• Caterina e Marcellino: una storia per il Duca

    Dalla lettera del 10 aprile 1769 del Ministro Malagoli al Duca Francesco III

    Cari lettori,

    l’amicizia è qualcosa di fondamentale nella nostra vita. Rischiara le giornate, ci fa sentire preziosi, dona serenità e certezze, cammina insieme a noi.

    L’amicizia si può dimostrare in tanti modi, ed è essa stessa un dono. Quella fra il conte Malagoli e il Francesco III, signore di Varese dal giugno del 1765, forse non è molto conosciuta, anzi direi proprio per niente: sta di fatto che il duca d’Este si fidava di pochissime persone, e sceglieva i suoi ministri proprio fra i suoi intimi amici.
    Il commissario Malagoli se l’era portato da Modena nella sua nuova villa di delizia varesina, che aveva acquistato dal ricco commerciante Tomaso Origone ristrutturandola a puntino secondo un estro “esotico” ammiccante ai giardini viennesi della cugina Maria Teresa d’Austria (che per ringraziarlo del sostegno militare ripetuto negli anni lo aveva omaggiato prima del governatorato di Milano e, a seguire, della signoria nella città di cui, essendo sovente ospite del marchese Menafoglio in quella meraviglia della sua villa di Biumo Superiore che tutti conosciamo, si era perdutamente innamorato).

    E però, dovendo attendere ancora per un paio di anni alle faccende milanesi (che non vedeva l’ora di sbolognare al nipote acquisito Ferdinando, figlio dell’imperatrice) prima di potersi godere il buen retiro nella città prealpina, e avendo peraltro qualche grattacapo da gestire pure nella sua patria d’origine, in realtà i primi anni andava e veniva dal feudo di Varese, che appunto aveva lasciato sotto la sorveglianza del fido Malagoli. Il quale gli scriveva fittamente dei fatti che si susseguivano alla Campagnola, come veniva chiamato i primi tempi quello che oggi indichiamo come Palazzo Estense, che durante gli anni ducali prese il nome di Palazzo La Corte: tale appellativo rimase sino al febbraio 1882, quando divenne sede ufficiale del Municipio dopo essere stato venduto al Comune dall’ex sindaco Cesare Veratti, ritiratosi in un’ala privata per gli ultimi anni della sua vita. (Da notare che il trasferimento della giunta non avvenne subito ma solo alla fine dell’anno per resistenze interne, ma di questo parleremo un’altra volta, perché altrimenti, come al solito, ed è un grave mio difetto, perdo il filo del discorso e mi metto a raccontare cose che non c’entrano niente con la storia principale!).

    Francesco III, per la Grazia di Dio duca di Modena, Reggio, Mirandola, signore di Varese, etc etc etc

    Sta di fatto che un 10 di aprile del 1769, essendo appunto il Duca impegnato in faccende non varesine, il Malagoli, conoscendone bene l’animo malinconico, benché libertino e sentimentale, pensa bene di sollevargli il morale rendendolo edotto dell’evolversi di una situazione piccante occorsa a Corte qualche giorno prima: immaginiamoci perciò il nostro Este che legge la missiva con un calice di buon Pignoletto di sua produzione, seduto alla sua magnifica scrivania intarsiata milanese, alla luce del candelabro dorato che si era portato dallo stanzino d’oro del palazzo ducale a Modena, mentre attende l’ingresso nell’alcova della splendida terza moglie e seconda morganatica, Teresa d’Harrach. Il gaudente Francesco, detto per inciso, era novello sposo alla fresca età di 60 anni, portati con l’estro passionale e il fascino complicato e un po’ retrò dei nati sotto l’egida del Cancro: e i ritratti che possediamo, se non parlano proprio di un Adone, ci raccontano di un uomo intrigante e dal carattere in perenne, difficile equilibrio fra la lacrima e il riso. Non son cose che si sanno, ma Francesco aveva perso la mamma da bambino ed era stato allevato ai doveri di regnante con estrema severità dal padre Rinaldo, cardinale spretato per salvare la seconda volta la casata estense dall’estinzione; si era poi sposato la prima volta con una donna che portava il nome della madre, Carlotta, e che lo aveva fatto enormemente soffrire; e benché si fosse ampiamente riscattato nei panni militari di straordinario condottiero e sovrano magnanimo e illuminato, era rimasto sempre succube del fascino femminile e pronto a qualsiasi cosa pur di compiacere una donna di cui si fosse invaghito, sentimentalmente o umanamente (ma anche questa è un’altra storia e in questo momento il mio Duca, ovvero il mio datore di lavoro negli archivi da due anni a questa parte… ne riparleremo, non mi permette di andare oltre. Scusatemi).

    In buona sostanza cosa era successo? Ve la faccio breve, col consenso di F III: la giovane e bella moglie del giardiniere, di nome Caterina, insofferente alla monotonia domestica e di temperamento ribelle, l’estate precedente si era presa una sbandata per un certo Marcellino Segre, un buon giovanotto che aiutava il marito nella sistemazione del parco che si stava allestendo – vedi sopra – alla viennese; i due, dopo varie vicissitudini e richiami all’ordine, erano scappati, prima l’uno poi l’altra, a Milano con la complicità di un tale prete Bolchino; e al giardiniere devastato dal dolore – il quale, per dirla tutta e non prendere per forza le parti dell’uno o dell’altra, giacché in certe cose le responsabilità sono sempre di entrambi e mai di uno solo, si teneva in casa suo fratello scapolo e obbligava la giovane moglie a far dietro anche a lui – non era rimasto che dedicarsi ai suoi magnifici fiori per dimenticare l’amore perduto. E chi meglio del duca che aveva tanto sofferto per amore di donne esuberanti e capricciose, e fino all’ultimo ne avrebbe sofferto, avrebbe potuto capirlo, e provarne compassione?

    Palazzo Estense a Varese e i suoi giardini fioriti

    Ma la bella Teresa sta facendo il suo ingresso, in vesti lunari e profumata di viole, nella stanza nuziale. Il Duca ammira la cassettina degli omaggi floreali, giunti intatti nella frescura di una corsa notturna in carrozza da Palazzo: e le corolle odorose gli piacciono tanto quanto – ahinoi – le canne delle armi e le belle donne. Gli effluvi si intrecciano, e non ci è dato di proseguire il racconto se non con il pensiero, sperando di aver raccontato un Duca inedito e di aver fatto venir la voglia al lettore di leggere ancora di lui.

    (Dalla documentazione conservata presso l’Archivio di Stato di Modena, da me personalmente consultata nello scorso settembre. Busta 52, Atti di Corrispondenza varia relativi all’Amministrazione in Varese.

    Ne approfitto per mandare un affettuoso saluto agli archivisti, preziosi e cari, che spero di rivedere presto per proseguire certe indagini preziose…)

  • Il tempo del silenzio e il tempo della voce

    Chi vive di parole, come il giornalista, deve sottostare alle ragioni delle pagine – la commissione, il rigaggio, la notizia dell’ultim’ora, gli aggiornamenti, le inevitabili scocciature di chi non ha gradito il pezzo e più spesso, fortunatamente, l’apprezzamento del lettore e a volte del direttore e persino dell’editore – ma – spesso – anche delle pause più o meno previste e prevedibili e dolorose, fino all’esaurirsi del proprio compito di professionista della scrittura, o del proprio talento, o di entrambi.

    Dopo una di queste pause, non la prima del resto nella mia avventura con le parole e con le pagine ma sicuramente la più lunga e sofferta, torno a scrivere utilizzando un mezzo a me altrettanto familiare quanto lo era divenuta la carta stampata negli ultimi tempi: il blog nel mare magnum del web (ero stata, nel 2007, forse la prima blogger varesina con Una mamma e sette laghi),lo farò nelle vesti ripetutamente annunciate su Facebook della Voce di Varese (appellativo scherzosamente affibbiatomi da un amico ai tempi della Provincia) e mi dedicherò unicamente alle storie, perché sono loro che sono venute a cercarmi, sono loro le mie committenti: sono tornate a chiedermi di aiutarle ad uscire dall’oblio dal quale sono state inghiottite, a volte perché il presente ha troppa fretta per stare ad ascoltare tutto e tutti, altre volte perché strati di dimenticanza si sono sedimentati su voci che ormai appartengono al passato dei giorni perduti. Siamo simili, mi hanno detto: non puoi dimenticarci anche tu.

