
Scrivo di getto queste poche righe sognando di essere ancora a Ferrara, mentre purtroppo sono già tornata da qualche ora in terra ostile (perché così reputo negli ultimi tempi Varese nei miei confronti, pur amandola immensamente).
Eppure doveva apparire dolce il buen retiro varesino al duca Francesco III1, che – ve lo anticipo, poi capirete – è il protagonista in filigrana di questo mio scritto. Ma veniamo al dunque. Settimana scorsa, dopo una tappa volante torinese2, sono approdata giovedì 24 sera nella mia bella madrepatria degli Estensi, dove mi attendeva dal 12 ottobre la mostra del Rinascimento curata da Vittorio Sgarbi e Michele Danieli.
Ideale prosecuzione del precedente, strepitoso allestimento del 2023 sull’arte ferrarese di Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa, di quello che si preannunciava come uno degli eventi più attesi dell’anno nel settore avevo seguito la conferenza stampa di apertura in streaming da casa, naturalmente beandomi della performance del mitico Vittorio, che a Ferrara è nato, e per benedizione dei ferraresi è anche l’anima della cultura cittadina assieme al riconfermato assessore alla cultura Marco Gulinelli: un binomio a dir poco travolgente!

(Dalla conferenza stampa dell’11 ottobre: a sinistra di Vittorio, l’assessore Gulinelli; all’estrema destra, Michele Danieli)

Ai Diamanti, chi mi segue lo sa bene ma meglio ricordarlo, si arriva facendosi la camminata più bella che ci sia, lungo corso Ercole3, anticamente denominata via degli Angeli, dal momento che oltre ad ospitare il convento di Santa Maria degli Angeli (poi soppresso) conduceva alla cosiddetta Porta degli Angeli, una sorta di ingresso d’onore per gli Este che da qui accedevano alla Delizia di Belfiore.


Bene, questo magnifico edificio, Palazzo dei Diamanti, quale eccezionale Wunderkammer, è solito mettersi in dialogo con le opere in allestimento, in pinacoteca o in esposizione temporanea (e nella mostra precedente, dedicata al genio di Escher, lo aveva ampiamente dimostrato); non si contano i dipinti di angeli che qui hanno trovato ospitalità negli anni, e così ora ve ne compaiono anche in questo nuovo percorso artistico, insieme a innumerevoli Madonne (apre la mostra una struggente Dormitio Virginis di Niccolò Pisano, va detto).

(Boccaccio Boccaccino, Adorazione dei Pastori, 1499-1500, olio su tavola, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte)
Per questo il mio reportage parte da loro: perché difficile è trovare un filo conduttore a tanta bellezza che si è ritrovata nelle sale diamantine secondo gli intenti dei curatori, che hanno desiderato, ed ottenuto riportare in suolo ferrarese i figli di una secolare diaspora iniziata nel 1597 con la Devoluzione del Ducato allo Stato Pontificio.
Forse qualcuno ricorderà i fatti: il duca Alfonso II, nonostante i tre matrimoni con altrettante principesse di altissimo lignaggio4, non avendo avuto prole legittima e non essendo stato riconosciuto dal papa il suo successore designato Cesare d’Este5 , morì facendosi sfuggire dalle mani Ferrara, che tornò quindi in mano al Pontefice romano, mentre Cesare riparò a Modena, essendo invece garantita la successione dall’infeudazione imperiale. Da qui ebbe inizio la sfortunata sequela di alienazioni del patrimonio estense, che prese diverse strade (in elezione requisito su ordine romano, ma non solo): l’operazione di Ferrara Arte6, quindi, è quel che si dice una raccolta di materiale sparso per le vie del mondo, un’operazione poetica, petrarchesca, anzi di più, decisamente ariostesca, così come succede nell’Orlando Furioso di incanalare verso il porto finale dell’opera i vari filoni narrativi ingarbugliati e dispersi con la tecnica dell’enjambement nella prima parte del poema dall’estro di Ludovico Ariosto.
Che non cito a caso, essendo il motore letterario attorno a cui gravitano dal 12 ottobre le opere dei quattro grandi artisti e delle loro scuole in dialogo ai Diamanti sino al 12 di febbraio, data in cui si chiuderà la mostra sul Rinascimento ferrarese. I quattro artisti di punta della stagione che ruota attorno ad Alfonso I7, cui il padre Ercole, primo duca effettivo di Ferrara, consegna il potere nel 1505, e che governerà e vivrà sino al 31 di ottobre del 1534: pertanto l’uscita di questo pezzo, che è stata piuttosto sofferta per varie ragioni, è da considerarsi anche un debito, calibrato omaggio alla ricorrenza del Duca.

