così consolatoria in una giornata dedicata da un lato alla santa della ruota, dall’altro alle donne vittime di violenza. La bellezza sola ci salverà.
Post scriptum.
Dovrei pensare di dedicare questo scritto ad una donna, certamente.
Invece lo dedico a mio marito, che è un uomo meraviglioso, e che mi ha donato la possibilità di vivere una vita dedicata alla cultura, ai viaggi e agli studi, oltre che alla nostra famiglia meravigliosa.