    Sono storie piccole, di una città dal fascino del tutto originale ma forse non adeguatamente raccontata al di fuori di una prospettiva monocorde e sempre troppo tesa a volare alto – ad inseguire i politici, i personaggi famosi, le questioni economiche sanitarie caritatevoli impegnate ed importanti, quelle che garantiscono la pagnotta a fine mese e rendono magari le pagine un po’ troppo uguali le une alle altre, ma non è certo la cosa più importante per un giornalista che insegue il giorno nel 2022, e che si deve adeguare al mainstream narrativo vincente. E certo, lo capisco sin troppo bene, sono del giro della cronaca pure io, o almeno lo sono stata fino a quando le lancette al mio giornale si sono fermate, e mi sono fermata anche io: ma questa è un’altra faccenda, e non c’è più pianto e non c’è più tempo di raccontarla, e soprattutto è capitato in tempo utile per evitare di essere risucchiati nell’omologazione di quest’ultimo biennio, che del giornalismo ha vissuto a mio modesto avviso le pagine peggiori di sempre, e che faticosamente ne uscirà, ammesso che ne possa uscire davvero.

    Quello che so oggi, con consapevolezza nuova, frutto di un nuovo lavoro che ha dettato la svolta, è che le storie piccole non le vede mai nessuno, e a Varese il piccolo è la prospettiva migliore di osservazione: mentre io che sono alla loro altezza le ho sempre viste e mi sono sempre piaciute più delle altre che magari ero costretta di malavoglia a gestire per lavoro. E così, adesso che sono diventata editrice di me stessa e di tempo ne ho a sufficienza per riprendere a scrivere, questo mio povero tempo inutile voglio dedicarlo a loro e a chi, come me, sentendosi sempre troppo inadeguato rispetto alle cose importanti che vengono decise da menti superiori e scritte di conseguenza, ha bisogno nelle sue giornate di volare con la fantasia in qualche storia dimenticata dai più e raccolta da un piccolo giullare di provincia. Un giullare nel senso più genuino del termine, un cantastorie di piazza che di puntata in puntata, di giorno in giorno racconta le storie che ha raccolto qua e là camminando per via, e avendo come fidi consiglieri gli alberi, i fiori, le stelle e la luna.

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    Dovrei iniziare a raccontarvi la prima storia, ma per oggi è finito il tempo della scrittura e così ricomincio domani. Vi basti sapere, per ora, che nelle prossime pagine vi presenterò un’amica cara cui sono legata ormai da tanti anni: Flora è il suo nome. Sarà una storia che riguarda lei, e anche un po’ me. E naturalmente, riguarda anche Varese.
    A presto.

  • Le due Agnese di Belforte e la Madonna Dimenticata

    IN FOTO: IL DIPINTO DELLA MADONNA IN TRONO FRA SAN ROCCO (?) E SAN SEBASTIANO, DATABILE AL TARDO QUATTROCENTO, CONTENUTO IN PALAZZO BIUMI AL CASTELLO DI BELFORTE, VARESE.

    Cari lettori della Voce, benritrovati. E’ stato un lungo periodo di pausa, e quindi non posso che ricominciare pubblicando una storia degna per farmi perdonare un po’. Una storia di quelle che piace scrivere a me, fonti alla mano, e tanto cuore per leggere l’anima dei documenti.

    Oggi è Sant’Agnese, martire romana del IV secolo, il cui nome è passato alla storia letteraria per essere stato immortalato dal Manzoni nei Promessi Sposi nel personaggio della madre della protagonista, Lucia Mondella.

    Dovete sapere però che il nome proprio Agnese è legato al sito di Belforte in Varese da parecchio prima della celebrazione manzoniana, e rimanda a due bellissime figure di spose e madri che fecero la nostra storia: ed è proprio questa loro storia, e anche nostra, che vorrei raccontarvi oggi pomeriggio, se avrete la pazienza di ascoltare.

    La prima è donna Agnese Gambarani, figlia del conte milanese Angelo, che era andata in sposa al conte Matteo Biumi senior, figlio di Giovan Pietro giureconsulto del Collegio di Milano e di donna Violante Abbiati Foreri; proprio quel Matteo che aveva ereditato dal padre la proprietà dell’antico Castello di Belforte. Fu lui che, a causa del sopraggiungere della grave pestilenza del 1630, si era dovuto rassegnare ad interrompere l’edificazione del palazzo gentilizio che avrebbe contato, da completo, almeno un piano e alcuni edifici in più di quelli che vediamo oggi ancora in piedi.

    Matteo Biumi era quel che si direbbe un gran personaggio: Conte Palatino, Regio Consigliere, Questore del Magistrato per le rendite straordinarie, fino a divenire in età anziana Regio Ducal Senatore dello Stato di Milano e ancora Podestà di Cremona; infine, Supremo Consigliere per gli Affari d’Italia. Di donna Agnese, per la verità, ci rimane documentato solamente il nome da una fonte di fine Ottocento, ma ci piace immaginarla come una persona colta, forse spesso in viaggio per la Lombardia con il marito, elegante di modi oltre che di natali; e vogliamo che abbia amato veramente Belforte, che ne abbia sognato la memoria eroica accennata dallo storico milanese Galvano Fiamma, e che abbia cercato personalmente le vestigia dell’antica città murata andando per i boschi col figliolo e forse qualche servitrice fidata e silente.

    Quando il morbo pestilenziale dalla sua Milano arrivò a Varese, come le era stato predetto, quante preghiere avrà rivolto durante le infinite giornate di reclusione nel Palazzo alla Vergine col Bambino in San Materno, che l’architetto Bernascone, il progettista dei lavori del nuovo edificio, le aveva consigliato di conservare perché i santi Rocco e Sebastiano unitamente a Maria fossero di protezione agli abitanti del Castello contro le epidemie; quel dipinto, del resto, le piaceva così tanto, che era riuscita a preservarlo nonostante il marito volesse abbattere proprio tutto ciò che rimaneva dell’antica Rocca, oratorio compreso.

    Nel frattempo la peste dilagava: come racconta il cronista Adamollo, “li apestati di Varese furono ridotti in baracche fatte in una selva sotto Giubiano guardante Biumo Inferiore e Belforte”. Ma Agnese sapeva bene che anche il primo Lazzaretto di Milano, al Carrobbio, era sotto la protezione di Materno, e quindi la spuntò col marito e la Madonna fu salva, e salvò anche le genti del Castello: morì, invece, in quel terribile 1630 il Bernascone, grande amico di Agnese, la quale dopo di lui non volle nessun altro a completare la sua opera: ma gli aveva promesso che avrebbe preservato per sempre la Madonna di San Materno, anche perché, a detta di tutti, le somigliava tantissimo, ed era stata dipinta da una maestranza locale – narrava la leggenda – sotto l’ispirazione folgorante di un sogno premonitore.

    Ad Agnese mancò davvero poco per diventare la prima marchesa di Belforte, titolo che sarebbe stato inaugurato ufficialmente da una strana nuora che il destino le avrebbe riservato: ma andiamo per gradi. Il marito aveva comperato nel 1646 il feudo di Binasco, nel Pavese, dal principe Carlo Filiberto d’Este, principe di Ferrara, Modena e Reggio nonché antenato diretto del nostro duca Francesco III: purtroppo Matteo morì prima di poter essere investito del marchesato, ma possiamo dire tranquillamente che ormai con gli Estensi si era instaurata una certa parentela. Il titolo effettivo di marchese toccò invece alcuni anni più tardi, nel 1660, al figlio omonimo Matteo, sempre impegnatissimo in affari milanesi ed esteri quanto il padre, il quale proprio in quell’anno si portava però al palazzo gentilizio di Belforte l’Angiola bella, detta la Baslina per la sua statura minuta, figlia del contadino malnatese Pedrola e fatta sposare da quest’ultimo forzatamente ad un suo contadino, tale Giovanni Maroni. La storia, raccontata sempre dal cronista Adamollo, è arcinota, e gioverà ricordare giusto che costui era morto di crepacuore dopo la separazione, divenendo da allora il leggendario fantasma del Castello, sempre per chi crede nei fantasmi disperati. Fu probabilmente Agnese a procurare ad Angiola la tutela di una suora Orsolina di Malnate nei primi giorni del matrimonio coatto, affinché rimanesse inviolata dal Maroni che pretendeva di consumare le nozze: Matteo e Angelina, follemente innamorati e conviventi al Castello sotto l’egida di quella suocera anticonformista, avrebbero avuto un figlio naturale, Pietro Paolo Luigi, cui passerà – non senza traversie a causa del matrimonio morganatico, mai riconosciuto a Milano – il titolo di marchese.