(Il duca Alfonso I ritratto nel 1530 da Battista Dossi – © Galleria Estense Modena. Foto tratta da Alfonso I d’Este – MuseoFerrara).
Dicevo sopra che sarebbe impossibile trovare un filo conduttore nel resoconto dell’imponente mostra: questo anche perché, come giustamente hanno dichiarato i curatori, Ortolano, Dosso, Mazzolino e Garofalo – questi i loro nomi – pur gravitando nell’orbita di Alfonso I e all’epoca della composizione del Furioso, sono in realtà molto diversi l’uno dall’altro, sicuramente con concezioni artistiche differenti, spesso divergenti, sovente in polemica fra di loro, benché in dialogo fitto e serrato esattamente come vengono proposti nelle sale diamantine (che offrono anche altrettante monografie).
Come procedere allora? Esattamente come suggerisce il titolo che ho dato all’articolo: per ora, per la prima visita e il primo report, soffermandomi unicamente su due quadri che hanno attirato la mia attenzione più degli altri non perché fossero i più belli, ma perché di fatto l’obiettivo prioritario per me era individuare, fra tutti quei capolavori tornati temporaneamente in patria, quelli che provenivano dalla seconda dolorosa tappa della dispersione delle collezioni estensi: vale a dire i quadri della vendita di Dresda8.
Dobbiamo fare a questo punto un salto di due secoli, e precisamente arrivare al 1745, anno in cui per colmare il dissesto finanziario che aveva colpito il Ducato di Modena durante la Guerra di Successione Austriaca, Francesco III9, consigliato dai suoi più stretti collaboratori (fra cui il suo maestro Ludovico Antonio Muratori), si trovò costretto ad alienare una parte cospicua del patrimonio delle collezioni estensi che i suoi predecessori erano riusciti a salvare dalla già forte emorragia di fine Cinquecento.
Ben cento e uno quadri presero la via della Polonia e precisamente furono inglobati nelle collezioni del principe elettore di Sassonia nonché re di Polonia Augusto III, il quale aveva visitato trent’anni prima Modena e si era invaghito di tanta bellezza custodita nelle gallerie di Palazzo Ducale.
Una triste pagina che ebbe a marchiare indelebilmente la reputazione di Francesco III, anche per i giudizi espressi successivamente da numerosi critici d’arte su cui spicca quello del Winckelmann, che assegnò la palma di galleria più bella del mondo proprio a quella di Dresda e in ragione delle acquisizioni modenesi.