    Finché visse Agnese, che tanto aveva pregato la Vergine di poter avere una figlia, la buona nuora che aveva assicurato la discendenza dei Biumi fu trattata come una principessa, anche dopo la prematura morte di Matteo: e il nipotino, il piccolo principe, avrà giocato tante volte a nascondino con la nonna nelle molte stanze del Castello. Ma forse, senza esser visti da nessuno, ci giocano ancora.

    Tanti anni dopo, nel 1736, la pronipote contessa Agnese Biumi, figlia unica del marchese Pietro Paolo Luigi, andava in sposa al conte Francesco Litta, da cui si sarebbe generata la nuova casata dei Litta Biumi, essendo il fratello Luigi, unico figlio maschio di Pietro Paolo, rimasto senza eredi. Proprio Luigi, o meglio la moglie, la marchesa ufficiale, nel 1690 promosse la costruzione dell’oratorio di San Materno al Lazzaretto, perché il santo era talmente caro alla famiglia che avevano deciso di trasferirne il titolo in una chiesa separata fisicamente dall’antico maniero, che ormai da tempo era divenuto un cascinale: ma donna Agnese, nonostante comprendesse le ragioni della cognata, teneva avvinta quella Madonna di cui le aveva raccontato la nonna nel cuore, e tutte le sere ai vespri aveva ottenuto dal parroco Bardelli che un coadiutore residente a Belforte vi dicesse il Rosario, dopo il suono della Martinella che raccoglieva le genti dai campi: e finché visse lei la Madonna del Bernascone protesse quelle sue genti, e le avrebbe protette anche quando qualcuno decise di nasconderla dietro ad un arazzo perché non ne fosse fatto scempio durante le aspre battaglie del maggio della Libertà, nel 1859. Di lì a poco la casata Litta Biumi si sarebbe estinta e la Madonna sarebbe stata dimenticata dalle sue genti per un secolo e mezzo.

    Dicono che quelle mani d’edera che accarezzano Palazzo Biumi siano quelle di Agnese che prega, e la manina piccola sia quella del piccolo Pietro che, discolo e impaziente, le sfugge per rincorrere un gattino.

  • La prospettiva dei fiori

    Non porta didascalie la prima foto del post: è già piuttosto chiara di suo.
    Oggi – non pioveva ancora – ho trovato sul ciglio della strada questo mazzo di fiori di campo ben legati, come fosse un fresco dono d’amore, o forse d’amicizia, caduto per sbaglio dalle ingombre mani di chi lo recava.
    Era quasi di fronte all’ingresso di casa mia, fra la ruota di un’automobile parcheggiata (non di mia proprietà, ci tengo a precisare) e il marciapiedi.
    Tornavo dai miei rapidi giri del mattino, forse un po’ troppo malinconici in queste giornate spente di luce.

    Io sento molto la mancanza della luce: il mio umore va letteralmente in tilt. Ho subito iniziato a favoleggiare sull’antefatto: chi aveva potuto raccogliere un mazzo così gentile e armonioso e poi abbandonarlo in quel luogo, e perché?

    Sembrava davvero un abbandono involontario. Qualcuno che, dopo aver parcheggiato, doveva essere sceso dalla macchina con una borsa, forse anche una valigetta, reggendo varie scartoffie oltre ai pensieri mattutini, per correre al lavoro: un giovane impiegato di qualche ufficio del centro, forse?, che nella fretta di timbrare in orario e di non dimenticarsi niente si sarà lasciato scivolare il prezioso dono da recapitare ad una altrettanto fresca e tenera collega. Una dichiarazione d’amore floreale declinata nella modalità più incantevole e spiazzante, quella dei fiori spontanei, quelli che non ci aspetterebbe certo dal guidatore di un BMW, ammesso che il proprietario di quella ruota (e delle altre tre, facciamo quattro compresa quella di scorta) possa essere la stessa persona che avrebbe dovuto omaggiare la sua bella in maniera così romantica. Peccato davvero che il tutto, dichiarazione e omaggio, sia scivolato dalle sue mani senza arrivare mai a destinazione. Quando se ne sarà accorto il Nostro? Durante il tragitto, senza poter avere il tempo di ripercorrere i suoi passi per cercare il mazzolino perduto, oppure già ampiamente giunto a destinazione?

    E se invece di un giovane si fosse trattato di una persona più matura?
    Un uomo già sulla cinquantina, con una posizione, che forse si sposa meglio all’idea della macchina di lusso rispetto al giovane travet magari spiantato, con in mente tutto al mattino appena alzato tranne che andar per campi a raccogliere papaveri e margherite per un amore segreto? Un uomo che conosce già abbastanza la vita, e il cosiddetto gentil sesso, e forse – dopo tanti amori falliti, pretenziosi e capricciosi – ha conosciuto finalmente una donna semplice, e delicata come un fiore di campo: una commessa? La nuova signora delle pulizie dell’ufficio? e non sa come altro dirle che si è perdutamente innamorato di lei?

    E se invece fosse stato un bambino, nel giorno del compleanno della sua maestra del cuore, a perdere il fresco involto?

    Chi lo sa. Perché poi dovrebbe trattarsi necessariamente di un pensiero rivolto da un uomo ad una donna? Non potrebbe essere il contrario? O di una ragazza ad una sua amica, per chiederle scusa per il litigio che le sta dividendo da giorni?
    E se invece fosse un segno per me? Dai miei personaggi, perché li sto trascurando un pochino per altre faccende? Ecco, vedi? Siamo così. Come dei fiori raccolti nel pieno della lucentezza, e che poi hai abbandonato per rincorrere come al solito altre strade.
    No, miei cari. Non vi ho abbandonati. Sto solamente riflettendo sulla maniera più opportuna di “lanciare” le vostre storie, e questo blog che – essendo ancora molto giullaresco, non pare avere né capo né coda né organizzazione cronologica. Devo dargli una sistemata, e vi assicuro che poi torneremo all’opera meglio di prima.

    Margherite al Castello di Belforte

    Ma… se invece fosse, come credo sia, la mia Varese a sentirsi trascurata da chi dovrebbe prendersi cura di lei nelle piccole cose?
    La città fiorita, come veniva chiamata nella prima metà del Novecento, memore del retaggio liberty che le aveva impresso un’aura unica al mondo, ma anche della preziosa fama lasciatale dai meravigliosi Giardini del Duca, dalla passione floreale di Luigi Sacco (ne parleremo: amava in particolare le camelie), della Scuola Agraria del cavalier Pontioggi così abbandonata ad un destino di decadenza ingloriosa.

    (un articoletto di giornale del 1938)

    I fiori si riprenderanno i loro spazi, certamente. Ma di spazi dignitosi ai fiori non ne mancano di certo, mentre invece la dignità perduta alla Città dei Fiori chi potrà farla rifiorire, se invece che occuparsi del suo decoro nelle piccole cose i nostri amministratori pensano sempre e solo ad imbastire cantieri per grandi opere, dimenticandosi che una città va osservata anche e soprattutto dalla prospettiva di un fiore?

  • Luigi Sacco, che dimenticanza!

    28 aprile 2022

    La lapide commemorativa dedicata a Luigi Sacco sullo scalone d’ingresso della scuola Mazzini di Varese

    In questi giorni, lettori affezionati, non ho molta voglia di scrivere: succede, è tipico di chi si interroga spesso sulle ragioni della sua scrittura e ha magari da arrovellarsi in questioni personali che lo distolgono dai propositi letterari. Ma non disperate: sono in cantiere tante belle e curiose notizie e la continuazione delle storie che ho impostato nei giorni prefestivi.

    Oggi andrò quindi al sodo commentando la pagina odierna di Facebook del Ministero della Salute.

    Fermo restando che non ho alcuna voglia di imbarcarmi in sterili e divisive polemiche pro vax e no vax (ho già dato in abbondanza nei tempi passati e non intendo cascarci ancora), volevo far notare a chi ci governa e crede di essere depositario del Verbo sull’argomento, che ci sarebbe una lieve (si fa per dire) dimenticanza nel post tematico del giorno: il varesino Luigi Sacco (Varese, 9 marzo 1769 – Milano, 26 dicembre 1836), che pace all’anima sua è stato colui che studiò il virus del vaiolo al mercato della Motta di Varese attraverso l’ispezione delle pustole comparse sulle vacche esposte a detto mercato, appunto: era il 1800, cifra tonda. Il dottor Sacco, cui è intitolata peraltro un’importante scuola elementare di Varese, anzi del quartiere di Belforte, proprio quello del castello del mio precedente articolo – poi un giorno vi racconto pure il perché della titolazione, confidando anche nel riscontro d’archivio della mia intuizione – fece qualcosa di inaudito: si inoculò il liquido estratto dalle pustole per autovaccinarsi: contratto il virus vaccino ne guarì e rimase immune al vaiolo umano. Dopo aver sperimentato su se stesso la pratica vaccinatoria la eseguì con successo sui bambini, che erano sempre state le vittime sacrificali di quel morbo che davvero poco scampo lasciava all’infanzia e non solo a quella. A questo punto lasciatemi ricordare qualche verso dell’ode del Parini L’educazione, che parla della guarigione di Carlo Imbonati allora undicenne da una grave malattia, probabilmente proprio il vaiolo: so che il Parini viene citato sempre per l’altra ode, L’innesto del vaiuolo, ma a me piace molto di più questa.

    O mio tenero verso
    Di chi parlando vai,
    Che studj esser più terso
    E polito che mai?
    Parli del giovinetto
    Mia cura e mio diletto?

    Pur or cessò l’affanno
    Del morbo ond’ei fu grave:
    Oggi l’undecim’ anno
    Gli porta il sol, soave
    Scaldando con sua teda
    I figliuoli di Leda.

    Non ho molta voglia di scrivere, ribadisco, e quindi vi lascio con le vostre considerazioni sulla figura di Luigi Sacco, mio personale mito da molti anni e non sospetti facendovi fare un’autonoma ricerca sulle sue res et gesta in rete: sappiate solo che senza di lui, senza le sue scoperte, senza il suo perfezionamento della pratica del vaccino… senza Varese!, altro che eradicamento del vaiolo! Avevo detto che non avrei innescato micce, invece mi piace contraddirmi e quindi a voi la palla: oltre a rivoltarsi nella tomba (che non esiste più, per inciso, esattamente come quella del povero Parini) per quanto occorso e spacciato negli ultimi tempi, lui che da galantuomo non avrebbe mai utilizzato la sua scienza per dividere e opprimere ma solo per puro spirito di filantropia, non sarà doppiamente offeso dalla dimenticanza di cotanti senni al potere?

  • Il bel tempo è arrivato: è ora di salvare il Castello

    un fiore di campo in primo piano sul secentesco Palazzo Biumi, aprile 2022

    C’è sempre un fiore per ogni storia.

    Sul Castello di Belforte ho scritto e lavorato tanto: credo, senza nulla togliere ai molti colleghi che se ne sono variamente interessati, di essere la giornalista che più se ne è occupata negli ultimi anni, riempiendo pagine di giornale, realizzando video informativi sul campo per i social – mio è il Bollettino di Belforte su Facebook – e anche attraverso l’organizzazione di un convegno dedicato, nel 2017, Voci dal Castello. Del resto io coltivo un legame atavico con la storia della mia gente: io sono belfortese, benché di molte meno generazioni di chi possa vantare la presenza della sua famiglia in uno status animarum cinquecentesco: ma il radicamento in un popolo e nella sua terra non dovrebbe essere valutato dal numero di anelli dell’albero genealogico, bensì dalle radici e nelle ramificazioni della pianta, ovvero nella sua capacità di legarsi a quella terra e a quella gente e produrre nuovo nutrimento per lei.

    Ogni giorno io passo dal Castello. Immancabilmente, che sia al mattino prima o dopo il lavoro e le commissioni, che sia al pomeriggio o alla sera, vado a portargli un saluto. Abito sulla direttrice che collega le scuole al vecchio maniero, e non mi costa una grande fatica essere presente: e però è una presenza di cuore, prima ancora che corporea. E’ un pensiero costante e fedele, che so essere proprio di molti altri belfortesi: il Castello, benché in rovina da decenni, è un’icona che ci rappresenta, un baluardo cui ci aggrappiamo per rivendicare la nostra identità, un monumento totemico cui rivolgiamo le nostre devozioni di gente fiera e anche un po’ selvatica, spesso con il sentimento di essere dimenticati dai grandi progetti di chi ci amministra, rivolti sempre verso cose e vissuti più importanti, più da salotto buono insomma: quel salotto buono al quale, pur essendo la vocazione culturale piccolo borghese della Città Giardino – diciamoci la verità – Belforte non si è proprio mai adeguata, tagliandosi via una buona fetta di possibilità di varia natura, e dovendosi di conseguenza sempre accontentare di qualche remasucc elargito con significativo e ostentato sforzo.

    E’ così che, quando il 9 di febbraio ho ricevuto la fausta notizia dei finanziamenti dal Ministero dalla persona medesima del Sindaco, sono rimasta un po’ stordita. 5 milioni di euro da destinarsi al recupero del maniero di federiciana memoria, benché detta memoria, opportunamente scavata – da Galvano Fiamma in poi, Belforte è stato materia per tutti i cronisti presforzeschi, sforzeschi e post sforzeschi di grido – ci riporti ben più indietro. Non volendo magari credere del tutto (!) alla leggenda della fondazione troiana dell’eroe Belforte (effettivamente di sapore mistificatorio: ma era un must tardomedievale delle grandi casate di tutt’Europa dai Plantageneti agli Este passando per i Visconti e gli Sforza, appunto, attribuirsi origini troiane: vogliamo mettere gli Orrigoni prima e i Biumi poi da Belfort?), non si negherà certo la parentela del sito con la longobarda Castelseprio, e non certo solo lei. Quindi, una memoria diciamo come minimo millenaria, benché tutto lasci pensare – e quante volte abbiamo chiesto di sorvolare i boschi locali coi droni come fecero appunto a Castelseprio un lustro fa gli studenti archeologi della Cattolica… che la “città perduta” di Belforte citata appunto dai cronachisti milanesi non fosse altro che le vestigia di un castrum molto più esteso delle rovine rimaste a presidio della valle: un castrum longobardo, appunto, risalente come minimo al V secolo.

    Se vogliamo dirla tutta, insospettisce e non poco la titolazione a Materno dell’attuale chiesina del Lazzaretto, su cui ricadde però la titolazione di una preesistente chiesa nei dintorni citata dal Liber Sanctorum Mediolani di Goffredo da Bussero: c’è chi dice sull’attuale sito del nuovo tempio, e chi invece – come il mio “solito” nume tutelare Leopoldo Giampaolo (in Chiese, conventi ed edifici della vecchia Varese scomparsa, 1981) all’interno delle vestigia del Castello. Tesi che, ovviamente, ho fatto mia da tempo, per tanti motivi che vi racconterò un’altra volta, ma confortata da esperti (come Franco Prevosti, che – presidente della Commissione Cultura all’epoca dei rifacimenti del 2006, per primo assistette al ritrovamento del dipinto della Vergine in trono fra i due Santi, forse Rocco e sicuramente Sebastiano).

    Palazzo Biumi al centro, e a sinistra nella foto la porzione medievale da recuperare a parco archeologico

    Questa storia è un po’ lunga, e quindi esattamente come le altre andrebbe un po’ diluita.

    Sta di fatto che, tornando a quel 9 di febbraio in cui ricevo la notizia dei finanziamenti del ministro Franceschini, è primo pomeriggio, fa freddo e io sto recandomi dal mio amico libraio antiquario Canesi in via Walder (custode di tante confidenze e intuizioni: se volete leggere la sua storia, l’ho scritta su RMFonline qualche tempo fa e la trovate QUI) a recuperare la mia doppia copia del Calandari do ra Famiglia Bosina. Se vi ricordate, quest’anno ho pubblicato la storia parallela a quella di Flora (a proposito: se non ce l’avete, correte da Canesi a comperare il Calandari): la storia del ritrovamento dei primi diari di classe del giovane maestro Leopoldo Giampaolo.
    Cito una frase da quell’articolo, che poi spiego. «(…)in suo nome (ossia di Giampaolo) vorrei chiedere all’amministrazione che reggerà Varese fino al 2026 – e sono certa che porterà il segno del mio amico Davide – di tener fede alla promessa fatta intorno al recupero del Castello di Belforte: perché è una promessa fatta anche a colui cui era tanto caro quel San Materno che a Maccagno lo aveva visto nascere. Quel San Materno a sua volta scopritore di reliquie, quelle di San Vittore, su cui si fonda la nostra cara e sacra storia varesina».