Ora, potete immaginarvi il mio stato d’animo quando, durante la mia recente visita ai Diamanti, dalle targhe collocate a fianco dei quadri ho realizzato di essere di fronte a due dei capolavori che ad oggi appartengono alla Gemäldegalerie Alte Meister o Pinacoteca dei Maestri Antichi di Dresda (qui il sito in italiano), ma un tempo posseduti da Francesco.
A questo punto devo fare un appello alla benevolenza e soprattutto alla pazienza del lettore, perché accetti di imbarcarsi un un excursus forse non breve ma doveroso.
Francesco III decise di stabilirsi a Varese negli anni della vecchiaia, facendosi infeudare dalla cugina imperatrice Maria Teresa un borgo che sin dagli statuti medievali si era fregiato della marca di libertà da qualsiasi signoria (ne aveva già subìte a sufficienza in passato). E non ci mise tanto, da quel 1765, a farsi voler bene, il buon duca: che di fatto era venuto a Varese a fare il nonno, essendosi portato con sé da Modena la nipote Beatrice, unico grande affetto sincero della sua vita a parte il buon Muratori, ma che ebbe anche tutto il tempo di rifarsi un’esistenza serena in dolce esilio da grane, dispiaceri e fardelli con la terza moglie Renata Teresa d’Harrach, già vedova Melzi, che della piccola Bea era tutrice e governante, forse sposata più per condividere questo comune affetto che per passione sincera.
Una vita avventurosa e gravata dalla ragion di stato, quella di Francesco, dapprima estense, poi milanese: sì, perché per salvare nuovamente le sorti di Modena, che rischiava una seconda devoluzione dopo quella ferrarese, il duca più longevo degli estensi puntò tutto sulla principessina, unica figlia del suo primogenito (ed unico prolifico) Ercole, contrattandone il matrimonio con la casata asburgica quando la piccola era ancora in fasce: di fatto, negli anni Cinquanta del Settecento il Nostro si trovava governatore di Milano pro tempore fino a che Beatrice non fosse diventata maggiorenne e sposa di Ferdinando d’Asburgo, l’arciduca figlio di Maria Teresa d’Austria, di quattro anni più giovane di lei. Ma dal 1771, anno degli augusti sponsali, si trovò nuovamente libero da impegni amministrativi e decise di rimanere fino alla fine dei suoi giorni con Renata alla residenza della Campagnola10 pervaso da una nostalgia per cose e persone perdute per sempre, come chiunque scelga, volontariamente o meno, di vivere l’esilio. In particolare, benché fosse perennemente attratto dall’eterno femminino, e da quel giovane timidissimo che era stato, era divenuto per forza di cose un po’ farfallone, per tutta la sua vita amò e pensò senza tregua un’unica donna, quella che sin dal primo momento gli aveva resistito, che aveva intrattenuto una relazione chiacchieratissima con il De Sade (nientemeno) e che era caratterialmente incompatibile con lui, ma che era stata anche la madre dei suoi figli: la bellissima, volitiva, irrequieta principessa parigina Charlotte Aglaia di Borbone-Orléans.

Carlotta di Borbone. Attribuito a Pierre Gobert – https://www.photo.rmn.fr/archive/91-000296-2C6NU0H912IW.html, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=574357
Bene: ora possiamo tornare idealmente ai Diamanti. Quando mi sono imbattuta nel primo dei due quadri di cui dissi più sopra, quelli della Vendizione, io ho avuto la sensazione che qualcuno mi chiamasse.
Era Francesco che mi chiedeva di ricordare la sua difficile storia d’amore? Francesco che con il cuore lacerato si era disfato di questi due quadri del Garofalo per non aver sempre sotto gli occhi le fattezze della sua ingrata donna? Francesco, il personaggio incontrato in vari archivi, in particolare in quello modenese, col quale ho stabilito un colloquio prezioso da tempo, e del quale ho scritto anche sulla Voce in altre pagine? Probabilmente sì.

Benvenuto Tisi detto il Garofalo, Atene e Poseidone, circa 1515, ispirato alle Metamorfosi di Ovidio. Olio su tela, Dresda, Gemadegalerie Alte Meister
Non che il secondo quadro, esposto nella penultima sala, non raccontasse la medesima storia.

Bernvenuto Tisi detto il Garofalo (1481 – 1559). Venere ferita e Marte davanti a Troia, circa 1524. Olio su tela, Dresda, Gemadegalerie Alte Meister
Sempre lei, sempre Carlotta ritratta incredibilmente due secoli prima della sua esistenza terrena dal visionario e sublime Raffaello ferrarese, e sempre nei panni di una dea, irraggiungibile, stupenda, iconica, e sempre vestita (o almeno coperta…) di colore rosso.
Ma le sorprese non sono finite. Perché nei ritratti che possediamo, Carlotta non è mai vestita di questo colore: semmai d’azzurro. E’ invece noto un ritratto in rosso della madre di Francesco, Carlotta Felicita di Braunschweig-Lunenburg, moglie di Rinaldo, morta di parto quando il futuro duca aveva solamente dodici anni. Delle donne che amò il Nostro, sicuramente la figura cui più fu legato in assoluto, e la cui mancanza rappresentò per lui il dolore più grande, riempito appunto da tanti amori femminili mai del tutto consolatori, mai pienamente risolutivi.

Antoine Trouvain, Carlotta Felicita di Braunschweig-Lunenburg, fine XVII sec, foto in libero utilizzo da museum-digital.de
In conclusione, non posso che ringraziare Vittorio Sgarbi per questo dono così particolare, forse non voluto, che però mi sono sentita di riferire al mio Duca proprio in occasione dei giorni che ci collegano più da vicino all’amore di chi non è più. Perché a volte si allontana dalla vista ciò che ci fa più soffrire, questo è vero; ma quanto deve essere costata in definitiva in termini di dolore questa separazione a Francesco, che l’arte amava, coltivava, promuoveva e aveva a cuore come massima eredità acquisita dal suo casato? Molto di più di quei centomila zecchini che gli valse l’invio a Dresda del prezioso materiale.
Infinitamente di più. Forse per questo il suo cuore, separato dal corpo e conservato in un’ampolla, quando fu disseppellito dal convento dei Cappuccini nel 1908 per essere traslato a Giubiano, non fu mai più ritrovato. La leggenda dice che è ancora sotto un cedro secolare per disposizione personale del duca, che non volle farlo ritrovare. Ma noi sappiamo che lui, in realtà, è altrove.

Francesco III (Modena, 1698 – Varese, 1780) in un’incisione giovanile.