    Si narra che esista un colloquio di segni con chi ci ha preceduto in un cammino, e che si riconosca la sua carezza in questi segni. Il giorno in cui ritrovavo i diari del futuro vate della storia varesina era una mattina di novembre, il sette per la precisione, e il sette di novembre era – ma lo avrei scoperto poco dopo nel pomeriggio – il giorno in cui aveva dovuto salutare la sua amata Varese per l’ultimo viaggio terreno. Proprio quella mattina di quattro anni or sono, mentre sto avidamente leggendo al freddo dello scantinato fatto archivio e su un banco rotto quei registri impolverati alla luce fioca di una lampadina che si sarebbe fulminata nei mesi successivi, costringendomi a illuminazioni di fortuna (cosa non si fa in nome della ricerca!), mi giunge inatteso un messaggio del Sindaco che suonava più o meno così: “appena fa bel tempo sistemiamo il Castello”.

    Ora il bel tempo è arrivato, caro Davide, e la promessa al fondatore della Società Storica Varesina deve essere mantenuta.

    Leopoldo Giampaolo, ritratto di Antonio Ricci

    Coraggio. E che tutto si disponga in nome di quella gioventù tanto amata dal nostro Maestro, quel nostro Futuro a cui dobbiamo tanto, a cui abbiamo tolto troppo, e che durante i due lunghi e luttuosi anni della pandemia si è voluta assumere il ruolo ideale di paladina di quel Castello alla cui ombra ha giocato per millenni, per resistere al fluire vorticoso del virus della dimenticanza e alla mattanza mediatica degli inutili innocenti.
    Lo so, sono pensieri forti, ma doverosi. Tutti dovremmo chiedere scusa ai nostri ragazzini, accusati dai giornali asserviti al mainstream dominante – non posso dimenticarlo! – delle più orribili nefandezze: di essere untori, di portare la morte in casa, della colpa di voler continuare a vivere. E che allora siano loro, che ci hanno insegnato in questi due lunghi anni a sopportare, siano loro a ridisegnare la vocazione del Castrum di Belforte, che tanta dimenticanza e tanto oltraggio ha sopportato nei secoli: distruzioni, e poi rinascite, e poi ancora distruzioni e poi abbandoni. Loro che hanno custodito la voce di ciò che non voleva morire, seminino i fiori del tempo che verrà. Tempore Belforte, citando il titolo di un celebre saggio di Alfredo Lucioni che riprende un indicatore temporale in voga all’epoca del giudicato belfortese del XII secolo. Andrebbe rispolverato.

  • Flora, maestra montessoriana, arriva a Varese

    Il Calendario montessoriano della Montesca compilato da Flora sul registro di classe di Valle Olona 1929/30

    Cari lettori,

    innanzitutto, che sia una Buona Pasqua di Resurrezione e Rinascita per tutti noi.

    Come promesso, proseguo con la storia di Flora, che – ne ero sicura – sta appassionando molto i già numerosi affezionati a queste pagine. Una storia molto particolare, che ho scoperto alcuni anni or sono ritrovando i diari negli archivi sotterranei della scuola Righi di Varese – quartier generale storico del comprensivo VARESE 1 – e che ho deciso di pubblicare a partire da questa primavera: e il motivo lo scoprirete proprio in questa puntata, perché si tratta di un’autentica sorpresa di Pasqua.

    Ci vorrà un breve riassunto per ritrovare il filo del discorso, e anche qualche aggiustatina rispetto alla puntata precedente. Una mattina di inizio dicembre del lontano 1929 una giovane maestra trentenne di Milano, Flora V., approda a Varese dopo un viaggio in treno che le sarà sicuramente rimasto impresso nella memoria per sempre: tant’è vero che sul registro – e perdonatemi, ci ho riflettuto solamente dopo! – anziché lunedì 2 dicembre – data dell’effettiva presa di possesso della cattedra – annota la data del 1 dicembre, che in realtà quell’anno cade di domenica.

    Proviamo ad immaginarci quell’ora (magari senza ritardi…) di percorso in un mattino di gelo dell’incipiente inverno. Flora, donna colta e curiosa, vuole arrivare nella città che la ospiterà fino alla fine dell’anno scolastico informata sui luoghi e sulle situazioni in cui si troverà ad operare: così, in stazione a Milano, acquista probabilmente la Cronaca Prealpina in edicola, nell’edizione domenicale che a quel tempo copre anche il lunedì. Subito le balza all’occhio un pezzo di Giannetto Bongiovanni – molto ben scritto, si sarà detta – che traccia un rapido sguardo sullo stato dell’arte del turismo a Varese e provincia: una vera e propria “questione turistica” dibattuta in quei giorni nella Provincia Giardino, “fra tutte le sue consorelle italiane una delle meglio dotate, una delle più felici, una delle più belle”, benché ci sia ancora molto da migliorare nella rete di comunicazioni: “dalle due stazioni – legge Flora – irradiano ferrovie, tranvie, automezzi i quali, in coincidenza con battelli, funicolari ecc, permettono di girare in lungo e in largo le più belle vallate e le più belle località della regione. Non è detto – osserva il cronista – che però non possano essere migliorati”.

    L’articolo di G. Bongiovanni del 1/2 dicembre 1929 sulla Cronaca Prealpina

    La nostra maestrina è felice: si sente chiamata in un ambiente che le sarà sicuramente amico. Già immagina di far lezione con la sua classe immersa in quegli scenari incantati: fiumi, laghi, monti, colline… Scorrendo le pagine, viene catturata dalla rubrica delle Notizie letterarie che riporta un’offerta di un milione di lire fatta da un editore americano ad “uno scrittore e poeta italiano, italianissimo, il più grande di tutti”, Gabriele D’Annunzio, “purché egli si impegni a scrivere un libro autobiografico”. E mentre ai suoi occhi, dal finestrino, gli scenari prealpini si fanno sempre più nitidi e si inseguono i monti e i campanili, inseguendosi con le notizie del giornale – al Sociale danno, in quei giorni, proprio per le scuole elementari, gli spettacoli delle marionette di Yamba – un trafiletto in chiusura la immalinconisce: Varese piange la sua maestra Savina, insignita della medaglia d’oro ai benemeriti, morta dopo breve malattia e quarant’anni di insegnamento iniziati proprio nella scuola dove Flora sta per prendere servizio: alla De Amicis di Valle Olona. Savina Faini, questo il nome della compianta, ha avuto l’onore di avere fra i suoi allievi anche lo scrittore di successo Guido Da Verona.

    Il trafiletto di cordoglio per la maestra benemerita Savina Faini, pietra miliare della scuola varesina di inizio Novecento

    Quella domenica trascorre alacremente nei preparativi, forte dell’ospitalità allestita rapidamente da alcuni amici di famiglia in una villa di villeggiatura: il trasferimento è stato comunicato dall’oggi al domani. Ma il tempo di organizzarsi ci sarà: l’importante sarà prendere confidenza le ventinove bambine che la attendono come la manna dal cielo, essendo la loro classe divenuta decisamente ingestibile nei numeri, una sessantina di unità sotto un unico e giovane insegnante pur di buona volontà e ottima preparazione, Leopoldo Giampaolo.

    Il frontespizio del registro dello stesso anno scolastico 1929/30 del maestro Leopoldo Giampaolo

    Fin qui, più o meno, conoscevamo la vicenda. Insediatasi nell’affetto corale delle bambine, Flora lavora spesso in collaborazione con il collega di terza maschile al quale ha dimezzato le fatiche, tant’è vero che per mancanza di spazi decidono di realizzare un unico presepe nella classe dei ragazzini, mentre alle piccole spetta decorare l’albero che viene benedetto dal Parroco: un albero “pieno di buone intenzioni e di buoni propositi”. Tanto apprezzato che la nostra Flora formula un invito alla scuola di Bizzozero allo scopo di far ammirare gli allestimenti natalizi, ma soprattutto di instaurare una concreta amicizia che effettivamente sboccia e si alimenterà negli anni di una corrispondenza fitta fra le bambine: di mese in mese, come si evince dal diario di classe, si scambiano visite reciproche e notizie storiche e di vita quotidiana sui rispettivi rioni.

    Le vacanze di Natale quell’anno durano dal 22 dicembre al 3 di gennaio, quando riapre la scuola. Il 25 Febbraio Flora orgogliosa scrive: “Oggi la nostra scuola ha avuto l’onore di ricevere la visita del nuovo Prevosto della Città, il Reverendo Alessandro Proserpio, il quale ha avuto parole cortesi e famigliari con le alunne e si compiacque della loro espressione di letizia e della salute buona che traspaiono dai loro visetti”. (Monsignor Proserpio, il buon Prevosto degli anni di guerra, è ricordato in un monumento splendido opera – se non vado errata – di Vittore Frattini all’ingresso del Cimitero di Belforte. Portategli un fiore e una preghiera, se passate da quelle parti).

    Il bel diario, puntuale nella sottile scrittura a pennino, si snoda in triplice forma: un rapido schema annuale, un programma mensile e un resoconto in cui la maestra annota di volta in volta le vicende più significative occorse in classe. Ma nel programma mensile balza all’occhio un dettaglio non secondario, e potete immaginare la mia emozione nell’apprenderlo: la giovane insegnante è di formazione montessoriana ed è probabilmente una delle prime maestre specializzate nel metodo che tanta fortuna avrà nei decenni successivi. Flora, infatti, ha cura di definire con cura il proprio “Calendario della Montesca” negli argomenti da trattare per ogni materia: per prima viene la religione, affrontata con le preghierine ma anche la spiegazione del culto popolare dei santi, dopodiché si passa al canto e al disegno dal vero, dove saper tratteggiare lo schizzo di una foglia degli alberi del giardino della scuola – che diverranno per lei e le sue allieve totemici amici e custodi – è altrettanto importante quanto l’ortografia e le regole dell’aritmetica.

    Passano i mesi e arriva la primavera: è il 31 marzo quando Flora racconta di aver già fatto quattro uscite sul territorio con le sue allieve.

    “Fino ad oggi le passeggiate furono quattro. La prima ebbe per scopo o studio geografico del luogo: l’orientamento, il concetto di colle, di versante, di vetta ecc e fu studio d’osservazione della natura invernale. La seconda fu la visita ad una casa in costruzione. La terza ebbe principalmente lo scopo di misurare la distanza della scuola dal centro di Varese e il fine di dare un concetto intuitivo dell’ettometro e del chilometro.

    Oggi con le altre classi si fece un’altra passeggiata con lo scopo di conoscere parte dei dintorni di Valle Olona e di osservare la natura risvegliantesi al tepore primaverile”. La visita alla casa dà modo a Flora di lavorare sullo studio degli ambienti domestici e anche di iniziare un bellissimo lavoro comparativo fra il dialetto e l’italiano: parlando con i muratori, infatti, nasce l’idea di tradurre le parole della casa dal dialetto all’italiano e viceversa.

    Flora annota di volta in volta le varie visite: quella del direttore sezionale che si complimenta per il suo lavoro, quella del medico vaccinatore dott. Pisani, infine quella della vigilatrice che trova parecchie alunne anemiche: Flora riconosce che la causa delle mancate cure “ricostituenti” è la povertà delle piccole, indicata purtroppo quasi coralmente a margine dell’elenco alfabetico nel registro.

    Arrivata a questo punto, mi è necessario fermarmi per non appesantire troppo il racconto e la lettura: riprenderemo da dove ci siamo fermati.
    Dopo le vacanze, assieme alle altre storie, proseguiremo con qualche notiziola sulle avventure di Flora e sulle sue tenere allieve.

    Sperando di aver tenuta avvinta la vostra attenzione, e certe di aver fatto cosa gradita nell’anno montessoriano di aver svelato la sorpresa, auguriamo a voi e alle vostre famiglie una lieta Pasqua (in ritardo: ormai Pasquetta!) e feste serene ovunque le trascorriate.

    Laura, con la complicità di Flora.

    (Questa puntata è dedicata ad Ave, custode dele chiavi del giardino di Varese, nel primo suo anniversario, e alla sua mamma Maria, indimenticabile amica e prima lettrice)

  • Il giorno della Passione

    Cari lettori,

    domani, finalmente, e sono davvero felice che in tanti la stiate aspettando – le maestre varesine in primis – pubblicherò una nuova puntata di Flora.

    Oggi però è il giorno della Passione di Nostro Signore, giorno del silenzio e della meditazione. Anche Flora era molto pia, e – come vi raccontavo di recente – dopo essere tornata a Milano per quarant’anni volle essere sepolta in un piccolo camposanto varesino con la sola icona del Crocefisso di Giovanni Paolo II, tra l’altro di pregevole fattura, a sovrastare il bel monumento di granito rosso sempre adornato di fiori. Questa devozione verso il Pontefice dei Giovani, che condivido, mi ha commossa, giacché Flora è rimasta in vita sino al gennaio dell’86 – era nata nel 1899, ricorderete – e quindi visse e amò i primi anni di quel luminoso e ardente pontificato con la luce medesima dei tempi giovanili, riuscendo probabilmente a seguire il Santo Padre Karol Wojtyła sul Sacro Monte nella sua visita pastorale del 1984. Ma di questo parleremo più avanti.


    Per oggi ho scelto un’immagine che mi è cara e che ho ritrovato recentemente in archivio storico comunale, dove mi reco settimanalmente a studiare (colgo l’occasione per salutare gli amici archivisti, Antonella, Maurizio e Andrea, che mi assistono sempre con una gentilezza e una perizia unici): si tratta dell’Uomo del Golgota disegnato dal canonico Carlo Castiglioni nell’ultima pagina della copia da lui fatta della Cronaca dell’Adamollo nel 1819 (Arch. St. Com. Va., Cat I cartella 14). Credo non sia necessario ricordarvi che l’Adamollo è stato uno dei massimi cronisti varesini, nato nel 1687: recuperando la cronaca del Giulio Tatto e passando poi a scrivere da testimone oculare, riportò la storia di Varese dagli anni compresi fra il 1575 e il 1745: a proseguire il suo lavoro fu un medico, il dott. Luigi Grossi, che la compilò sino al 1846. Ma dei cronisti varesini di epoche diverse dalla nostra, e ciononostante che tutti noi cronisti dovremmo conoscere e tesaurizzare, riparleremo in seguito.

    Perché il sacerdote Castiglioni, originario di Carnago e appartenente alla Basilica di San Vittore, professore presso le scuole cittadine e studioso puntuale della storia di Varese (così ci racconta il Giampaolo, cui oggi faccio appello in quanto storico e mio nume personale) scelse proprio questo “logo” per firmarsi e per firmare la copia delle memorie di quei secoli che tanto lo avevano affascinato?
    A mio giudizio volle interpretare il sentimento dell’uomo esposto a quei venti di cui già accennavo agli esordi di questo blog: il Cristo in croce è l’emblema dell’umanità in balia delle forze che vorrebbero dominarlo, del dolore, della disperazione, dell’angoscia di fronte all’ignoto che ci trascina contro il nostro volere. Negli anni in cui l’Impero napoleonico con i suoi regni cedevano verso il ripristino dello status ante, la grande incertezza politica preludente alla Restaurazione avrebbe recato in sé in realtà i germi di una nuova era e di una nuova coscienza nazionali. Erano gli anni, fra le altre cose, in cui si riscopriva il genio di Dante, obliato per tanti secoli: e chi più di lui scrisse, essendone stato esposto e pesantemente in prima persona, di venti devastatori e rapinosi, e della passione di Cristo, a partire dalle pagine di quel capolavoro assoluto, il primo libro della letteratura italiana, che è la Vita Nova, associandole alla sua ragione di vita poetica, a Beatrice? Chissà chi si ricorda il sogno premonitore della morte della sua donna, associato nelle immagini al venerdì di passione. La tempesta impetuosa, l’oscurità, le stelle che paiono piangere, gli uccelli che paiono cadere e morire dal cielo; il terremoto.

    La seconda, iconica immagine a cui vorrei affidare queste poche righe di oggi è ancora varesina e ci riporta ad un secondo camposanto, non quello di Flora: si tratta del cimitero di Velate, ove riposano anche i miei nonni, e proprio di fronte ad una scrittrice a me particolarmente cara perché è stata colei che ha rivoluzionato – e proprio da Varese – la letteratura italiana popolare, nella declinazione del romanzo sentimentale: Liala. Di lei mi sono variamente occupata e a vario titolo; mi preme ricordarla oggi, affettuosamente, nel giorno della sua scomparsa – 15 aprile 1995 – perché nel giorno dei 125 dalla nascita (31 marzo) non è stato allestito nulla per ricordarla. Io vado spesso a trovare la nonna e anche lei: mi siedo sui gradini del suo bel monumento con un libro in mano e quietamente leggo e le parlo, e di tanto in tanto qualcuno mi vede, si ferma e mi chiede, e io rispondo suggerendo un libro. Anche Liala era molto pia e nel suo ultimo riposo – mi raccontava un’amica infermiera che l’aveva accudita alla Quiete sino all’ultimo respiro, Mariuccia di Belforte – si fece seppellire con un magnifico crocefisso avito fra le mani (la sua famiglia aveva un papa nei geni), rivolta verso la memoria della Torre da un lato e quella del Sacro Monte dall’altro, con l’immagine della Via Crucis. E per quel raro gioco di segni che pochi sappiamo cogliere, era legata ai medesimi luoghi cari che furono tali a Flora, di cui peraltro era pressoché coetanea.