Il mausoleo di Francesco III all’ingresso del cimitero monumentale di Giubiano, Varese.
- Francesco III, figlio di Rinaldo e Carlotta Felicita di Brunswick, con cui si concluderà il presente articolo, nasce a Modena il 2 luglio del 1698 e chiude per sempre gli occhi il 22 febbraio 1780 nel suo palazzo varesino denominato La Campagnola, acquisito al rustico, diremmo oggi, da un Tomaso Orrigoni e ristrutturato per essere il buen retiro del Duca negli anni della vecchiaia. Il palazzo, ereditato dalla terza moglie del Duca, Renata Melzi d’Harrach, ridenominato nell’Ottocento Palazzo La Corte, dopo una serie di passaggi privati, è giunto ai nostri giorni come Palazzo Estense, acquisito da Cesare Veratti nel 1882 dal Comune di Varese come sede municipale ufficiale. Duca di Modena e Reggio per infeudazione imperiale dal 1737, dal 1754 è anche governatore di Milano per conto del minorenne Ferdinando d’Asburgo, fino al matrimonio di quest’ultimo con Beatrice Ricciarda d’Este, celebrato nel 1771.Le carte teresiane conservate nell’archivio di stato di Modena riferiscono l’infeudazione varesina al 1765. ↩︎
- Colgo l’occasione per dire che speravo di riuscire a visitare la mostra su Berthe Morisot al GAM (Galleria Arte Moderna) ma non sono potuta entrare, perché l’ultimo ingresso era alle 17: 00 e io sono arrivata alle 17:10. Avrei visto poco, ma mi sarebbe bastato, giacché per abitudine non vado mai ad una grande mostra una sola volta, quindi sarei sicuramente tornata per approfondire e tornerò: una promessa fatta col pensiero e col cuore ad Anna Banti di “Quando anche le donne si misero a dipingere” (Abscondita) che alla pittrice parigina impressionista dedica alcune indimenticabili pagine . ↩︎
- Corso Ercole, che sorge nella cosiddetta Addizione Erculea – ampliamento urbanistico progettato dall’architetto Biagio Rossetti alla fine del XV secolo – secondo Giorgio Bassani che lo celebra in diverse due opere e vi ambienta idealmente il suo capolavoro, “Il Giardino dei Finzi Contini”, è la strada più bella d’Europa. E a mio modesto avviso non ha affatto torto. ↩︎
- Si tratta di Lucrezia de Medici, morta sedicenne, dell’arciduchessa Barbara d’Austria, protettrice delle orfane e delle partorienti povere (merito suo è la fondazione del primo ospedale ginecologico di cui si abbia notizia) e di Margherita Gonzaga (nipote di Barbara in quanto figlia della sorella maggiore Eleonora, andata sposa al duca di Mantova), di trentun anni più giovane del marito: donna estremamente colta, mecenate di artiste e musiciste. ↩︎
- Cesare d’Este era il nipote abbiatico di Alfonso I e della sua terza moglie, Laura Dianti, di umile origine (era figlia di un cappellaio). Dal momento che il matrimonio non era stato regolarizzato, o meglio se ne era persa la documentazione probante (forse trafugata), la discendenza non venne considerata legittima dal pontefice, il quale aveva tutto l’interesse a considerare Lucrezia Borgia l’unica moglie prolifica a scopo dinastico di Alfonso. In buona sostanza, non solo Francesco III, ma anche il ramo che oggi ancora sopravvive degli Estensi, imparentato con gli Asburgo tramite il matrimonio di Beatrice con Ferdinando nel 1771, discendono proprio da Laura Dianti e dal figlio primogenito Cesare. ↩︎
- Fondazione Ferrara Arte, il cui presidente è Vittorio Sgarbi, è l’ente che promuove e valorizza il patrimonio storico, culturale e artistico della città di Ferrara attraverso l’organizzazione di mostre e convegni nei musei civici. E’ nata nel 1991 con l’allestimento di un’importante mostra antologica su Giovanni Boldini a Parigi. ↩︎
- Alfonso I d’Este, il duca artigliere, che introdusse le armi da fuoco pesanti nell’esercito ferrarese, fu duca di Ferrara dal 15 giugno 1505 al 31 ottobre 1534. Terzogenito di Ercole ed Eleonora d’Aragona, primo maschio dopo le sorelle Isabella e Beatrice – rispettivamente andate in moglie a Francesco Gonzaga e Ludovico il Moro – , fu il più munifico ed illuminato mecenate della sua epoca e fra gli altri protesse Ludovico Ariosto dopo che questi si era congedato dal potentissimo cardinal Ippolito, figlio cadetto di Ercole. Si sposò tre volte: dapprima nel 1991 con la sorella di Gian Galeazzo duca di Milano, Anna Sforza, che morì di parto nel ’97; poi nel 1501 con la ventenne Lucrezia Borgia, la figlia di papa Alessandro VI (al secolo Rodrigo Borgia), che gli portò in dote l’infeudazione ereditaria di Ferrara e gli diede sei figli e morì di parto come Anna nel 1519. Infine – vedi nota 4 – con Laura Dianti. Di fatto, un grande. ↩︎
- Di recente pubblicazione, molto interessante, è il saggio di Carlo Previdi “Tra Modena e Dresda: storia di cento meravigliosi quadri”, Collana Il Fiorino, Edizioni Gruppo Sign, 2024, che fornisce l’elenco degli autori del patrimonio alienato nel 1745; l’elenco completo con visita virtuale dei quadri modenesi tuttora presenti alla pinacoteca di Dresda e sopravvissuti ai bombardamenti del 1943 è invece disponibile sul sito della Gemäldegalerie. ↩︎
- Vedi nota 1. ↩︎
- Oggi Palazzo Estense, vedi nota 1. ↩︎