    A domani.

  • Piccole questioni programmatiche; e in più il mistero di Flora.

    Il frontespizio del diario di classe del primo anno di insegnamento di Flora a Varese.

    Cari lettori,

    in questi giorni mi state confermando che le storie che vado pubblicando sono di vostro gradimento. Vi devo confessare che, sebbene io abbia per deformazione professionale il classico fiuto del cronista per gli argomenti che si fanno leggere, non mi aspettavo che le piccole cose legate alla memoria dimenticata di Varese e scritte nella nuova veste del giullare avessero da subito un seguito così ampio, soprattutto fuori dal contesto nel quale sono nate (mi state scrivendo e leggendo in tanti da altre città e regioni).

    Alcuni di voi mi hanno chiesto perché non le raccolgo in un libro. Un lavoro piuttosto impegnativo è già in cantiere da tempo, ma non ho fretta di pubblicarlo, forse perché mi tiene compagnia con continue novità e scoperte e non riuscirei a staccarmene troppo presto: così, mentre indago negli archivi cittadini e non – la memoria di Varese è sparsa ovunque, sappiatelo! – e passo al setaccio il materiale per il libro dell’anima, mi rimane fra le dita sempre qualche voce che non saprei molto come far rientrare nell’indagine principale. E siccome quando una voce perduta salta fuori all’improvviso da un documento chiamando proprio te non puoi non ascoltarla, ho cercato un modo non complicato dal punto di vista editoriale per dare a queste voci la dignità che era stata sepolta da anni, a volte secoli, dalla polvere del dimenticatoio. La stessa cosa, del resto, che ho fatto per anni con le voci belle e inaspettate che affiorano da un negozio al mattino, da un cancello, da un parco… voci che seguirò ancora nei giorni che verranno: perché la cronaca mi è rimasta nel sangue, e anche se non la pratico più per conto terzi, è una dimensione che non potrò mai rinnegare: palestra di scrittura e di vita, continuerà per sempre ad esserlo.

    Mi avete anche chiesto di presentarmi, perché volete conoscere chi sono e sapere della mia persona. Vi rispondo che qui e là sicuramente emergerà qualcosa che mi riguarda, ed è già, ad oggi, venuto a galla parecchio: ma non ho interesse a fare come tanti noiosi che si mettono sul piedistallo e fanno inchinare ai loro piedi i loro personaggi. A me non spetta, qui, raccontare me stessa se non attraverso la scrittura delle storie che mi sono entrate nell’animo, e in cui casco debitamente un po’ come l’Alice di Carrol o – per rimanere sul nostrano – la Cascherina di Rodari. Ecco: prendete di me di volta in volta quello che si trova in un pezzettino nuovo che leggete: io mi ci specchio dentro prima di scriverlo.

    Il cancello della scuola Righi di Varese – anno 1884 – ove sono custoditi gli archivi scolastici in cui ho ritrovato i diari di Flora.


    Un’ultima cosa: non tormenterò il lettore con post a cadenza quotidiana. Oggi, ad esempio, vi disturbo con questo breve testo programmatico, ma in realtà sto lavorando, per pubblicarlo nei prossimi giorni (ora vedrò se a cadenza più o meno fissa) al “filone” di Flora: una storia delicata e con risvolti romantici che spero vi conquisterà passo dopo passo, come del resto pare abbia già fatto sin dalle prime battute. Dovrebbe catturare anche gli amanti del mistero, perché faremo i conti con più di un’incognita nella vicenda che la vede protagonista: a partire dalla sparizione di qualsiasi immagine che la riguardi. Mi credete se vi dico che ho scartabellato ovunque, ho chiesto a chiunque possa averla conosciuta ma non c’è soluzione all’enigma? Persino sulla sua tomba – eh già: noi amanti delle indagini d’archivio teniamo le lapidi in gran conto, dal momento che una foto salta sempre fuori al cimitero! – non esiste più la fotografia in ceramica che occupava lo spazio delimitato dai gancini metallici: cosa ne sia accaduto, e chi se la sia portata via, e quando, non ci è davvero dato ad oggi di sapere.
    Non vi dirò dove è sepolta, per ora, e magari mai: riposa in uno dei quattordici cimiteri varesini – i miei meravigliosi musei varesini a cielo aperto, uno più spettacolare dell’altro benché davvero poco valorizzati – e sono io in persona a prendermi cura della sua memoria. (Subito dopo i primi inattesi riscontri alla prima puntata, facendomi aiutare dalla mia amica e lettrice Raffaella, fioraia indunese, le ho portato un coloratissimo bouquet primaverile di stoffa a cui ho aggiunto anche qualche fiorellino colto nell’aiola antistante alla De Amicis, che ho lasciato seccare nel bel lume perennemente acceso, benché non si trovino parenti, o amici, o conoscenti che sappiano qualcosa di lei, mancata nel gennaio del 1986, e tornata a Varese dopo quarant’anni di assenza un mese prima di morire – la conferma è dalle anagrafi congiunte di Varese e Milano – apparentemente senza spiegazioni).

    Dulcis in fundo, dato che il tema cimiteriale mi è particolarmente nelle corde, tenetevi pronti a leggerlo abbastanza spesso. Risuonerà – ve lo preannuncio – tutt’altro che funebre in questi spazi, così come non suona tale assolutamente per me, che frequento più volentieri i morti dei vivi, ultimamente, e chiacchiero con loro amabilmente allo stesso modo attraverso un diario ritrovato o tramite un atto anagrafico, o reperito negli archivi parrocchiali, o ancora una fattura di bottega di cento-e-cinquanta-anni-fa, e infine di fronte ad una lapide, appunto. Colgo l’occasione con questo post per mandare un bacio a tutti coloro che in questi ultimi anni hanno lavorato con me e per me sugli svariati fronti della memoria, essendone custodi: per quanto mi riguarda sono le persone più affascinanti e umanamente premurose, benché sovente obliate, proprio come ciò che accudiscono silenziosamente e con devozione.
    (Grazie Luisa per avermi permesso di lavorare negli archivi della Righi per tanti anni. TVB. Questo post è per te)

  • Ruggero il legnamée

    Cari amici,

    oggi il cielo è di quell’azzurro limpido e pastoso come quei piccoli fiori che prendono il nome dagli occhi della Madonna, con qualche rara nuvola vagante a contrastarne il campo. E però soffia un vento fortissimo, che non dà requie ai pensieri e alle membra: quel vento che di qui, di là, di su, di giù conduce i protagonisti del Furioso a destini impensati, sbattendoli maliziosamente fuori dai loro buoni propositi e dalle strade intraprese.

    Sarà che sono particolarmente legata a tutti i letterati di vento – da Arnaut a Dante a Petrarca all’Ariosto eccetera – ma da qualche giorno avrei dovuto scrivere una piccola storia bellissima, che a quelle corde letterarie è strettamente legata: sì, perché è la storia di Ruggero il Legnamée, occhi di cielo e chioma di aria ventosa, cui tiene moltissimo e che infatti protegge devotamente con la “scuffia” nei giorni più freddi; una storia che ho ritrovato da poco con piacere dal mio amico prestinaio Luca Famlonga di Belforte, bottega in cui le narrazioni della quotidianità si impastano assieme al pane, e ne si cava di volta in volta irripetibile poesia che allieta le giornate di primo mattino.

    «Ruggero senza i» specifica l’anziano signore contando le monetine del resto che gli dà Laura, la sorella di Luca. Mi guarda divertito e in un niente prende a raccontare la sua vita. «Sono un ragazzo del ‘34» dice «e da bambino ho visto la guerra: i miei genitori facevano i contadini a Legnago. Che tempi, quelli in cui non bisognava sprecare niente: e neanche i talenti. Perciò, anche se si faceva fatica a mangiare, siccome i miei sapevano che volevo diventare un artigiano, alla fine della quinta elementare mi hanno permesso di andare ad imparare come si creano i mobili». Chissà perché lo immagino in groppa all’ippogrifo mentre la mattina vola con la gioia nel petto verso mondi sconosciuti. «Difatti – continua nel sorriso entusiasta che si accende al ricordo della gioventù – mi facevo ogni giorno in bicicletta dodici chilometri al giorno per andare a studiare alla scuola tecnica». Una storia di biciclette che non avrebbe potuto finire altrove se non a Belforte e nella mia penna, penso, mentre il cuore guizza al murale che ho fatto coi ragazzini della Salvemini: ma questa è un’altra storia e la racconteremo un’altra volta (e mi rendo conto una volta di più di come la nostalgia sia contagiosa).

    Intanto il paladino del legno è arrivato alla svolta. «A diciannove anni, dopo la parentesi militare, vengo a sapere da un amico che a Varese c’erano tanti sciuri che nelle loro ville commissionavano lavori di pregio: e così dall’oggi al domani mi sono ritrovato a realizzare armadi e tavoli di quelli belli, artistici, massicci, che si facevano un tempo; ho portato a Varese i miei genitori – la mamma all’inizio aveva paura che mi mettessi coi contrabbandieri! – ride – e poi mi sono fatto una famiglia mia e ho lavorato trent’anni in azienda davanti al Tribunale: e adesso sono in pensione da tanti anni quanti ne ho lavorati» conclude malinconico con il suo leggero accento oriundo e arioso.

    «E non mi ero mai fermato nemmeno dopo il pensionamento – precisa – perché ho continuato a creare e riparare tavoli, sedie ed altri oggetti nel mio piccolo laboratorio a Belforte, per gli amici o su commissione. Anche tutte le panche della chiesa del Lazzaretto e i mobili del settore musicale sono miei. Ma adesso da due anni in qua la vita sta prendendo ritmi diversi: questa pandemia ci ha cambiati, e io che ho amato il mio mestiere come fosse il più bello del mondo, adesso sento che mi manca tanto come l’aria che respiro».

    Ruggero senza i – «era un nome che nel Veronese si usava, alla mia epoca» conclude, alludendo alla letteratura popolare dei cantastorie cui avevano attinto anche Boiardo e Ariosto – mi saluta reggendo il sacchetto del pane stretto al cuore, portandosi via in quel saluto i suoi ottantotto anni di lavoro, di passione, di poesia. Avrei potuto forse non raccontare questa piccola storia deliziosa? Anche questa è la mia Varese, certamente quella meno conosciuta: ma le piccole storie sono quelle da raccontare con gli strumenti più fini, e in pochi ormai li possediamo.

    (p.s. siete in tanti a chiedermi la continuazione di Flora: non preoccupatevi: sta arrivando!)

  • La storia di Flora, maestra gentile

    (un fiore di campo alla De Amicis di via Aquileja a Varese, aprile 2022)

    Cari amici,

    nelle poche ore trascorse da quando ieri pomeriggio ho dato vita a questo blog – che, come spiegavo, in realtà è la continuazione di un lavoro analogo iniziato su Facebook due anni or sono, e sospeso pro tempore, mi avete riempita di graditissimi riscontri in via privata. Ad essi vorrei rispondere puntualmente e lo farò, ve lo prometto, prossimamente, aggiungendo qualche riga più rappresentativa intorno alla poetica delle piccole cose e del giullare: oggi invece mi preme dar vita al mio primo personaggio e alla sua storia, che spero vi entrino nel cuore come da tempo sono entrati nel mio.

    Flora – questo il suo nome di battesimo, nome vero e non di fantasia benché rispondente alla soave persona che dobbiamo immaginare e che è veramente stata – è una maestra elementare di tanti anni or sono.

    Insegna alla De Amicis, la scuola di Valle Olona, negli anni Trenta del secolo scorso. Terminata da poco più di un decennio la Grande Guerra, con lei si era esaurito anche il colpo di coda dell’influenza spagnola, che si era innestata sui razionamenti alimentari e sulla carestia, prostrando la popolazione già messa a dura prova dagli eventi bellici e dalle innumerevoli perdite di giovani vite al fronte. Numerose malattie infettive – epidemie ripetute di morbillo in primis, ma anche l’influenza, la scarlattina e – non ultima – la tubercolosi – avevano ulteriormente angustiato la popolazione scolastica negli anni successivi: eppure, quando Flora viene chiamata a prendere servizio a Varese, è perché le classi delle scuole cittadine sono talmente numerose da arrivare alle sessanta unità, e urge sdoppiarle incrementando il numero dei docenti e allestendo con urgenza nuovi edifici scolastici di adeguate dimensioni.

    E’ proprio in quegli anni che si va progettando la nuova De Amicis di via Aquileja, essendo la scuola ubicata nell’edificio costruito ai Ronchi negli anni Ottanta dell’Ottocento ormai verso l’esaurimento degli spazi e del suo compito (gravi con gli altri i problemi idraulici, di cui si legge nelle delibere di giunta di fine secolo). Quel primo di dicembre del 1929, quando incontra per la prima volta le sue alunne varesine, la giovane insegnante milanese descrive con occhi commossi il suo novello regno:

    «Oggi ho assunto la terza classe femminile formata mediante lo sdoppiamento di quella numerosa già esistente. Siamo allogate nel locale della Cooperativa Fascista Filippo Corridoni. L’aula è al secondo piano, è piccola e ci si sta appena appena, ma è graziosa e raccolta; illuminata da due finestre che dominano la strada a zig zag che conduce a Varese e il profilo dei più rinomati monti del luogo: il Campo dei Fiori e S. Maria del Monte».

    Una classe vivace e promettente che fa subito festa a Flora: un colpo di fulmine reciproco, benché – sottolinea la giovane – alcune alunne “si sono commosse al pensiero di dover lasciare il loro maestro». Ci si chiederà chi fosse questo insegnante tanto amato in una classe originariamente composta da 58 allievi: si trattava nientemeno che del neodiplomato Leopoldo Giampaolo, il futuro direttore dei Civici Musei, della Biblioteca, uomo di notevole levatura culturale e insigne storico varesino, i cui esordi di insegnante a fianco di Flora ho raccontato nelle pagine del Calandari do ra Famiglia Bosina di quest’anno e che vi invito caldamente ad andare a cercare dal caro amico libraio Canesi di via Walder (farete un ottimo acquisto, dal momento che la piccola Laura Aresi, ovvero chi scrive, con il nome avito, legata ai natali bergamaschi, sul Calandari è affiancata da firme prestigiose e pezzi imperdibili legati alla memoria del nostro territorio).

    Io non andrei oltre col racconto, oggi. Per una serie di contingenze si è fatto tardi e devo attendere a cose domestiche e a qualche pagina di studio che mi attende ogni sera come conforto dell’anima. Solo, vorrei aggiungere qualche piccolo dettaglio: Flora era nata a Milano nel 1899 e si era diplomata a vent’anni all’istituto Tenca di via Moscova (a cui mi riprometto sempre di scrivere per cercare le note più acerbe del suo passaggio terreno, non breve come vedremo benché pressoché dimenticato dai più). A Milano risiedeva con la sua famiglia e fino alle soglie del secondo conflitto mondiale fece la pendolare dal capoluogo lombardo a Varese, prendendo il treno prestissimo ogni mattina e arrivando nella Città Giardino al sorgere del sole: e con lei, bella come un fiore di primo mattino – così mi ha raccontato qualche tempo fa una sua allieva oggi novantenne, che vive tuttora nel suo culto – iniziavano liete le giornate di studio delle bambine olonesi, affezionatesi a lei in un batter di ciglia, come fossero le figlie che non avrebbe mai avuto.

    (Questo racconto è dedicato alle maestre della scuola Sacco, eredi spirituali della De Amicis per tanti motivi, non ultimo il fatto che allorché chiuse, nel 2010, per motivi non ancora ben vagliati – ne riparleremo – i piccoli transfughi e le loro insegnanti migrarono in massa alle elementari belfortesi, fondendosi in un unico destino; in secondo luogo, perché il cursus honorum delle maestre della Sacco si è sovente fondato, sin dai suoi esordi nel ‘64, su una precedente gavetta alla De Amicis, così come mi ha confermato questa mattina la maestra Francesca, che ama particolarmente i miei racconti storici sulle scuole varesine, condotti negli archivi della Righi quanto in quelli anagrafici e storici varesini e milanesi. Per la cronaca, Flora questa gelida e buia mattina di primo aprile, esordita con la nevicata al Campo dei Fiori e al Sacro Monte, è sicuramente stata l’artefice del piccolo miracolo occorso alla Sacco, ove si erano guastati dalla tempesta di venerdì sera le centraline di controllo del riscaldamento e della luce, e non v’era verso di trovare l’inghippo: non è la prima volta che parlando di lei i guai scolastici si risolvono e torna il sereno. Un nume tutelare gentile che ha commosso anche Rossella, amica di tanti anni, a cui parimenti dedico queste pagine, e affettuosamente ringrazio per esserci stata vicina).